Nella casa di Aryaman
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About this ebook
Fantascienza - romanzo breve (65 pagine) - Un poliziesco ambientato in un'India futura e tecnologica
Nella casa di Aryman si presenta come una tradizionale storia poliziesca, con un cadavere in condizioni assai particolari, un astrofisico che lavora all’Università di Bangalore e si occupa dello studio delle stelle. Presto però ci accorgiamo che non siamo di fronte alla solita detective story, in cui dobbiamo individuare il colpevole dell’efferato delitto. La Bear infatti approfitta del mystery iniziale per fornire al lettore una splendida estrapolazione sociale e tecnologica dell’India futura (in particolare della città di Bangalore), un paese affascinante in cui le novità offerte dalla tecnologia (cambiamenti genetici, impianti neurali, network cibernetici, mondi virtuali) convivono con le tradizioni culturali più antiche e radicate, e un ritratto psicologico assai accurato e riuscito. Ferron, la detective che si trova tra le mani questo caso spinoso e delicato, il cui unico testimone oculare è un gatto pappagallo dotato di parola, è una delle figure più riuscite della fantascienza moderna. Accompagnata dal fido aiutante Indrapramit, Ferron dovrà fare i conti con le gelosie dell’ambiente universitario, e con le intrusioni di una madre ossessiva che vive in un mondo di memorie immagazzinate in un database virtuale, per venire a capo del rebus, apparentemente insolubile, della morte del fisico Dexter Coffin. Un romanzo breve affascinante e avvincente, con un mondo futuro assai ben dipinto e dei personaggi ben tratteggiati, classificatosi al quarto posto tra i migliori romanzi brevi del 2012 secondo l’autorevole rivista Locus.
Elizabeth Bear (nome completo Sarah Bear Elizabeth Wishnevsky), nata il 22 settembre 1971 a Hartford, nel Connecticut, è una delle scrittrici di sf e fantasy oggi più apprezzate. Vincitrice nel 2005 del John W. Campbell Award come miglior autore esordiente per la sua trilogia fantascientifica Hammered/Scardown/Worldwired, ha ricevuto numerosi altri prestigiosi riconoscimenti, come il Premio Hugo nel 2008 per il miglior racconto con Tideline (apparso su Robot n. 56 col titolo Sulla spiaggia), premio bissato l’anno successivo (2009) per il miglior racconto lungo con Shoggoths in Bloom (Shoggoth in fiore, uscito in questa collana). Solo pochi autori nella storia della sf erano riusciti nell’impresa di vincere svariati premi Hugo dopo aver vinto il John W. Campbell Award (C.J. Cherryh, Orson Scott Card, Spider Robinson, e Ted Chiang sono gli altri).
La Bear, che possiede uno stile letterario molto curato, come dimostrano Shoggoth in fiore e questo Nella casa di Aryaman (In the House of Aryaman a Lonely Signal Burns), è assai prolifica e non ha preferenza tra sf e fantasy, generi tra cui spazia con estrema disinvoltura e bravura.
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Book preview
Nella casa di Aryaman - Elizabeth Bear
9788825409574
1
Il viceispettore di polizia Ferron era china su quello che doveva essere il morto, le mani inguantate in areattina, i gomiti appoggiati sulle ginocchia coperte dalla divisa. Il corpo (presunto) giaceva in mezzo a un tappeto dai toni gioiello come una flaccida bottiglia rosa di Klein, e la sua superficie un tempo umida si stava indurendo. Il tappeto era ancora poco schiacciato, con le frange segnate solo minimamente dal peso e senza alcun segno di ingiallimento che potesse indicare che un oggetto trattato impropriamente con feromoni fosse stato in contatto per più di ventiquattro ore. Serpeggianti scie brunastre si vedevano intorno all’oggetto che assomigliava ad un cadavere; molto del sangue era già stato assorbito dal tappeto, ma ne rimaneva abbastanza perché Ferron potesse distinguere il contorno di impronte di zampe delicate e segni di lunghi peli.
Ferron sarebbe arrivata tardi da sua madre stasera.
Guardò il poliziotto capo Indrapramit e domandò stancamente: – Quindi questi sono i resti mortali di Dexter Coffin?
Indrapramit si strinse il mento, con le dita accuratamente incrociate sulle labbra screpolate dal calore estivo. – Non saremo sicuri finché non arriva l’esame del DNA. – Uno stivale al ginocchio tirato a lucido e fasciato da un copristivale sterile si mosse in avanti, mancando il corpo per quindici centimetri. Era nervoso? O solo attento a non inquinare le prove?
Disse poi: – Che cosa ne pensi, Capo?
– Mah. – Ferron si alzò, raddrizzando la colonna piegata. – Se questo é Dexter Coffin, ha scelto una forma adatta,non ti pare?
Il lussuoso monolocale di Coffin era stato sigillato quando erano arrivati gli agenti di pattuglia, chiamati per un controllo assistenziale dopo che Coffin non aveva risposto al supervisore dell’alloggio. Quando la polizia aveva buttato giù la porta – gli override d’emergenza bloccati – avevano trovato questo. Questo tubo rosa. Questa enorme salsiccia. Quest’oggetto carnoso come un’anguilla gonfia, uno di quei giocattoli per bambini, un lungo toro circolare pieno di liquido.
