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Anne
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Ebook178 pages2 hours

Anne

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About this ebook

Ho iniziato a scrivere della ferrovia davanti al mare, sentivo il bisogno di ricordare. Poi la storia si è scritta da sola, prendendomi la mano. Anne è un'emozione fortissima, lo Jonio un non luogo, un posto della memoria. Nella mia mente si sono fuse in una sola immagine le vite di ragazzi che non potevano esistere l'uno senza l'altro, in un legame di forte interdipendenza affettiva.

Una serie di concatenazioni amorose che recano al centro la figura di Anne, una ragazza di origini olandesi che vive sul Mar Jonio. Per la suadente sensibilità e bellezza che la sua minuta persona emana, Nicola, Vincenzo e Johan si innamoreranno di lei.

Un testo lirico sull'amore incondizionato e senza confini, l'unico amore che per i quattro giovani personaggi di questa storia valga la pena di essere vissuto. I personaggi si identificano con i loro sentimenti, facendone una vera ragione di vita.

L'inevitabile separazione e la perdita della memoria chiuderanno il cerchio in maniera irreversibile.

Rimarrà il canto del vento tra gli ulivi dello Jonio e il fischio del treno sulle rotaie della ferrovia davanti al mare, che accompagna i ragazzi delle nuove generazioni verso il loro destino.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateDec 18, 2019
ISBN9788831653152
Anne

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    Anne - Cosimo Agostino

    cin­ghia­le.

    Par­te pri­ma

    Mar Jo­nio, 1977

    I va­go­ni del tre­no era­no af­fol­la­ti dai ra­gaz­zi che an­da­va­no a scuo­la. Al­cu­ni son­nec­chia­va­no sui se­di­li, al­tri sta­va­no in pie­di nel cor­ri­do­io e par­la­va­no ani­ma­ta­men­te di cal­cio o iro­niz­za­va­no su qual­che pro­fes­so­re. Al­tri an­co­ra era­no se­du­ti e ri­pas­sa­va­no gli ap­pun­ti del­le le­zio­ni. 

    Il tre­no era un ca­ro ami­co che ac­com­pa­gna­va quei ra­gaz­zi co­me una gui­da af­fi­da­bi­le che non sba­glia­va mai. Era si­mi­le ad una bar­ca che sol­ca­va la ter­ra in­ve­ce del ma­re, che le on­de non avreb­be­ro mai po­tu­to tra­vol­ge­re, asciut­ta, cal­da nel­le fred­de gior­na­te d'in­ver­no. Il ru­mo­re sul­le ro­ta­ie era  ras­si­cu­ran­te, fer­mo, qua­si ip­no­ti­co.

    I bi­na­ri cor­re­va­no pa­ral­le­li al ma­re. Dal fi­ne­stri­no si ve­de­va­no la spiag­gia di­ste­sa per chi­lo­me­tri ed il ma­re, ora cal­mo e piat­to co­me una ta­vo­la, ora con dei ca­val­lo­ni al­tis­si­mi spin­ti dal ven­to che ren­de­va­no la spiag­gia bian­ca di un co­lo­re più scu­ro. L'aloe spi­no­sa, i fi­chi d'in­dia e le ra­di­ci di li­qui­ri­zia  fa­ce­va­no da con­tor­no ai bi­na­ri. Dall'al­tra par­te c'era la stra­da cir­con­da­ta da pic­co­le col­li­ne bian­che. E gli aran­ce­ti. E gli uli­ve­ti.

    Il tre­no si fer­mò stri­den­do. Gli stu­den­ti sce­se­ro nel­la sta­zio­ne af­fol­la­ta e si av­via­ro­no ver­so la scuo­la. Si av­ver­ti­va nell'aria l'odo­re fer­ro­so dei bi­na­ri. La pic­co­la sta­zio­ne rac­co­glie­va i pas­si fret­to­lo­si, gli schia­maz­zi che pro­ve­ni­va­no dal­le lo­ro con­ver­sa­zio­ni, i lo­ro umo­ri. Era un po­sto ac­co­glien­te che cu­sto­di­va ogni mat­ti­na le lo­ro vi­te. Co­mu­ni­ca­va un sen­so di sta­bi­li­tà, era sem­pre lì ad at­ten­de­re le ge­ne­ra­zio­ni che si suc­ce­de­va­no.

