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Lezioni sull'acqua
Lezioni sull'acqua
Lezioni sull'acqua
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Lezioni sull'acqua

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About this ebook

Per il vecchio Giovanni, che vive da solo in un borgo spopolato a sud del Po’, la vita è un fuoco che si va spegnendo. Ha avuto un unico, grande amore all’età di vent’anni, finito troppo presto tra mille rimpianti. Quindi nient'altro che il suo lavoro appassionato di maestro elementare, per difendersi dai ricordi più amari: si è convinto, alla fine, di aver sprecato la sua esistenza. 
Del tutto inaspettati, però, ci sono Raimondo detto Mondo insieme ad Anna Rita, più Vera e Germano, che per motivi diversi vanno a cercarlo proprio nei giorni più cupi della sua vecchiaia. Tra loro, c’è chi indaga sul vero autore di una canzone d’amore dimenticata, e chi conduce una battaglia durissima per salvaguardare un territorio avvelenato e il futuro di chi si ostina a viverci, come il vecchio allevatore Ugone. Oppure chi, come Mondo, dopo anni d’immobilismo ha deciso di entrare nel bosco e risolvere un enigma legato all’infanzia.
Persone ed eventi convergono a sorpresa nel minuscolo paese di Norreno in una strana estate, a cavallo di Ferragosto. Capirsi e dare una risposta a tutte le domande all’inizio sembra impossibile, ma a volte basta un piccolo dettaglio a gettare una nuova luce sugli eventi di una vita intera.
LanguageItaliano
PublisherArmando Polli
Release dateJan 9, 2020
ISBN9788835362180
Lezioni sull'acqua

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    Lezioni sull'acqua - Armando Polli

    STRATEGIE

    1. I vecchi

    Di ritorno dall’ultima battuta di caccia nel bosco, gli uomini si affacciano nuovamente sul villaggio che hanno lasciato di buon’ora insieme ai cani. Quando sono usciti, il cielo era ancora buio e senza stelle.

    Sono ingobbiti e visibilmente stanchi mentre avanzano nella neve alta, e quello che portano sulle spalle è un magro bottino, ma finalmente imboccano il pendio che digrada verso la spianata dov’è adagiato il borgo. Il paesaggio in basso si addensa di figurine e dettagli, in una quieta animazione che a loro, di certo, deve suonare rassicurante come tutte le cose conosciute.

    Dal punto di vista cromatico, il contrasto tra il bianco squillante della neve e le figure scure in primo piano è bilanciato da vaste zone di grigio con sfumature verdastre: il ghiaccio e il cielo plumbeo, in particolare.

    Sulla sinistra del drappello, altri uomini alimentano il fuoco di fronte a una locanda, mentre sui piccoli laghetti gelati adulti e ragazzi sembrano intenti a giocare, pescare o pattinare. Sulla destra, più in basso, anche due figure femminili trafficano sul ghiaccio, e sul ponticello, poco più avanti, qualcuno trasporta con fatica sulle spalle un grosso fascio di legna.

    Sullo sfondo della campagna, si scorgono a perdita d’occhio case sparse e campanili, alberi scheletriti e persone in movimento nella neve e sul ghiaccio.

    I corvi neri appollaiati sui rami spogli, e sullo sfondo le cime aguzze e incombenti dei monti, trasmettono fino alle ossa tutto il freddo della stagione invernale al culmine, è vero, ma nell’insieme, per contrasto, si respira soprattutto il sollievo del ritorno. Alle proprie case e a chi le abita con loro, al cibo, al calore del fuoco nella tana chiusa e protetta. Mondo, almeno, lo percepiva distintamente.

    Da anni, nei giorni più tristi, i cacciatori gli parlavano come uomini vissuti che si rivolgono a un amico più giovane e inesperto, bisognoso di consigli, e lui li stava ad ascoltare.

    Quel quadro, che ormai conosceva a memoria in tutti i minimi dettagli, gli era piaciuto così tanto che ne aveva cercata, trovandola e acquistandola su internet, una fedele riproduzione che ora spiccava in bella vista sulla parete bianca dietro il suo letto.

    L’aveva dipinto Pieter Bruegel il Vecchio nel 1565.

    Dominata da freddo e neve, era un’immagine che rappresentava bene il curioso percorso di Mondo tra due poli opposti. Dopo aver studiato per anni le più classiche civiltà affacciate sulle sponde del Mediterraneo, in particolare l’antico Egitto, e aver sfiorato la laurea in Storia Antica, si era invaghito del grande freddo, e in generale del concetto più classico di Nord, in tutte le sue sfaccettature.

    Quel processo era maturato negli anni, e per vie traverse, quando aveva già mollato gli studi in seguito al peggioramento di suo padre. È vero anche che soffriva il caldo da sempre, e al momento si portava ancora dietro quasi ottanta chili, pur essendo un normotipo alto un metro e settanta. Probabilmente c’era anche dell’altro dietro questa attrazione per l’estremo Nord, ma ricordava ancora bene una caldissima domenica di Agosto. Appena rientrato, dopo aver raggiunto la farmacia di turno per acquistare le medicine necessarie a suo padre, era giunto a una semplice verità ormai non più eludibile, mentre si guardava stravolto dal sudore nello specchio del bagno: Io odio l’estate. Non era stato sempre così, e non era neppure l’unico lato curioso del suo carattere. Per esempio adorava la musica, dalle canzoni alla lirica e alla sinfonica, ma era troppo pigro per imparare a suonare uno strumento qualsiasi. Ci aveva provato con una chitarra di seconda mano, ma gli mancava la necessaria disciplina per poterci riuscire. Come se non bastasse, oltre a questo, poteva osservare affascinato i gatti per ore, ma non ne aveva mai preso uno in casa. Suo padre era convinto d’essere allergico al pelo felino, e anche senza portare prove a sostegno della tesi questo aveva chiuso l’argomento. Ora che viveva solo lui avrebbe potuto fare come voleva, ma esitava.