Ferron immaginava che anche avendo una mano grande abbastanza per tirarlo su, sarebbe subito schizzato via dalla presa.
Ferron era sicura che c’era una massa sufficiente da corrispondere a quella di un adulto maturo. Ma come, esattamente, si poteva . . . invertire
qualcuno?
Il viceispettore fece un passo indietro dal cadavere per fare un giro lento e ponderato intorno.
L’appartamento era arredato per avere ospiti. Il letto, gli elettrodomestici erano stati messi via. Il tavolo in stile occidentale era alzato ed esteso per mangiare, uno scaffale smontato per le sedie. C’era una postazione di lavoro in un angolo, non piegata – Ferron immaginava – per la semplice scomodità di dover riporre così tanti misteriosi dispositivi tecnici. Proiezioni ortogonali in sobrie cornici moderne decoravano il muro in fondo: immagini a colori potenziati di uno splendido ammasso di stelle. Qualcosa ripreso probabilmente da un telescopio orbitale, con troppe migliaia di stelle nel cielo perché Ferron, nonostante i suoi studi, riconoscesse il navagraha, i segni dello zodiaco Indù.
Nell’angolo opposto dell’appartamento, dove l’avresti visto ogni volta che sollevavi la testa dalla postazione di lavoro, c’era un Ganesha in ottone. Il piccolo vassoio delle offerte ai suoi piedi aveva buste di kumkum e curcuma, fiori profumati, dieci centesimi americani d’epoca, un bastoncino sbriciolato di incenso incombusto infilato in una banana. Uno scialle di seta, indaco come il cielo a mezzanotte, copriva le cosce di ottone del dio.
– Carino – disse Indrapramit in modo sardonico, seguendo il suo sguardo. – L’americano si stava indigenizzando.
Il tavolo da pranzo apparecchiato per due all’occidentale suggeriva a Ferron una serata romantica. Se uno dei soggetti non fosse stato rivoltato come un calzino.
– Dov’è il gatto? – disse Indrapramit, indicando le impronte di zampe che stavano svanendo. Ferron decise che sembrava calmo, almeno in apparenza.
E non doveva più sorvegliarlo, aspettandosi momenti di debolezza ogni istante. Preoccupandosi avrebbe solo peggiorato le cose. Era tornato a lavorare ormai da un mese e mezzo ed era ora di rilassarsi. Fidarsi dei sette anni di collaborazione e amicizia, e fidarsi che lui sapesse quello che era necessario per tornare in servizio attivo, e come chiederlo.
Questo significava mettere da parte il suo comportamento distaccato, e affrontare i suoi problemi.
– Stavo pensando alla stessa cosa – Ferron ammise. – Nascondendosi dal farang, immagino. Qui, micio micio. Qui micio…
Attraversò la stanza fino ai pensili e frugò dentro. C’era una scodella per l’acqua, quasi asciutta, e una scodella di cibo vuota in un angolo del lavandino. Il cibo doveva essere nei pressi.
Impiegò meno di trenta secondi per localizzare una lattina decorata con lische di pesce e impronte. Dentro, palline grigio-marroni dall’odore oleoso. Mise la scodella sul ripiano e sbatté una manciata di croccantini dentro.
– Miao? – disse qualcosa dall’angolo buio sotto la poltrona che probabilmente si trasformava nel letto di Coffin.
– Micio micio micio? – Raccolse la scodella dell’acqua, la sciacquò e la riempì dal rubinetto. Qualcosa saltò dal pavimento sul bancone e strusciò la testa contro il suo braccio, miagolando follemente. Era la generazione di gatto pappagallo dell’anno precedente, un palla di pelo blu giacinto su zampe giallo-sole contornate da macchie brunastre. Aveva un colletto da smoking e un pizzetto coordinati e occhi dorati penetranti che catturavano e concentravano la luce solare filtrata.
– Senti un po’, ti pare corretto stare sul bancone?
– Miao – disse il gatto, reclinando la testa con curiosità. Non si mosse.
Indrapramit era dietro il gomito di Ferron. – Non parla?
– Ehi, Micio – disse Ferron. – Come ti chiami?
Il gatto si mise seduto, in equilibrio sulla ringhiera tra il lavandino e il bordo del bancone, e sbatté la sua soffice coda blu sui suoi piedi. Il miagolio fece vibrare i suoi baffi e i lunghi peli sul suo colletto. Ferron offrì qualche croccantino, e lui accettò solennemente.
– Dev’essere nuovo – disse Indrapramit. – Anche se ti aspetteresti che avesse imparato a parlare nel gattile.
– Non è nuovo. – Ferron porse un polpastrello all’animale geneticamente modificato. Il gatto strizzò gli occhi verso di lei e volutamente strofinò prima uno e poi l’altro lato del muso sul guanto di areattina . – Hai visto il pelo di gatto sulla poltrona?
Indrapramit si fermò, pensando. – È