    Quel gior­no era at­tra­ver­sa­ta da fo­la­te di ven­to e l'umi­do en­tra­va nel­le os­sa. Scen­de­re dal tre­no era co­me la­scia­re il dol­ce te­po­re di un ven­tre cal­do.

    Ni­co­la si av­viò ver­so la scuo­la. In piaz­za in­con­trò Vin­cen­zo. Co­min­cia­ro­no a di­scu­te­re dell'In­ter e del Mi­lan. C'era il der­by, Ri­ve­ra con­tro Maz­zo­la. Ar­bi­tra­va Lo Bel­lo.

    Poi Ni­co­la cor­se a pren­de­re An­ne al­la fer­ma­ta dell'au­to­bus.

    Si in­cam­mi­na­ro­no tut­ti in­sie­me ver­so la scuo­la.

    Mar Jo­nio, 2019

    Ni­co­la:

    Ave­vo ap­pe­na com­piu­to di­cias­set­te an­ni nel 1977. Ed An­ne quat­tor­di­ci.

    An­ne mi at­ti­ra­va co­me una ca­la­mi­ta.

    Quan­do la pen­sa­vo pro­va­vo una sen­sa­zio­ne di be­nes­se­re, co­me se aves­si tro­va­to qual­co­sa di pre­zio­so. La guar­da­vo da lon­ta­no, quan­do ci in­con­tra­va­mo lei ar­ros­si­va ed ab­bas­sa­va gli oc­chi. Io fa­ce­vo fin­ta di nien­te. Ma ave­va­mo en­tram­bi le no­stre ani­me in tu­mul­to. Aspet­ta­va­mo so­lo che uno dei due ri­vol­ges­se all'al­tro la pa­ro­la. Sa­reb­be sta­to l'in­ne­sco di un tur­bi­ne che avreb­be se­gna­to le no­stre esi­sten­ze.

    Le co­se so­no, Vin­cen­zo. E se so­no, lo so­no in sé. E nul­la può es­se­re di­ver­so da quel­lo che è.

    Mar Jo­nio, 2019

    Ni­co­la era se­du­to nel­la sua pol­tro­na da­van­ti al gran­de ca­mi­no. Fa­ce­va fred­do. Il ven­to for­te sfer­za­va le fi­ne­stre del ca­sa­le e can­ta­va tra gli uli­vi. Era as­sor­to nei suoi pen­sie­ri, nel si­len­zio del ca­so­la­re, da­van­ti al fuo­co. Si sen­ti­va so­lo il sof­fio del ven­to, im­pe­rio­so, im­pe­tuo­so, che fi­schia­va aspro in­ve­sten­do le roc­ce, i ru­de­ri, le pian­te. Si sol­le­va­va nell'aria qua­si un ur­lo as­sor­dan­te, che poi si tra­sfor­ma­va in mu­si­ca, ed in­fi­ne in dol­ce suo­no.

    Quan­do tut­to si tra­mu­ta in tor­men­to, quan­do tut­to ti sem­bra uno spa­ven­to, bi­so­gna fa­re co­me con il ven­to, ran­nic­chiar­si e tra­sfor­mar­lo in can­to.

    Era tra­scor­sa qua­si una vi­ta.

    Il tem­po è pas­sa­to e non me ne so­no ac­cor­to, Vin­cen­zo. Non ho avu­to la con­sa­pe­vo­lez­za che pas­sas­se. Non rie­sco an­co­ra a ren­der­me­ne con­to com­ple­ta­men­te.

    Gli tor­nò al­la men­te un ver­so che ave­va ascol­ta­to da ra­gaz­zo, di un poe­ta con­ta­di­no gran­de ami­co del suo pa­pà: fi­no a che spun­ta l'al­ba, e poi sva­ni­sce.

    Ho il de­si­de­rio di in­con­trar­ti, ami­co. An­che se non mi ri­co­no­sce­rai. A vol­te av­ver­to la tua man­can­za in ma­nie­ra qua­si pun­gen­te. La vi­ta ci ha spaz­za­ti via co­me un sof­fio di ven­to.

    La vi­ta se­pa­ra. An­che quel­la più bel­la e ric­ca di emo­zio­ni e di gio­ia. Al­lon­ta­na da tut­to ciò che amia­mo.