    Ma se badi agli altri per lavoro! lo rimbrottava Leonardo, quello del secondo piano. Me lo spieghi che problema ti fai con una bestiolina? Guarda, capirei anche un cane, al limite, ma un gatto...Ti farebbe parecchia compagnia, un bel micio. Dicono che rilassa, che aiuta a combattere lo stress.

    " Appunto perché mi occupo degli altri dal lunedì al sabato, e sto così poco in casa, non potrei accudirlo come sarebbe giusto…E poi chi lo

    dice che sono stressato?"

    E l’altro, glissando: Dì la verità, invece: che ti piace troppo stare da solo e senza pensieri.

    Forse è così.

    La verità, forse, è che Raimondo detto Mondo era una contraddizione vivente, e lo sapeva. I poli opposti in lui si tenevano insieme, certo, ma senza attrarsi: avevano sviluppato tra loro una sorta di equilibrio che scongiurava il crollo solo evitando per mutuo interesse di darsi noia. Il problema erano gli altri, che proprio non capivano come facesse a vivere tra contrasti tanto palesi: e dire che non conoscevano quelli più profondi, che avevano fatto di lui quel che era. Forse per questo ormai frequentava pochissime persone, sempre le stesse in fondo. Secondo i suoi calcoli, d’altra parte, i suoi veri amici avevano ormai un’età media di sessant’anni.

    Lui, che ne aveva trentacinque, non aveva mai avuto grandi certezze. Perfino del suo aspetto, quando si guardava allo specchio, non era troppo convinto: quei baffetti senza barba, di un rosso più chiaro dei capelli, gli davano un’aria anacronistica, quasi primo-Novecento. Nessuno li aveva mai portati in famiglia, ma lui se li era fatti crescere al liceo, perché gli pareva dessero più carattere al suo viso pallido e quasi anemico. Ora che ci si era abituato, non avrebbe potuto più tagliarseli senza sentirsi nudo.

    Anche il lavoro che faceva, a pensarci bene, non era che la prosecuzione di un’abitudine. Quando suo padre si era ammalato, otto anni prima, aveva dovuto occuparsene da solo, a tempo pieno, perché era figlio unico e sua madre era morta quando lui era ancora al liceo. Doveva ricordarsi le pillole per il cuore, la prostata e la pressione, farlo alzare e sedere, aiutarlo a mangiare, accompagnarlo in bagno e via dicendo. In pochi mesi aveva imparato le più sofisticate arti domestiche, lui che non aveva mai fatto alcunché oltre a leggere e fantasticare sui viaggi più improbabili, figurarsi. Una mattina l’aveva trovato morto nel letto, sereno come non lo vedeva da tempo e si era detto che a volte, davvero, per certi uomini la pace sta solo nella fine.

    Si era accorto subito che gli mancavano le cure quotidiane che gli prestava, anche quelle più noiose e magari sgradevoli. Si trattava di ripetere ogni giorno, alla stessa ora, gesti tutti uguali con variazioni minime, ma in cambio, ora gli tornava in mente chiarissimo, riceveva spesso un sorriso dolcissimo in segno di riconoscenza. Una volta, dopo che l’aveva fatto sedere a fatica nella sua poltrona davanti alla tivù, suo padre gli aveva afferrato la mano per baciargliela: imbarazzato, aveva fatto finta di niente, ma quel gesto gli era rimasto dentro.

    L’appartamento di settantacinque metri quadri dove abitavano da sempre, in quel quartiere popolare ai margini del centro, adesso gli sembrava vuoto. Incredibile, pensò, come i passi e le parole sussurrate di un uomo, i piccoli rumori della vita quotidiana, possono riempire le stanze di una loro musica minimale e farti compagnia. Ecco perché, una volta cessati, veniva voglia di sparare al massimo il volume della tivù, o del lettore CD: fa paura il silenzio di una casa vuota, quando non ci sei più abituato.

    Suo padre era morto da più di due anni, eppure quel disagio non svaniva: perdurava, e a volte acutamente in certe ore vuote, come la scia di una stella morta.

    Prima la mamma, quand’era ancora adolescente, poi anche suo padre: era nato da genitori maturi, che si erano sposati dopo i trent’anni. In ogni caso, si accorse a un certo punto che con gli anziani aveva sviluppato un feeling particolare: con loro, per qualche ragione, riusciva a stabilire sempre una comunicazione, mentre con quelli della sua età non legava facilmente. Così, tutto considerato, fare di quella sintonia un vero lavoro gli venne naturale, anche perché la carriera accademica non l’aveva mai attirato. Gli mancava ogni vocazione per l’insegnamento.

    Se una vocazione ce l’aveva anche lui, comunque, stava da tutt’altra parte: adesso si trattava solo di trovarla.

    Intanto le badanti dell’est lo guardavano con sospetto. Da quando si era sparsa la voce che faceva in pratica il loro stesso mestiere, sia pure solo part-time, era diventato un diretto concorrente più che un collega. Il fatto che fosse italiano, e uomo per di più, costituiva semmai un’aggravante, anche se forse le confondeva un po’.

    Anche quella mattina ne ebbe conferma, quando incrociò la moldava che lavorava nello stesso condominio dove lui assisteva Gigliola, una donnina pelle e ossa quasi ottantenne con problemi di mobilità e pressione alta. Lui e la badante si scambiarono di nuovo una lunga occhiata silenziosa, e per un attimo si sentì come Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco, ma senza pistola e molta sicurezza in meno.

