Sarà il destino a decidere
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Anteprima del libro
Sarà il destino a decidere - Tommaso Tentarelli
felicità.
Capitolo 1
Era il 10 gennaio 1979 ed era un giorno particolare, ma non per la neve che, lenta, incessante e copiosa, stava venendo giù, rendendo più accettabile, ricoprendolo di bianco, il piazzale della caserma dove avevo passato gli ultimi 10 mesi; oggi poteva e doveva essere l’ultimo giorno del servizio militare e potevamo tornare a casa insieme a tutti i miei compagni; dopo un anno ed un mese, trascorsi con la massima applicazione di regole e disciplina, finalmente la fine, per tutti, tranne che per noi quattro. Io, Cristino, Michele e Carlo dovevamo scontare ulteriori tre giorni per aver preso una stupida punizione; un inutile scherzo, fatto ad un tenente, ci costava tre giorni ulteriori, con tutto quello che avrebbe significato.
Il servizio militare che, tutti, dopo averlo fatto, rimpiangono come uno dei periodi più belli della loro vita, mentre lo facevi lo vivevi male, proprio male; ero giovane e pensavo, tutti i giorni, al ritorno a casa, approfittando ed utilizzando tutte le opportunità per farlo; si contavano i giorni, le ore che mancavano alla fine e, quindi, all’inizio della vita da adulto.
Finito l’addestramento a Trapani, durato tre mesi, fui trasferito a Padova, dove sarei rimasto fino alla fine del servizio. Qui, anche se ebbi un comodo incarico in un ufficio, il mio più grande obiettivo era sempre quello; trovare il modo per ottenere permessi che mi avrebbero permesso di tornare a casa. Alcuni giorni dopo il mio arrivo, mi informarono che, chi si offriva volontario per andare a fare le guardie ad una polveriera vicino, al ritorno avrebbe beneficiato di una licenza premio di tre giorni e, naturalmente, decisi di approfittarne; anche se era dura, lo facevo ogni volta e, grazie a questo, riuscivo a tornare spesso, facendo grandi sfacchinate, possibili solo a venti anni, quando era grande la voglia di rivedere i tuoi genitori, la tua ragazza, i tuoi amici, e spezzare quella rigida quotidianità militare.
Fu proprio in uno dei periodi di guardia alla polveriera che avvenne l’episodio che, poi, avrebbe causato la punizione che avremmo scontato alla fine del servizio. Era il mio turno di guardia. Faceva un caldo infernale dentro la garitta in ferro ed ero, davvero stanco; era l’ultimo giorno ed anche l’ultimo turno, dopodiché avrei usufruito dell’ennesima licenza premio; ero posizionato in un punto da cui potevo controllare tutto il tratto di strada che, girando intorno alla polveriera, la collegava con la palazzina dove alloggiavamo; riuscivo a vedere tutta la strada e, quindi, se fosse partita una camionetta per i controlli, l’avrei vista subito. Ma, non potevo immaginare che, proprio in quel turno, il Tenente Baselli, avrebbe deciso di effettuare il giro a piedi, mimetizzandosi con gli arbusti che delimitavano la strada brecciata e sconnessa; io ero sceso dalla Garitta di guardia e, quindi, lo vidi solo quando era arrivato molto vicino e non ebbi il tempo di risalire e riprendere il mio posto; il tenente si avvicinò e con un’aria sprezzante, e nonostante le mie scuse:
Stare a terra durante il turno era severamente proibito ma, essendo l’ultimo turno, considerai la punizione troppo dura; nonostante le mie scuse e le mie preghiere, il tenente annullò la licenza premio e, per me, questa, non era una cosa che potevo accettare così tranquillamente.
Il Tenente Baselli era un militare di carriera, tutto di un pezzo e non concedeva mai nulla più del dovuto; alto, robusto, capelli sempre rasati mimetizzati sotto l’immancabile cappello e baffi sempre curatissimi, faceva della disciplina un modello di vita e, se trovava delle motivazioni per punire qualcuno, non ci ripensava minimamente; alla fine del turno, prima di ripartire riunì tutti enfatizzando i comportamenti che citava da esempio e denigrando quelli che, viceversa, non valorizzavano la divisa che portavano.
