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Racconti ruvidi
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Racconti ruvidi

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Da Piero “il selvaggio”, un undicenne della periferia di Roma, a Re Creso, il ricco per antonomasia; dall’intuizione di Tazio, sfollato nelle Marche durante la seconda guerra mondiale, alla generosità di Giulio Cesare; da Blob, al tarassaco e le donne, l’offesa Nisia, la disonorata Lucrezia, l’astuta Cleopatra, la violentata Carmela, la scomoda Ipazia e le altre: scorci di vita affiorati da ricordi, da letture, uno da qualche considerazione, un altro dalla fantasia: un caleidoscopio multicolore di vicende accadute in epoche diverse o immaginate che vanno dal 4.000 avanti Cristo a “tra un milione d’anni”.
LanguageItaliano
Release dateDec 21, 2019
ISBN9788835349129
Racconti ruvidi

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    Racconti ruvidi - Antero Reginelli

    © Copyright 2019 by Antero Reginelli

    Via Enrico Ferri 16

    00046 Grottaferrata - Roma

    e-mail: anteroreginelli@yahoo.it

    Finito di scrivere a settembre del 2019

    Indice

    Premessa

    1956. Dieci metri di strada

    1805. Un grosso equivoco

    1943. Tazio

    217 avanti Cristo. Voglia di cambiare

    1955. Correvo, correvo

    390 avanti Cristo. Roma devastata: due episodi particolari

    1951/56. I Maestri delle elementari

    716 avanti Cristo: una donna offesa (Nisia)

    335 avanti Cristo: una donna stuprata (Timoclea)

    1956/57. Scuola Media

    509 avanti Cristo: una donna disonorata (Lucrezia)

    1965: una donna violentata (Carmela)

    Anno imprecisato: una donna circe (Meroe)

    1956. Lascia o raddoppia mentre a Roma nevica

    48 avanti Cristo: una donna astuta (Cleopatra)

    1955: una donna mite  (Zia Ersilia)

    508 avanti Cristo: una donna coraggiosa (Clelia)

    1960. Comparse

    Molto tempo fa: una donna innamorata (Psiche)

    4.000 avanti Cristo. L’invenzione della scrittura

    415 avanti Cristo: una donna scomoda (Ipazia)

    1933. Lode dell’imparare

    1965. Teatro al PCI

    1818. La protesta di un operaio tessile di Manchester

    548 avanti Cristo. Creso e Solone

    1970. Italia Germania 4 a 3

    75 avanti Cristo. La generosità di Cesare

    1966. Servizio militare

    1493. L’uovo di Colombo

    1964. Il 409

    Oggi. Blob

    Tra un milione d’anni. Il tarassaco

    Premessa

    Scorci di vita affiorati da ricordi, da letture, uno da qualche considerazione, un altro dalla fantasia: un caleidoscopio multicolore di vicende accadute in epoche diverse o immaginate che vanno dal 4.000 avanti Cristo a tra un milione d’anni.

    Per introdurli: sono nato nella camera da letto dei miei genitori, al numero 83 di Via Galeazzo Alessi, una strada che si biforca dalla Via Casilina subito dopo il Pigneto e conduce a Via di Torpignattara. Il primo tratto è pianeggiante, ma da Via dei Savorgnan prosegue in leggera discesa. Ecco, questa zona fino a Via Filarete è chiamata Villa Certosa, suddivisa, nel nostro inconscio di ragazzini degli anni ’50, in due zone: la Villa, cioè Via Galeazzo Alessi, Via Bartolomeo Genga, Via Francesco Paciotti e Via di Villa Certosa; l’altra, la Certosa, comprendeva la destra e la sinistra di Via dei Savorgnan, arrivava a Via degli Angeli.

    I due agglomerati insieme formavano un vero e proprio paese, con pochi palazzi e tante case povere, al massimo di due piani.

    Era un’area a parte, slegata dall’adiacente Torpignattara.

    I primi tredici, quattordici anni li ho vissuti tra i giovanissimi protagonisti della piccola comunità, nei successivi dieci, dodici sono stato spettatore ed ho allargato il palcoscenico fino a comprendere l’intero quartiere: uno spettacolo straordinario, unico al mondo, come lo erano allora le periferie delle città, dove la gente aveva solo necessità concrete, non c’era spazio per falsi bisogni.

    Poi, tutto è cambiato.