    Probabilmente mi odia confessò a Gigliola, una volta entrato. Però la capisco. Mi sa che sono l’unico italiano che ruba il lavoro agli immigrati.

    Gli venne da ridere a quell’idea, ma Gigliola lo guardava di traverso. Sembrava avesse qualche pensiero, e lui capì ch’era un’altra delle sue giornate nere.

    Chi è che ti odia? fece con un attimo di ritardo, senza cogliere il suo paradosso.

    Parlavo della badante che lavora per la tua amica, qui al piano di sopra.

    Io non ho nessuna amica tagliò corto Gigliola.

    Lui la guardò sorpreso: Ma come, parlo di Bruna...Se state sempre insieme, voi due!

    Gigliola fece un ghigno e con la mano un gesto che voleva dire: storia vecchia. Aveva un caratteraccio, e da quando veniva ad assisterla, circa sei mesi, non c’erano mai due mattine di fila che la trovasse dello stesso umore. Aveva bellissimi occhi azzurri dietro occhiali spessi come fondi di bottiglia, capelli grigi molto corti e una bocca dalle labbra sottili sempre atteggiate a una smorfia scettica.

    Mentre Mondo le misurava la pressione, come tutti i Lunedì, lei cominciò a raccontare. A strappi, con la bocca sempre più storta dal disprezzo.

    A quanto pare, accusava l’ex amica di averle rubato una collana di perle che teneva sempre dentro un vecchio barattolo del caffè in cucina: un regalo del suo primo figlio, che abitava lontano. A venire da lei la sera e soprattutto la domenica, quando Mondo aveva il giorno libero, era l’altra figlia sposata che stava ancora in città.

    Chi altro può essere stato secondo te? Lei, ti dico, ci metterei la mano sul fuoco...È l’unica, oltre te e la mia Loriana, che mi entra in casa, e siccome voi non lo fareste mai vuol dire che è lei la ladra, quella schifosa!

    Stai calma, che ti sale la pressione...Ecco, sai quant’è oggi?

    A sentirlo, Gigliola non fece una piega, anche se la massima sfiorava i centosessanta. Sembrava che avesse per la testa solo la vicina di casa, e proprio quel pensiero influiva sull’ipertensione. Mondo, per distrarla, cercò inutilmente di cambiare discorso, riportandolo sulla sua rivalità con le badanti straniere.

    Insomma, ci hai mai parlato con questa badante? Come si chiama?

    Lei fece spallucce: Cosa vuoi che sappia io come si chiama? Per me si può chiamare anche Biancaneve, che me ne importa?

    Be’, importa a me, perché ogni volta che la incontro per le scale sembra che voglia fulminarmi con lo sguardo. Volevo sapere che tipo è, magari è solo una mia impressione. Io contro gli stranieri non ho niente, si capisce, anzi...

    Anzi cosa? Dovresti starci attento, invece. Sei troppo buono, caro mio, qui si scherza poco con certa gente...Non la guardi la tivù? Una volta hanno detto che una di quelle là, con la scusa di assistere una povera vecchia come me, anzi più vecchia ancora, ha chiamato il suo ganzo in casa e prima l’hanno massacrata di botte, poi le hanno vuotato i cassetti. Capito che roba? La prossima volta che la incontri, quella baldracca, dille che si faccia gli affaracci suoi, oppure torni a fare la fame al suo paese!

    Mondo sospirò, senza replicare. Ormai sapeva che quando Gigliola era di quell’umore, a darle retta si peggiorava la situazione. Così le somministrò le pillole per la pressione, quindi sistemò la spesa in frigo e nella credenza. Lei lo guardava apparentemente distratta, ma in realtà sempre vigile. Sospettava sempre che lui avesse dimenticato qualcosa.

    Me l’hai preso lo yogurt alle prugne? Lo sai che mi aiuta a farla tutta insieme, la mattina. Se no, dopo, è come trascinarmi un baule sullo stomaco.

    Preso, Gigliola, tranquilla: quattro bei vasetti.

    Uhm. E la carne? Ti sei ricordato di prendermi il filetto stavolta, invece di quelle bistecchine di plastica che compri sempre? Con la dentiera faccio sempre una fatica bestia a masticare, dovresti saperlo...

    Ma sì, ti ho preso due fettine così tenere che si tagliano con un grissino.

    Quello era il tonno, stupidino! Oh, non sono mica rimbambita, che non me lo ricordo più. Oggi hai proprio voglia di scherzare, eh? Vorrei sapere perché sei tanto allegro...Eppure non te la passi mica tanto bene, anche te.

    Mondo si sedeva all’altro lato del tavolo: Io? Che vuoi dire?

    Oh, che voglio dire, sentitelo! Ma se alla tua età sei costretto a passare tutto il tempo con noi vecchi arnesi per quattro soldi, mica è tanto normale...Diventerai noioso come noi, più di adesso. Tu dovresti sposarti e trovarti un lavoro serio, ecco cosa. Che hai studiato a fare allora? Per questo lavoro non c’era mica bisogno di laurearsi, bastava la quinta elementare, come ho fatto io.

    Infatti non ce l’ho mica, la laurea.

    Ah no? Peggio per te, allora.

    Lui sorrise paziente, e lei allora lo incalzò: E una donna ce l’hai, almeno?

    No, Gigliola, neppure quella.

    La vecchia rise soddisfatta: Allora lo vedi che c’hai poco da scherzare? Trovati un lavoro, poi una bella figliola e facci due o tre bambini, così vedrai come tutto si sistema...La vita è tutta qui, bello mio, e non c’è altro, sai?