Ero infuriato, deluso, ma sapevo già che non lo avrei accettato passivamente; il mattino successivo, mentre il Tenente passava sotto gli uffici della fureria, da una delle finestre, aiutato dai miei compagni, gli scaraventammo addosso, non meno di 30 litri di acqua sporca; lui non vide chi era stato ma, nonostante questo, lo immaginò o qualcuno lo raccontò e, quindi, mi chiamò cercando di farmi confessare senza, naturalmente, riuscirci; fummo puniti ugualmente con tre giorni di prigione in caserma, ma, quello che era peggio, era che i tre giorni li avremmo dovuto scontarli alla fine.
E, quindi, ecco che il momento era arrivato; mentre tutto il nostro contingente andava a casa, io e gli altri tre dovevamo rimanere per ulteriori tre giorni. Io, Cristino, Michele e Carlo, nel nostro periodo eravamo quelli che punivano
chi non rispettava alcune prerogative tipiche della naia; eravamo molto noti, quindi, ed anche molto temuti dagli altri militari, anche perché questo ruolo doveva essere riconosciuto dalla maggioranza dei ragazzi che stavano prestando servizio. Ecco, perché, gli ultimi giorni sarebbero stati molto duri; il nostro contingente si congedava e ne arrivava uno nuovo, il quale non ci avrebbero più riconosciuto in quel ruolo e, sapevamo già che, i primi ad essere puniti
saremmo stati noi, da chi ci avrebbe sostituito, come se fosse una sorta di affermazione.
La prima notte trascorse relativamente tranquilla e non successe nulla di particolare; provammo a dormire ma con scarsi risultati. Fu la seconda notte che agirono e mostrarono tutta la loro cattiveria; erano i nuovi e volevano dimostrare tutta la loro determinazione, usando la nafta al posto dell’acqua; io fui fortunato e colpito solo parzialmente di striscio, ma i miei amici li trovai, il mattino, dal barbiere; si stavano rasando i capelli per eliminare la puzza. La terza ed ultima notte decidemmo di rimanere insieme e non dormire, per evitare ulteriori guai. Non successe più nulla e il mattino andammo via per sempre, ripromettendoci di non rimettere più piede in quel posto; tuttavia, prima di andarmene, mi girai verso la Caserma dove, comunque, avevo passato nove mesi della mia giovinezza ed avevo imparato, sulla mia pelle, tante cose; rimbombavano le parole del Capitano, prima di congedarci:
Mentre aspettavamo il treno, alla stazione, ci guardavamo pensando se fosse vero quello che ci veniva detto, quasi a giustificare questa fase della vita di ognuno, che vedeva ragazzi che, per la prima volta, si trovavano ad affrontare una esperienza nuova, lontano da casa, lontano da propri genitori. Quei mesi di coscrizione obbligatoria per molti giovani rappresentarono una finestra verso un mondo fino ad allora sconosciuto: la propria Nazione. Quella chiamata obbligò infatti i giovani che raggiungevano la maggiore età a partire da casa superando, magari per la prima volta, i confini del proprio paese.
Ragazzi di ieri, uomini di oggi, che con il trascorrere del tempo hanno mantenuto il ricordo di quel periodo della loro vita spesso con il desiderio di raccontarlo o anche solo di incontrare nuovamente i propri commilitoni. Era proprio a questo che pensavamo, mentre il treno ci riportava a casa; Cristino viveva a Siena, mentre Michele era Sardo e, quindi, sarebbero scesi a Bologna; Carlo era di Ortona e, quindi, avremmo continuato insieme il viaggio. Per nove mesi avevamo vissuto come fratelli, dividendo e condividendo tutto quello che avevamo e che facevamo. Nonostante le promesse, non ci saremmo più rivisti.