    1956. Dieci metri di strada

    Piero il selvaggio aveva fatto quattro anni e mezzo di elementari: unici, due volte la prima, due volte la seconda, metà della terza, infine, dopo un lungo periodo di sospensione per motivi disciplinari, aveva smesso del tutto. Basta scuola, non era per lui, irrequieto in modo esagerato, primitivo, ingestibile e poi, non stimolato dai genitori, anzi, forse ostacolato, aveva perso la curiosità di apprendere, ogni interesse per lo studio, la voglia di applicarsi. A undici anni, ma forse anche prima, faceva spesso da manovale al padre che lavorava a singhiozzo in uno dei numerosi cantieri della Roma palazzinara di quei tempi. Dante, muratorucolo da strapazzo con scarsa specializzazione, poca professionalità e tanto vino in corpo.

    Abitava al piano terra di una specie di palazzina in muratura a Via Galeazzo Alessi. La madre, una donnetta magra magra, piccola, nervosa, poco dignitosa, che non parlava, urlava, sempre indaffarata a rimediare qualcosa da cucinare, o meglio, da mangiare per la piccola tribù: Piero il selvaggio, il fratello Nandino, più cucciolo di due anni ma anche più incazzoso che lo stava imitando nel percorso scolastico, Mariuccia, nata da pochi mesi e il capofamiglia, il muratore troppo spesso ubriaco per avere un rapporto decente con i figli. Con loro poche parole, risolveva tutto a schiaffi, calci e cinghiate.

    Davanti l’ingresso di casa c’era un pezzetto di terreno, un paio di metri, poi il recinto in maglia di metallo arrugginito con un cancelletto che si teneva su per grazia di Dio, ad un passo le rotaie del tram Centocelle - Laziali, abbandonate, poi, nel 1957. Dietro, un muretto e tanti binari, quelli dei treni che da Termini portano a sud e viceversa. Ma non per i rumori, a volte assordanti, che la madre era eterna arrabbiata e il padre beveva, anche se, stridore da una parte, sferragliamento dall’altra, un po’ contribuivano.

    Lui, Piero, la banda di Villa Certosa l’aveva soprannominato il selvaggio: non alto, secco, tosto come la pietra, rozzo in tutto, riottoso e ribelle anche alle nostre regole, vocabolario ridotto al minimo, bastante per sopravvivere nel gruppo, incostante, per un niente si esaltava, per altrettanto si sconfortava, ma era di animo buono, generoso, altruista. Sempliciotto, sempre moccioloso, pelle unta, muso sporco e capelli appiccicati, dalla mattina alla sera: un pischello allo stato brado; per chiamarlo noi selvaggio, significava che ne aveva di animalesco, dentro e fuori. E sì che gli altri non è che venissero dai Parioli.

    Gianni detto Alfonsina dal nome della madre, la vecchietta che vendeva caramelle, mentine, caccolette e lacci di liquirizia e altre cianfrusaglie dolciastre, fuori la scuola delle Monache, su una carrozzina da bambini, trasformata in una misera botteguccia ambulante, un carrettino con tanti scomparti coperti dal vetro, uno per ogni singolo articolo. Il padre, imbianchino mediocre, lavorava poco e male, per cui non lo chiamava quasi nessuno. In casa, però, avevano la televisione, la prima di Villa Certosa: ingresso a pagamento. Per vedere Rin Tin Tin non c’erano santi o amicizie con il figlio, si pagava e basta. L’appartamento, diciamo appartamento ma sembrava una grotta, era nello scantinato di una palazzina accroccata, quasi di fronte casa mia: stanzone unico con anfratti bui divisi da tende bisunte; ci stagnava un’umidità che saliva dal pavimento di terra battuta e un odore pungente. Sul letto, da dove seduti guardavamo la TV, c’era una coperta, sempre la stessa, sempre con la stessa sporcizia, sempre con la stessa puzza.

    Gianni non era riuscito a terminare la quinta.

    Franco er Barese, per via dei genitori emigrati dalla Puglia: alto, torvo, taciturno e il suo amico inseparabile Lillo, uno che schioccava sempre le dita, cuor contento: aveva immotivate vampate di allegria.

    Roberto ‘mbedone, mai capito da dove derivasse il soprannome ‘mbedone: a 11 anni già lavorava eppure a scuola era bravino, intelligente e non ribelle.