    Può darsi.

    Lui si alzò, era già l’ora di occuparsi dell’altro vecchino. Siccome però abitava dall’altra parte della città, avrebbe preso il tram che per fortuna passava proprio lì sotto, a due passi dal portone.

    Gigliola lo guardò preoccupata: Come, vai già via?

    Devo andare da Tannio, lo sai. Ho il bus tra cinque minuti.

    Eh, tanto è sempre in ritardo...Come sta quello là, a proposito? Voglio dire, secondo te chi è che tira prima le cuoia di noi due?

    Ma cosa dici?

    Dico solo ch’è una bella gara, anche se tutta a rovescio...Sì, perché stavolta vince quello che arriva secondo!

    Lui rise di quell’arguzia, ma Gigliola adesso lo guardava tutta seria, e lui indovinava i suoi pensieri. Aveva tutta la giornata davanti, e lui era l’unico che parlava con lei finché sul tardi non passava sua figlia, ma neppure sempre in verità. A volte la chiamava e basta. Ecco perché ogni volta, andandosene, Mondo si sentiva un po’ in colpa, anche se quelli erano gli accordi: solo i primi tempi, per un breve periodo, la figlia di Gigliola gli aveva chiesto di restare lì per la notte, perché la vedeva inquieta e più strana del solito.

    Le accese la televisione, sintonizzandola sul suo canale preferito: quello dove tutti disquisivano e litigavano sull’universo mondo e dintorni. Ci si divertiva.

    Domani esce la tua rivista preferita le disse prima di uscire. Te la porto?

    Ma sì, bravo, va bene. Ciao, e non fare tardi.

    Fuori, proprio davanti all’ingresso, due badanti si erano fermate a parlare. Avevano entrambe i carrelli stracolmi con la spesa, e parlavano fitto in una lingua che poteva essere rumeno. Vestivano tutte uguali, con un abbigliamento pratico adatto a ogni incombenza: scarpe basse e robuste, jeans e giacchino corto. Appena lo videro, però, tacquero insieme e gli rivolsero un’occhiata che non pareva troppo cordiale. La voce si spargeva in fretta nel mondo delle badanti.

    Scusate fece lui, per provare almeno a scalfire quella diffidenza. Sapete se l’autobus numero due è già passato?

    Le donne si guardarono, forse non avevano capito. Lui allora scandì più lentamente la domanda e una delle due, quella bionda e corpulenta, la tradusse all’altra.

    Due mi sembra che no fece quella, una moretta con una leggera peluria sul labbro superiore.

    E la bionda aggiunse: Sì, sempre fa tardi qualche minuto.

    Ah, meno male. Allora grazie mille, arrivederci.

    Esibì il suo miglior sorriso, e le due donne ne abbozzarono uno più tiepido, di rimando. Com’era andata? Chissà. Mondo sperava che la volta seguente, almeno, lo avrebbero guardato con più simpatia e meno ostilità, ma non s’illudeva.

    *

    MONDO VIRTUALE (1)

    Tatiana: Perché tu fai lavoro di femmina?

    Mondo: Ma smettiamola con questa storia, una buona volta! Per me è un lavoro come un altro, capito? Non ho preclusioni.

    T : Cosa è precu...No capito. Tu sei buffo italieno, parli strano, non so...Perché non puoi fare avocato, muratore, ingeniere come tutti altri? Tu così rubi lavoro a noi che ha bisogno veramente, non sai che è difficile? Io ho figli, due, e nessuno ha lavoro.

    M: Va bene, ma ho bisogno anch’io di lavorare. Non vivo mica d’aria!

    T: No capito, chi è Daria? Io Tatiana.

    M: Voglio dire che anche per noi è dura con il lavoro. Voi che arrivate qui credete che siamo come in America, ai tempi della corsa all’oro. Che c’è lavoro per chiunque, e tutti possono avere il loro posto al sole. Vi sbagliate, purtroppo non è così.

    T: Tu parli strano, ma credi che Moldova meglio che qua? Tu neppure sai dov’è Moldova…Voi qui dite Moldavia, e no sapete niente di nostro paese. È Moldova, no Moldavia!

    M: Certo che lo so, per chi mi prendi? Sta lassù, sopra la Romania…

    T: Moldova no è sopra Romania, tu sbagli. Moldova è tra Romania e Ucraina, e una volta molto più grande paese che ora. E tu sai quale è capitale?

    M: Dunque, la capitale...Ora non ricordo bene, ho un vuoto di memoria.

    T: Tu no sai niente, io sapevo. Chisinau è capitale, Chisinau è grande città su fiume Bic. Voi italieni molto ignoranti, no sapete niente. Voi sempre a dire Roma e Napoli, Venezia e Pescara...Voi ignoranti e razzisti.

    M: Pescara? Pensa che non ci sono mai stato...Comunque il razzismo non c’entra affatto. Mai sentito dire che un razzista ce l’ha con i moldavi. O i polacchi. Qualcuno magari ce l’ha con i negri, ma con voi dell’est europa sarebbe strano.

    T: Tu credi? E perché negri sì e moldavi no?

    M: È complicato. Un po’ è il discorso della guerra di religione, l’Islam e il cristianesimo...Ricordi, l’attentato dell’11 settembre? Poi per molti è proprio la paura del colore della pelle, del diverso. Per me è una sciocchezza, il concetto di razza è superato da decenni. Purtroppo c’è qualche politico che alimenta questa paura.

    T: Io no capisce politica italiena. Però a Moldova no abbiamo negri.

    M: Ovvio, perché dovrebbero venire da voi? A fare la fame per solidarietà? Comunque non è questo...A parte tutto, ripeto, io devo pur vivere, no?