Capitolo 2
Per me non era stata la prima esperienza fuori casa e vivendo da solo; su questo, mio padre aveva le idee chiare e non ha mai impedito o ostacolato la voglia di fare nuove esperienze. A soli quattordici anni, durante le vacanze estive mi accompagnò a Roma, dove sarei rimasto tutta l’estate per lavorare in un bar del famoso quartiere africano. Fu una breve esperienza e, anche, poco redditizia se la valutassimo dal punto di vista economico; mi permise, però, di vivere tre mesi in maniera indipendente, in una famiglia con tanti problemi, e riuscii a cavarmela ed a resistere alle negative tentazioni che la vita presenta lungo la tua strada; fu in questo periodo che capii che non dovevamo affidare il nostro cervello a nessuno, ma utilizzarlo per evitare appartenenze o sostanze che avrebbero potuto causarle; capii, anche, dopo averlo provato, la stupidità e l’inutilità di fumare. Insomma, fu, semplicemente, una esperienza, ma che mi fece tornare a scuola con una diversa determinazione e con le idee molto chiare su alcune stupide abitudini.
Finita la scuola ed ottenuto il diploma, in attesa della chiamata obbligatoria per il servizio di leva, chiesi a mio padre di farmi fare una stagione estiva in Svizzera, un Paese che mi aveva sempre affascinato e dove andavano a trovare lavoro molti italiani. Fu un po’ sorpreso e, come era sua abitudine, non rispose subito. Avevo uno zio che ci aveva lavorato tanti anni ed approfittò della mia richiesta per tornarci anche lui.
Partimmo con una Bianchina e non avrei mai immaginato che, davvero, ci avrebbe portato a destinazione. Invece arrivammo ad Ascona, una località sul Lago Maggiore, vicino Locarno, il mattino successivo. La cittadina era incantevole, la località più bassa della Svizzera. Si trovava sulla riva settentrionale del Lago Maggiore ed era famosa per il suo centro storico, per il lungolago dal sapore mediterraneo, grazie ai suoi caffè all'aperto e per il clima mite e che sembrava circondare una parte del lago. Passeggiare a piedi attraversando i numerosi bar e ristoranti all’aperto facevano capire quando era importante il turismo per questa bella località.
Pur non avendo quasi mai dormito, ero affascinato dalla bellezza del posto e speravo, davvero, di trovare lavoro prima possibile. Il lago Maggiore era grandissimo e la città di Ascona si sviluppava attorno, quasi ad abbracciarne una parte. Il primo giorno, però, non trovammo nulla e fummo costretti a dormire in macchina; non avevamo soldi e non potevamo permetterci altro; riuscii a dormire qualche ora, fino a quando, mio zio, si sfilò le scarpe; in uno spazio così stretto, in due e con lui senza scarpe, era impossibile stare, e passai il resto della notte fuori; quando mio zio si svegliò mi trovò sopra una pianta di ciliegie e non riuscì a trattenere una risata. Erano momenti che ricordo volentieri; ci bastava poco per essere felici e, in quel momento, lo ero. Io trovai lavoro il giorno dopo presso un importante albergo di fronte al Lago ed iniziai lo stesso giorno; mio zio, invece, non trovò nulla e fu costretto a tornarsene giù, lasciandomi solo in quel posto, dove ho avuto la fortuna di fare una di quelle esperienze che rimarrà fra le più belle ed importanti e che avrebbe segnato la mia vita. Avevo sempre ritenuto importantissimo, fare esperienze di lavoro ovunque ma soprattutto all’estero, anche brevi; pensavo che sarebbe stato utilissimo anche da adulti, e non solo durante gli studi o appena terminato il percorso scolastico. Perché? I motivi principali erano almeno tre: imparare ad adattarsi a culture diverse dalla nostra, imparare a valutare cosa serve per sopravvivere e imparare ad uscire dalla propria zona di comfort.
Entrare in contatto e relazionarsi con culture diverse non era per nulla facile. Anche Paesi molto vicino a noi, come la Svizzera, avevano abitudini molto diverse dalle nostre. Pensiamo al cibo: in alcuni paesi pranzo e colazione, giusto per fare un esempio, rappresentavano