    Sergio, figlio di Guerrino, proprietario dell’Osteria con cucina nel centro del paese, un tipo arrogantello, in genere prepotente e presuntuoso senza averne motivo. Quell’estate, finita la quinta, era stato assunto dalla casa editrice Armando Curcio, come cascherino, per consegnare libri: era entusiasta.

    Salvatore Paperino, per le labbra prominenti che lo facevano somigliare al Paperino dei fumetti: figlio di un maestro di scuola elementare, nipote del sor Gino, il vinaio davanti casa.

    Mario Mamio o Mamiuccio, piccolino, poi è cresciuto molto. Uno buono, di carattere mite: padre Maresciallo di Finanza.

    Giandomenico, il quarto di una nidiata di fratelli e sorelle, più grandi e più piccoli: famiglia molto povera ma dignitosa, con la madre che li mandava in strada sempre lindi e puliti, in modo impeccabile, per non mostrarli figli del mestiere del padre, monnezzaro. A quei tempi la mondezza si raccoglieva porta a porta, l’incaricato saliva di corsa i piani dei palazzi con un sinalone (grembiulone) grigio che, però, non nascondeva le macchie di unto, e scendendo si fermava fuori degli appartamenti, piano per piano, per svuotare i secchi in un nauseabondo, grosso, sacco di iuta: la plastica non c’era, niente contenitori, bustine e sprechi ché gli avanzi si riciclavano, la pasta si comprava sciolta, la carta veniva riusata in casa, si trattava solo di scarso umido, maleodorante. Insomma la roba da buttare era poca, però puzzava e lui ne saliva e scendeva parecchie di scale, sicché sporcizia e odoraccio lo abbracciavano forte. Faticava tanto e guadagnava poco. Mia madre a Natale gli dava sempre la mancia, diceva che quello era proprio un mestieraccio.

    Luigino, un borbottone, eterno scontento: lo chiamavamo quattrocchi e mezzo naso perché portava gli occhiali. Abitava nel palazzo a fianco, in uno scantinato trasformato in appartamento, aveva l’intera raccolta di Capitan Miki in formato striscia: 5 anni di giornaletti, dal numero 1, una valigia piena. Un po’ alla volta glieli ho vinti tutti, a morra cinese, a carte, a pari e dispari. Non ricordo che fine abbiano fatto, spariti un po’ alla volta: mai amato il collezionismo.

    Ginetto, una ne faceva, cento ne diceva. Esasperava ogni avvenimento con racconti mirabolanti, un giovanissimo Carlo Verdone degli anni ‘50. Per lui avevamo forzato un soprannome: pisellino al castello rosso. Chissà perché?

    Alberto Bebè, un bambinone, elettricista a 12 anni.

    Piero si gettava a capofitto, vero selvaggio temerario, nelle più pericolose missioni, quelle impossibili, quelle che noi avremmo affrontato, forse, soltanto se costretti da estreme necessità e con molto timore, per esempio andare a prendere cipolline dalle Monache: scavalcare il muro era facile, all’andata, anche se alto, le fessure scavate all’esterno ne facilitavano la scalata, bisognava solo stare attenti ai taglienti cocci di bottiglia piantati in cima; per scendere, uno zompo e l’orto era proprio sotto, vicino. Il problema veniva dal guardiano, un omone rude, un Mangiafoco che descrivevano violento, capace di strippare chi avesse calpestato il suo regno, ma la vera difficoltà era il ritorno. Non esistevano vie oltre al muro, ruvido e senza appigli per l’arrampicata. ‘Mbè, Piero il selvaggio entrava, profanava l’orto e ricompariva, graffiato, soddisfatto e con un po’ di piccole cipolle novelle, tubolari, verdi e bianche: profumavano.

    Affrontava anche altre imprese spericolate.

    Avanzava spesso da solo, allo sbaraglio, nelle sassaiole contro quelli della Maranella; andava, con una gran faccia tosta, a rimediare una sigaretta dal tabaccaio o da qualche Villacertosino, si precipitava a recuperare la palla o la nizza nel recinto del gorilla, il custode di un orto a Via di Villa Certosa, ancora più temuto del Mangiafoco dello Monache, o altre, lo stesso sconsiderate. Non è che avesse più coraggio di noi, lo soffocavano le nostre stesse paure ma le vinceva con l’incoscienza del primitivo.