    T: Non so, no è normale. Va bene, tu deve lavorare, ma uomini no fa questi lavori a Moldova. Nessuno, mai! Altri lavori, ma no quello. Forse va rubare.

    M: Cioè, dovrei delinquere invece che lavorare onestamente?

    T: No, però è normale, io penso, per uomo fare altro lavoro...Ma tu forse gay, che fai lavori di femmina?

    M: Ma cosa c’entra adesso? Assolutamente no! Questa però è un’idea terrificante...E poi ladri non si diventa da un giorno all’altro, non sarei neppure capace.

    T.: Questo no è problema. Se vuoi, ho amico che insegna te. Lui grande ladro, migliore di tutta Moldova, entra in case di gente ricca e ruba oggetti d’oro, tappeti, microonde, grande televizore quaranta pollici...Lui bravo, se io parlo di te lui poi insegna lavoro. No è tanto difficile, tu provi.

    M: Come?

    T: Ah ah ah! Che faccia strana tu ha fatto adesso...Io scherzo solo, no capito? Non dico veramente. Anche moldavi sa scherzare come voi, tu sai? (sghignazza)

    M: Ecco...Meno male.

    T: Ma tu adesso pallido molto, forse senti male? Aspetta che telefono Mila, amica romena. Suo fidanzato italieno è infermiere a ospedale.

    M: No, sto bene, lascia perdere. Però con tutti questi discorsi mi hai fatto sentire in colpa. Io le capisco anche le tue ragioni, ma in qualche modo mi guadagno solo da vivere. Tutto qui, non so fare altro.

    T.: No ha studiato? No laurea? A Italia tutti ha laurea, io vedo dove va lavorare…Tutti hanno figlio con laurea che fa spazzino oppure cameriere, o guarda televiziune in pigiama tutto giorno. Quelli peggiori, sempre ha brutto umore.

    M: Già, invece io no, non sono riuscito a finire. Studiavo, sì, ma mio padre era malato e dovevo occuparmi di lui.

    T: Ah, e padre ancora malato? Quanti anni ha lui? Io sono brava con vecchietti, ho grande sperienza. Anche se toccano culo, io capisco, sono bituata, no è problema. So che fare con loro, ho visto vecchietti uguali a piovra, tu sai? Uno di ottanta anni che inseguiva me tutto giorno per casa, io chiamato vicini, loro chiamato vigile, e quello chiamato dottore...Grande casino!

    M: Addirittura! Era un assatanato…E com’è finita?

    T: Io perso lavoro, ma quale mia colpa? Figli di lui dice che io puttana, ma no vero! No puttana, solo non sapeva...Ma ora io brava con vecchietti, ti dico, no problema più...E anche cucino bene per tuo padre, io so tutta cucina italiana: canelloni, pasta in forno e spaghetti a carbonara.

    M: Guarda che mio padre è morto due anni fa. E comunque non toccava il culo a nessuno…O almeno credo.

    T: Peccato! E perché tu no chiamato badante, prima?

    M: E che poteva fare una badante, scusa? Mica è un medico, che guarisce le malattie di cuore. Non esagerare.

    T: No capito. Ma badante aiutava lui, meglio che fai tu! Tu non vuoi spendere soldi e tuo padre ora morto. Io no capisco italieni, voi strana gente. Strano paese, e strana gente, no capisco. Chi capisce voi? Nessuno capisce, nessuno.

    *

    Se non aveva successo con gli altri, e con le donne meno che mai, era un problema di approccio più generale. Non diceva o faceva mai quel che tutti si aspettavano, così che alla fine lo consideravano un tipo alquanto bizzarro: più ingenuo che interessante, però.

    Per non fissarsi su questi problemi personali, quando non si occupava dei suoi vecchi inventava piccole strategie di sopravvivenza nei tempi morti. Appena salito sull’autobus, per esempio, anche quel giorno fece il solito computo delle donne e degli uomini. Le prime anche stavolta erano più numerose: nove a cinque, lui compreso. Spiegazioni possibili: gli uomini preferiscono l’auto e si sentono diminuiti a usare i mezzi pubblici, le donne invece sono più pragmatiche. Oppure è una questione di potere, insomma di soldi, perché un’auto costa e certe differenze tra i generi, nei salari, ancora esistono. C’erano anche due adolescenti che si baciavano, in piedi sul fondo, ma quelli non contavano: i giovani fanno razza a parte. Ma lui, a proposito, poteva ancora definirsi giovane o no? Quand’è che si finisce di essere giovane?

    Il bus si fermò con uno scossone, e quando ripartì le proporzioni tra i sessi erano ancora cambiate: undici donne e quattro uomini. Niente da fare.

    Il suo orologio segnava le dieci e cinquanta. Gli uomini lavorano a quest’ora, oppure dormono, magari ciondolano al bar sotto casa, se disoccupati o pensionati. Le donne di una certa età, al contrario, sono sempre in giro a fare spese o sbrigare mille faccende. Sono lì che trottano tra le buche e gli ambulanti molesti, su e giù dagli autobus, tenaci e concentrate sulla meta nel traffico che le insegue latrando. Vanno negli ospedali a trovare un parente malato, al cimitero per portare un fiore ai defunti e a parlare col marmista per la lucetta votiva che non funziona più sulla tomba della povera zia Gesuina. Se si sbrigano prima, magari passano a visitare una coetanea a letto perché si è presa una brutta storta, o quell’altra che piange sempre perché la figlia si è appena sposata e sta lontano. La loro giornata è fatta di attenzioni e gesti minimi, eppure mai superflui. Reggono i fili del mondo piccolo ben avvitati intorno al pollice, mentre con l’altra mano cercano nel borsellino i soldi del giornale che l’uomo di casa si aspetta al suo ritorno. Se no, poi chi lo sente? Uscendo dal supermercato cariche di buste, trovano anche il tempo di fare una carezza al cane legato davanti a un negozio, ma senza fermarsi, che si è fatto tardi.

    In confronto, certe ragazze più giovani ostentano una spavalderia quasi maschile che lo sconcerta. Sembrano impegnarsi nell’imitare il peggio degli uomini: fumano quando non è neppure più di moda, imprecano e sfoggiano un turpiloquio gratuito. Che bisogno c’è? Non lo capiva, o forse stava diventando davvero noioso e barbogio prima del tempo. Gigliola aveva ragione, pensò: a furia di stare con i vecchi si comincia a ragionare come loro.

    A proposito, avrebbe dovuto chiamare sua figlia, Loriana, per dirle della pressione in rialzo della madre: si era dimenticato un’altra volta di segnare i valori sul taccuino che tenevano sotto la credenza, e gli seccava. Le chiacchiere l’avevano distratto, doveva impegnarsi di più e rimanere concentrato. A quel lavoro ci teneva, anche se molti lo trovavano poco adatto a un uomo: inconsueto, soprattutto. Certo era molto più virile, pensava lui, fare la fame e sbattersi tra il collocamento e gli annunci di lavoro, con l’aria stoica di chi non si arrende e indomito sfida un gramo destino. Fesserie. Però era proprio quello il tipo che faceva simpatia alla gente: poveretto, quanto s’impegna, sono tempi duri, però ce la mette tutta. Uno come lui, invece, non suscitava che perplessità. Eppure lavorava, anzi lui lavorava sul serio e gli altri aspiravano a farlo, ma non serviva a niente: quello strano rimaneva sempre lui. Il badante? Ma quella è roba da donne! Qualcuno ridacchiava anche alle sue spalle. L’assioma pareva inconfutabile, mai nessuno che dicesse: be’, bravo però a guadagnarsi il pane, in fondo uomo o donna fa lo stesso, sempre faccende ingrate sono! E lo erano davvero, solo che a tutto ci si abitua, e gli anni passati ad assistere suo padre gli erano serviti.

    Ormai sapeva fare iniezioni d’insulina, cambiare un pannolone e misurare la glicemia con una certa sicurezza, proprio lui che da ragazzo, finché era viva sua madre, non sapeva neppure tenere in mano una siringa e in casa non muoveva un dito.

    A volte s’immaginava certi suoi amici, vecchi e nuovi, alle prese con quei bisbetici e rideva da solo: soprattutto Leonardo, ecco, sarebbe diventato matto o magari avrebbe rintronato di urlacci il malcapitato. Era un tipo depresso ma fumino, non aveva vie di mezzo. Il risultato era che a cinquant’anni suonati viveva solo, dopo aver perso un lavoro dietro l’altro e anche una moglie. Il figlio stava con la madre e quando andava a trovarlo mancava poco gli desse del lei, come fosse un estraneo. Ogni volta gli veniva da piangere, a raccontarlo, finché poi cominciava a imprecare con la società, i ricchi, le banche, i padroni del mondo: il suo rancore era pressoché universale. Non era colpa del sistema, ma dell’umana stirpe in quanto tale, compattamente unita contro di lui.

    Il bus rallentò ansimante, prima di arrestarsi di nuovo. Mondo contò rapidamente dieci donne e sette uomini, che adesso cercavano il pareggio e magari la vittoria in rimonta. Mancavano due fermate e basta: impresa difficile, ma non impossibile. Sarebbe stato un risultato storico, che non si verificava su quella linea da ben quattro mesi, ma solo in quella direzione, cioè quella che portava da Onesto Tannio, impiegato comunale in pensione. Nel senso contrario invece mai, la prevalenza femminile era addirittura schiacciante, doveva capire perché.

    In quei tragitti gli venivano fantasie curiose, ormai seriali. Non capiva se era così per tutti quelli accanto a lui, abituati a prendere i mezzi, o era una reazione molto personale a una vita diversa da come se l’era immaginata: una strategia di fuga. La sua fuga in ogni caso sarebbe stata verso Nord, non c’erano dubbi.

    Qualche anno prima aveva visto un film sulla nuova glaciazione che avvolgeva il pianeta come una morsa e la lotta per sopravvivere dei protagonisti l’aveva affascinato: era come se messo alle strette, l’uomo potesse ritrovare finalmente le basi di una nuova forma di solidarietà. Il comune pericolo, insomma, costringeva le persone più diverse a fare lega insieme contro la catastrofe climatica che li minacciava. Cadevano anche le barriere sociali e i conflitti che ci separano ogni giorno, per una forma di mutua solidarietà. Da quel momento il Nord, visto dalle regioni temperate nelle quali aveva sempre vissuto, gli sembrò un punto di ripartenza possibile, quasi una sorta di terra promessa.

    Alla penultima fermata salirono solo tre donne, e per gli uomini si fece notte, perché il conto adesso li dava sotto di sei. Come a dire: gioco, set, partita.

    Indubbiamente, seguitò a ragionare, il Sud del mondo era la culla delle civiltà più rinomate che conosceva bene, e anche dei primi sapiens . Luoghi dove la storia aveva trovato i suoi picchi, di uomini e conoscenza, tramandati per sempre ai posteri. Eppure, lui sognava di puntare dritto verso il Mare del Nord, fino alle distese ghiacciate dove la vita si raccoglie a fatica, con un senso di comunità più forte, però, di quella che aveva sempre conosciuto. È nelle condizioni di vita più estreme, pensava, che viene spontaneo riunirsi intorno al fuoco, sedersi in circolo e aspettare il primo sole che scongela la natura sepolta. Assistere a quel risveglio doveva suonare come un miracolo, dopo tanto buio.