    Un giorno litigammo, io e il selvaggio, per una questione di figurine. Finì a cazzotti. Ero un po’ più alto, secco come lui: lo scontro fu breve ma rabbioso, per quanto poteva esserlo tra due undicenni. Mischia arruffata, pugni a vuoto, poi gliene affibbiai uno proprio al centro del viso, scagliato con tanta forza, tutta quella a disposizione: il furore della rabbia. Sangue dal naso e dalla bocca, sul labbro superiore un piccolo taglio, fine della rissa: erano duelli al primo sangue.

    Avevo avuto ragione, le figurine erano mie.

    Piero in un angoletto, mortificato. Parte della banda, pochi, intorno a lui, lo sconfitto, gli altri intorno a me, il vincitore, ma coro unanime:

    «Mo’ so cazzi tui. Se jelo dice ar padre, quello quanno t’acchiappa te pista de botte.»

    Manco m’avevano fatto godere l’ebbrezza della vittoria, anche se mi ero intristito nel vedere il selvaggio umiliato, sconfitto: avrei preferito non aver sferrato quel pugno, sarei volentieri tornato indietro a prima della lite per non fare la scazzottata, gli avrei lasciato le figurine, tutte. Poi, iniziai a preoccuparmi al pensiero di incappare in Dante: impossibile non incontrarlo nei giorni successivi a Villa Certosa.

    Ma il passato, anche recentissimo, può solo essere rimpianto, non modificato, il tempo è inesorabile, invincibile, non si sconfigge e purtroppo, la casa di Piero stava tra dove abitavo e il minuscolo centro della piccola comunità, ci dovevo per forza passare davanti per andare dal sor Luigi, il pizzicarolo, dal lattaio, dal tabaccaio, all’osteria da Guerino, dal macellaio ma quella era una bottega che poco frequentavo, e, soprattutto, dietro la Villa e al prato a giocare, a meno di affrontare un giro molto lungo, che mai avrei fatto se non fosse stato strettamente necessario.

    Un grosso problema.

    Da quel giorno, quei dieci, maledetti metri di Via Galeazzo Alessi davanti casa di Piero diventarono un tormento. Prima di tutto, bisognava evitare di essere mandato a prendere il pane, il latte, le sigarette o qualsiasi altra cosa servisse, senza doverne confessare il motivo. Quando m’incastravano, usavo vari accorgimenti. Durante l’orario di lavoro, davo per scontato che Dante non ci fosse, anche se a volte era disoccupato, andava un po’ meglio, ma temevo pure la collerica madre urlante. Risolvevo camminando a passo veloce, o in piccola corsa, quella maledetta decina di metri. Occhi fissi sul portoncino e cuore a duecento.

    Nel pomeriggio tardi, la sera e di domenica, le cose cambiavano parecchio. L’orco gironzolava a casa, per Villa Certosa o all’osteria da Guerino e le probabilità d’imbattersi in lui centuplicavano. Allora, uscito dal cortile, appizzavo gli occhi (guardavo con attenzione) in direzione della minaccia: se Dante stava facendo qualcosa in quella specie di giardinetto lercio di rottami vari, manco ci pensavo a trovare altre soluzioni, prendevo a destra e passavo dietro la Villa, un largo giro, circa sei settecento metri invece di centocinquanta.

    Stesso percorso al ritorno. Se non c’era movimento nell’area calda, azzardavo. Azzardavo per modo di dire, usavo molta cautela in ogni mossa. O aspettavo il passaggio del tram, se fosse stato in arrivo, per metterlo tra me e la casa o sfrecciavo come il vento in quei pochi metri pericolosi, talmente rapido che sembrava scomparissi alla vista degli altri, almeno così speravo, o mi aggregavo a quattro cinque compagni e confuso tra loro, e senza che nessuno si accorgesse del terrore, percorrevo il piccolo tratto d’inferno. Insomma, un calvario.

    E con il cerbero a spasso, la zona critica s’ingrandiva, arrivava oltre la casa, fino all’osteria.