    Quel contrasto lo seduceva, e non sapeva bene perché. Non era certo un grande viaggiatore: l’unica volta che aveva preso un aereo, per andare a Parigi in gita scolastica, si era imbottito di Xamamina fino a stordirsi per sopportarlo. L’idea che aveva di se stesso era di una persona tutt’altro che avventurosa, semmai piuttosto titubante, sempre in cerca di un angolo dove fantasticare in pace mentre fuori regna il caos e tutto corre troppo veloce. Non amava la velocità, gli piaceva piuttosto distinguere e tenere a mente i dettagli del paesaggio come uno di quei pittori fiamminghi che mettono a fuoco qualunque inezia, senza dimenticare nulla.

    Il bus mugolò mentre si arrestava e lui saltò giù, vincendo la naturale ritrosia a interrompere quella riflessione. Era già in ritardo e il geometra lo aspettava.

    TACCUINO 1999 - Alla fine dell’Ottocento i Maunder, cioè Edward Walter e sua moglie Annie, due astronomi inglesi, scoprirono che il grande freddo era dovuto a una ridotta attività del sole, o per meglio dire alla riduzione repentina delle macchie solari, già studiate in precedenza da Galilei e altri noti scienziati.

    In alcuni anni, addirittura, non si vide alcuna macchia solare, e i Maunder ne dedussero quindi che la piccola era glaciale concentrata in particolare tra il 1645 e il 1715, ma iniziata molto prima con pesanti effetti sull’economia e la vita quotidiana dell’epoca, dipendeva soprattutto da questo cambiamento, prima che da altri fenomeni tirati in ballo.

    Alcuni scienziati, ancora oggi, addebitano il brusco calo delle temperature a cause come la massiccia attività dei vulcani, ad esempio, con la conseguente immissione di anidride solforosa nell’atmosfera che riduce la quantità di radiazione solare che può arrivare sulla terra. Non è da escludere, ovviamente, che si tratti di cause concomitanti.

    Il dibattito è sempre aperto, ma di fatto, dopo i loro studi, il periodo suindicato di freddo estremo è oggi conosciuto appunto come Minimo di Maunder.

    L’Europa e anche il Nord-America furono i continenti più colpiti da questa ondata di gelo, e anche la pittura dell’epoca, specialmente quella fiamminga lo testimonia. Sono significativi soprattutto i quadri di Brueghel il vecchio, coi suoi villaggi sommersi di neve e gli abitanti che indugiano o pattinano sui piccoli laghi ghiacciati.

    Sullo stesso tema insistono anche le tele di Hendrick Avercamp, realizzate nei primi anni del Seicento, come Paesaggio invernale con pattinatori, per non parlare di Scena sul ghiaccio vicino a un villaggio, che è del 1615. Qui la popolazione sembra essersi riversata in massa sul corso d’acqua ghiacciato, dove hanno luogo incontri, discussioni e piccoli commerci, proprio come si farebbe nella piazza centrale di un qualunque paese.

    Ugualmente eloquenti i quadri di alcuni pittori inglesi di fine Seicento, spesso anonimi, che illustrano fiere e mercatini sul Tamigi ghiacciato: si vedono tendoni e bancarelle variopinti, con la gente che passeggia e conversa tranquillamente sul fiume gelato.

    Si capisce insomma che questo mutamento climatico non era più considerato episodico, ma ormai talmente stabile da poter predisporre ogni anno certi eventi pubblici per una certa data.

    Invece, come tutti sanno, ai nostri giorni il Tamigi non gela praticamente più, e quando accade è davvero un fenomeno che può definirsi eccezionale.

    Prendete una città qualunque, né grande né piccola, sdraiata in una blanda depressione non troppo distante dal mare. Il clima umido la impregna fin nel midollo, come succede al legno quando piove a lungo, finché si gonfia e rende impossibile anche chiudere bene le persiane per la notte. Bisogna accontentarsi di accostarle, senza neppure poter serrare il gancio apposito.

    Gli effetti di un tale clima nefasto sono molteplici: di colpo le penne smettono di scrivere, tubi e rubinetti si corrodono più in fretta e cominciano a gocciolare, e le strade al mattino presto sono bagnate anche se non ha piovuto. Oppure, basta appisolarsi pochi minuti s’un divano e quando ti alzi senti scricchiolare le ossa, impregnate come sono d’umido.

    Ecco dove lui era nato e cresciuto, in un posto dal clima malsano che gli aveva insegnato a odiare ogni cambio di stagione, sapendo che voleva comunque dire star peggio. Perché d’estate, poi, il caldo faceva impazzire e toglieva il respiro. A volte, quando l’afa era all’apice, gli sembrava di camminare con la testa infilata in un sacchetto di plastica.

    D’incanto, come a un segnale convenuto, la città si svuotava: una mattina, verso la metà di Luglio, Mondo usciva per le sue faccende e per strada non c’era quasi più nessuno, come la domenica mattina sul presto. Ogni attività si spegneva o andava a rilento. Le ombre si allungavano più nette sull’asfalto acceso dal sole e i rumori adesso erano come un’eco sbiadita, portata dallo scirocco che soffiava pigro dal mare distante una quindicina di chilometri, attraverso le maremme costellate di pini, serre, capannoni e canali d’irrigazione. Nei negozi la gente aveva facce smorte e parlava con una cadenza malata, come se fossero tutti posseduti da una febbre debilitante.