    M’immaginavo l’incontro e calcolavo vantaggi e svantaggi del suo stato: meglio incocciarlo ubriaco, avrei forse avuto qualche probabilità di non essere riconosciuto, o sobrio, chissà sarebbe stato ragionevole, ma con poche illusioni. Ciucco o lucido, era padre padrone violento, uno che menava, preferivo non avere a che fare con lui, attendere che di quel cazzotto se ne fossero dimenticati, Piero, il padre, la madre, Nandino, perfino i compagni in modo che non lo rivangassero per dargli nuova vita. Aspettavo che il pugno percorresse il Lete, il fiume dell’oblio, e speravo che il mitologico corso d’acqua non fosse, poi, tanto lungo. Del Lete avevo letto qualcosa in una vecchia edizione dell’Eneide, abbastanza rovinata, che stava insieme a pochi altri libri in una pseudo libreria in camera da pranzo.

    Tra me e Piero il selvaggio, invece, indifferenza assoluta. Niente scambi di parole al prato o a Villa Certosa, ognuno per conto proprio, pure in mezzo agli altri, evitavamo il benché minimo contatto. Quando mi guardava, di sfuggita, i suoi occhi, innocenti, buoni come sono spesso quelli delle bestie feroci o dei semplici, esprimevano attenzione, rispetto e prudenza, però ci leggevo anche: se ti acchiappa mio padre, ti strippa ma non è colpa mia.

    Intanto la ferita sul labbro guariva, menomale, e speravo che il ricordo del fatto fosse sbiadito, almeno negli altri; in me, invece, persisteva granitico e quei dieci metri continuavano ad essere un’ossessione. Come schivare quel passaggio? Volare. Scavare un tunnel.

    Invisibilità.

    La paura si stava spostando dalla persona al posto.

    Il tormento durò fino ad una limpida serata d’estate, un prima di cena caldo. Dovevo andare a prendere un boccione d’acqua fresca dar nasone, la fontanella subito dopo il forno di sor Luigi.

    C’era da attraversare il territorio minato.

    Solita solfa: fuori dal cortile, sbirciatina, il sole sta per tramontare, gli ultimi raggi colorano di rosso il cielo: rosso di sera, bel tempo si spera, anche domani sarà una bella giornata. Via Galeazzo Alessi muta, nessun rumore in giro, niente, neanche lo sferragliare dei treni né del tram né le voci dei Galeazzoalessiesi, calma piatta, corsettina, vento nel tratto a rischio, poi a passo veloce. Dall’altra parte della strada, nell’osteria di Guerino, al di là delle rotaie del tram, c’è gente nel giardinetto a ridosso del marciapiede, parecchi tavoli sono già apparecchiati con le tovaglie di carta, ci sono clienti seduti a bere, altri che aprono bianche salviette con il mangiare portato da casa, di solito pasta e patate tiepida o fagioli borlotti con le cotiche, poi chiederanno il vino, oppure, quelli senza fagotti in procinto di chiamare l’oste per ordinare un litro e un piattone abbondante di spaghetti al pomodoro, o poche altre alternative, cucinate dalla moglie di Guerino, una povera Crista che non si vede mai in giro.

    Pericolo. Tante persone all’osteria sono una minaccia, potrebbe esserci lui: passo sempre più veloce, boccione in mano ed eccolo Dante che seduto in un tavolo quasi sul marciapiede.

    Gelo: cazzo no, non ci voleva.

    Anche lui ha una bottiglia in mano, più piccola della mia, mi chiama, quasi urla, voce roca:

    «A regà, ‘ndo vai? Viè ‘n po’ qua!»

    Ci siamo!

    Faccio finta di niente. Proseguo, rallento, non voglio dare l’impressione di aver fretta, di avere paura che, invece, è tanta.

    «Ahó, a pischè, e viè qua! Dico a te!» Grida forte e in modo autoritario mentre lo guardo.

    Sono costretto a fermarmi.

    «Viè qua, daje.»

    Il tono è diventato all’apparenza bonario ma potrebbe essere una trappola.

    Che faccio? Faccio il vento?

    Vado verso di lui, guardingo, muto. Attraverso le rotaie del Centocelle - Laziali.

    «Sei ‘n’amico de mi fio Piero, no?» E dice il mio nome.

    È scoccata l’ora. E mo?

    «’Mbè?» Rispondo con un’interrogazione impacciata.

    M’ha riconosciuto! Dai tavoli non ci fila nessuno. Aiuti impossibili. Quasi quasi scappo, mi metto a correre verso la fontanella.

    «‘Ndo vai, viè qua, mica mozzico.»