    Lui che non amava neppure la vita da spiaggia, si preparava a soffrire fino a metà settembre, ottobre a volte, quasi sempre chiuso in casa se non lavorava, con le finestre tappate e il cervello sintonizzato su quell’idea di Grande Freddo che gli dava almeno un sollievo immaginario. Bastava però che qualcuno lo chiamasse, lo distraesse un attimo da quel refrigerio mentale, per ripiombare nella lenta asfissia estiva. Una tortura.

    Erano i primi giorni di Giugno, e pensare che solo nel giro di qualche settimana sarebbe ricominciato quell’inferno lo angustiava. Cominciava a fare scorte, a mettere gelo e neve nella sua vita quotidiana, almeno a livello virtuale: dettagliate cartine geografiche dei paesi nordici, saggi e libri gialli di scuola scandinava affollavano la sua stanza. Li prendeva in biblioteca, dove ormai era di casa e una bibliotecaria gentile l’aveva preso in simpatia e glieli segnalava addirittura per tempo, quando cioè la stagione maledetta era alle porte. Per la verità, lei il caldo lo amava, ma era così poco abituata a visitatori tanto assidui che non voleva disamorarlo e così lo assecondava: in un certo senso, Mondo era uno dei pochi a dare un senso al suo lavoro.

    Spesso, nelle sale quasi deserte, a parte qualche pensionato annoiato che leggeva solo riviste e vecchie cronache locali, rimanevano a chiacchierare dei libri che preferivano. La signora Agnese, alla quale ormai dava del tu, adorava i romanzi russi: lui che li aveva sempre trovati indigesti per via di quei nomi impronunciabili, grazie a lei imparò comunque ad amare Turgenev, Gogol e soprattutto Dostojevskij. Gli aveva anche prestato il dvd con una trasposizione giapponese de L’idiota : il paesaggio ghiacciato del film era quasi una costante, un assedio che aiutava a calarsi in quelle atmosfere psicologiche così tormentate.

    La bibliotecaria aveva una figlia poco più che ventenne, Siria, disoccupata cronica e, a sentir lei, con la sinistra tendenza a portarle in casa vere facce da galera, mascalzoni matricolati e sbandati di ogni risma. Agnese si esprimeva così, secondo formule un tantino abusate, ma a lui la cosa piaceva. Parlando con lei, da qualche anno ormai, aveva imparato molte cose, perché aveva una cultura libresca sterminata, ma non lo faceva pesare. Qualche anno prima, per una così avrebbe perso la testa. Le donne mature tra l’altro gli erano sempre piaciute, più delle sue coetanee tanto spavalde, e quando frequentava i siti porno la categoria Mature (con le relative sottocategorie, da Milf a Hot Mom) era la sua prediletta. Chissà che vuol dire, si chiedeva senza osare approfondire.

    Quando non era in biblioteca non gli restava che il suo lavoro di assistenza part-time, per questo se lo teneva stretto: a parte i soldi, non aveva molto altro. I giorni liberi come la domenica, quando anche la biblioteca e le librerie erano chiuse, non sapeva mai cosa fare, a parte il cinema ogni tanto. Le due sole sale cittadine, però, in genere programmavano soltanto brutte commedie americane o film d’animazione che non gli dicevano granché. Non aveva neppure la patente e nessun amico con cui inventarsi qualche gita.

    Erano tutti sposati o imbucati in qualche posto, magari a sfacchinare nella bottega di famiglia: come Giannetto, ad esempio, che vedeva ogni volta passando davanti al negozio di orefice ereditato dai genitori. Se ne stava lì coi suoi buffi occhiali monocolo, ingobbito sugli orologi sezionati come cadaveri per l’autopsia, perché oltre a venderli li riparava anche. Una volta lui ci aveva portato quello del babbo morto da poco, che non andava più: ci si era affezionato, anche se aveva più di quarant’anni e la carica manuale.

    Giannetto l’aveva maneggiato con una smorfia disgustata: Minchia, ma ancora girano questi dinosauri? Non ne vedevo uno da quando avevo i calzoni corti!

    Alla fine l’aveva anche riparato, ma quel tono snob l’aveva talmente infastidito che non ci tornò più. Se pensava a tutte le volte che l’aveva fatto copiare a scuola, quel babbeo, o gli aveva fatto al volo la versione di latino! La cosa buffa è che in fondo non era neppure tra i peggiori: degli altri, a stento ricordava le facce.

    Barbara invece era un caso a parte. In realtà era stata in classe con lui solo il primo anno, perché non studiava affatto, e fu bocciata senz’appello. A quattordici anni già ne dimostrava venti e trattava tutti i maschi dall’alto in basso: anche col suo fisico mediterraneo, dalle forme abbondanti, a lui pareva un’attrice, sdegnosa e sempre annoiata, con un profumo addosso che stordiva. Siccome abitava nel suo stesso palazzo la vedeva spesso, anche dopo che fu bocciata, ma lei lo salutava appena, e spesso si accompagnava a qualche uomo più grande. Quello di Mondo era un amore innominabile, eppure evidente a tutti: Giannetto una volta gli disse che arrossiva come un pomodoro solo a incrociarla da lontano.

    E allora? A te non piace, forse?

    Certo che mi piace, tra quelle due tettone ci andrei a nozze! Tu però sei innamorato, caro mio, è tutta un’altra storia...L’ha capito anche lei, ecco perché ti tratta così: le donne ci godono a vederti strisciare. E più sono belle, peggio sono.

    E tu cosa ne sai?

    Ne so quanto basta, fidati.

    Venne fuori che ogni tanto andava a Roma ospite di un cugino più grande e scafato, che lavorava come agente nel sottobosco dello spettacolo e conosceva un sacco di attricette o figuranti sempre a caccia di particine: e

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