    Non so cosa fare, sono in trance. Mi avvicino a passi lenti, senza fiatare, con il sangue gelato, il cuore a mille, i brividi e la testa che mi gira. Lui allunga la mano con la bottiglia. Adesso m’ammazza.

    «E viè qua!»

    Il viè qua è troppo insistito, inquietante, io teso, attento, trascino i piedi ma sono pronto a scattare e ho una gran voglia di squagliarmela.

    Tutto si svolge in un attimo infinito.

    «Vai a’ fontanella a prenne l’acqua fresca, no? Famme ‘n favore, riempi pure ‘sta bottja. T’aspetto qua, nu’ me movo.»

    Piero il selvaggio e gli altri li ho frequentati ancora per un po’, a settembre sono andato alle Medie, unico della banda: nuovi amici, loro, piano piano sono scomparsi, non li ho visti più. Non so che fine abbiano fatto.

    Ancora ci sono quei dieci metri e quella casa, se dovessi passarci adesso, non so, forse correrei.

    1805. Un grosso equivoco

    I nomi dei mesi in ogni lingua indoeuropea, ed anche in qualcuna non, derivano dal Latino, lo strano, però, è che Settembre (September, Septembre, Septiembre, Setembro e via dicendo), Ottobre, Novembre e Dicembre non indicano, rispettivamente, il nono, decimo, undicesimo e dodicesimo mese dell’anno. Ciò è dovuto al fatto che hanno origine dal primo calendario romano, di Romolo, concepito di dieci mesi e soltanto di 304 giorni:

    Martius, sacro a Marte;

    Aprilis, sacro ad Aphros, Afrodite (Venere); alcuni dicono dal Latino aperire, in quanto la terra si apre per generare con gli alberi i frutti, con le piante i fiori, con gli animali i figli e con i mari nuova vita;

    Maius, sacro a Maia, Dea della Vegetazione;

    Iunius, sacro a Giunone;

    Quintilis, il quinto, poi, Iulius, consacrato a Giulio Cesare;

    Sextilis, il sesto, poi Augustus consacrato ad Augusto;

    September, settimo mese;

    October, ottavo mese;

    November, nono mese;

    December, decimo mese.

    Per mantenere l’allineamento con il ciclo delle stagioni, aggiungevano un numero di giorni stabilito di volta in volta, che poteva capitare in qualsiasi periodo dell’anno. Un bel guazzabuglio, a sistemare le cose, o quantomeno a dargli un certo equilibrio, ci pensò il secondo Re di Roma, Numa Pompilio, che a questi mesi, prima di Martius e lasciando inalterato il nome degli altri, inserì Ianuarius, sacro a Giano e Februarius, mese dei Februa, le purificazioni, per un calendario di 355 giorni, al quale, per mantenere la corrispondenza con l’anno solare, veniva aggiunto, all’incirca ogni due anni, tra il 23 e il 24 Februarius, un mese intercalare con giorni variabili.

    La gestione del complesso sistema venne dal Re affidato all’Ordine dei Pontefici, che decideva quando inserire il mese aggiuntivo e quanto dovesse essere lungo. Nonostante ciò, il calendario di Numa, o pre-giuliano, continuava ad essere poco preciso, inoltre, a volte, i Pontefici venivano corrotti per ritardare o anticipare la scadenza di un contratto o per altri interessi, per cui ai tempi di Giulio Cesare, c’era un consistente disallineamento tra le date ufficiali e le stagioni. Per esempio, l’inverno iniziava in autunno. Occorreva, dunque, una riforma radicale per pareggiare i conti e introdurre un calendario che coincidesse con la durata astronomica dell’anno, allora Giulio Cesare, su consiglio dell’Alessandrino Sosigene, istituì un anno civile di 365 giorni e uno ogni quattro con un giorno in più, chiamato bisestile (dal latino bis sextus = due volte sesto, cioè contavano due volte il sesto giorno avanti le calende di marzo, il 24 febbraio). Il nuovo calendario, detto giuliano, divenne operativo dal 1° gennaio 45 a.C. ed è stato utilizzato in occidente fino alla fine del 1500.

    Oggi, nella quasi totalità degli Stati, è adottato il calendario gregoriano, introdotto nel 1582 da Papa Gregorio XIII il quale, eseguite da un gruppo di scienziati copernicani minime correzioni al giuliano, lo promulgò con la bolla papale Inter Gravissimas, scritta nella sua residenza

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