    Mar Jo­nio, 2019

    Ni­co­la:

    "Ho vi­sto An­ne per la pri­ma vol­ta all'usci­ta del­la scuo­la, lei era in quar­ta gin­na­sio. Io in­ve­ce ero in ter­za li­ceo. Bel­lis­si­ma con i suoi oc­chi az­zur­ri ed i ca­pel­li chia­ris­si­mi per quan­to era­no bion­di. Il  vi­so de­li­ca­to, la pel­le lat­tea, il pro­fi­lo esi­le. Le gam­be lun­ghe e ma­gre da cer­biat­ta. Mi ave­va fat­to in­na­mo­ra­re. Sen­za di­re nul­la. Sen­za par­la­re. So­lo con la sua esi­le fi­gu­ra. Av­ver­ti­vo ver­so di lei un'at­tra­zio­ne ma­gne­ti­ca. Dal por­ta­men­to di ognu­no di noi tra­spa­re l'ani­ma, e non pos­sia­mo na­scon­der­la agli oc­chi di chi sa ri­co­no­scer­ci. Ho sen­ti­to qual­co­sa che mi scat­ta­va den­tro. Qual­co­sa a cui, mio mal­gra­do, non po­te­vo op­por­mi.

    L'ho sen­ti­ta, vi­sta, odo­ra­ta. Tut­to si è rea­liz­za­to in un at­ti­mo. Un at­ti­mo che mi so­no por­ta­to den­tro per una vi­ta in­te­ra. Mi so­no av­vi­ci­na­to, An­ne ha per­ce­pi­to im­me­dia­ta­men­te il mio tur­ba­men­to ed è ri­ma­sta di­so­rien­ta­ta.

    Nes­sun uo­mo può na­scon­de­re l'at­tra­zio­ne che pro­va per una don­na. È lei ad at­ti­rar­lo a sé, ma­ga­ri in­con­sa­pe­vol­men­te, in ma­nie­ra ir­re­si­sti­bi­le. E l'uo­mo ri­spon­de ad una sor­ta di ri­chia­mo an­ce­stra­le.

    An­ne quel gior­no ave­va i jeans ade­ren­ti che le mo­del­la­va­no le gam­be esi­li, la sua schie­na fa­ce­va una lie­ve cur­va­tu­ra sul ba­ci­no, ren­den­do­la ir­re­si­sti­bi­le. Le pic­co­le len­tig­gi­ni sul vol­to de­li­ca­to. I ca­pel­li bion­dis­si­mi. Il pro­fi­lo acer­bo e sel­vag­gio le esplo­de­va sul­la boc­ca pic­co­la, sul­le lab­bra di­se­gna­te. Non po­te­vo re­si­ste­re, An­ne mi smuo­ve­va den­tro mon­ta­gne di emo­zio­ni. In­con­te­ni­bi­li.

    Mi vie­ne in men­te  il ver­so "tro­var­si d'astri in ar­ci­pe­la­ghi in­son­ni". I poe­ti san­no tro­va­re le pa­ro­le giu­ste per de­scri­ve­re le emo­zio­ni de­gli uo­mi­ni.

    An­ne era spa­ven­ta­ta quan­do mi so­no av­vi­ci­na­to a lei. Ha com­pre­so su­bi­to che mi era scat­ta­to nei suoi con­fron­ti qual­co­sa di in­con­te­ni­bi­le. La vo­le­vo per me, non avrei per­mes­so che nes­sun al­tro ma­schio la av­vi­ci­nas­se. Era in­ti­mo­ri­ta dal­la mia ir­ruen­za. Ma era an­che in­cu­rio­si­ta e tur­ba­ta dal mio com­por­ta­men­to de­ci­so. Io ave­vo il vol­to ti­ra­to, gli oc­chi leg­ger­me­ne soc­chiu­si, co­me se non riu­scis­si a guar­dar­la e ne fos­si ab­ba­glia­to, vo­les­si scru­tar­la ol­tre quel­lo che lei la­scia­va tra­spa­ri­re. 

    Ho ama­to An­ne più di ogni al­tra per­so­na al mon­do. L'ho cor­teg­gia­ta, coc­co­la­ta, pro­tet­ta. De­si­de­ra­ta.

    Poi l'ho la­scia­ta an­da­re.

    An­ne non po­te­va es­se­re con­te­nu­ta.

    Da nien­te. E da nes­su­no.

    La aspet­ta­vo all'usci­ta di scuo­la, la se­pa­ra­vo con de­li­ca­tez­za dai suoi com­pa­gni, e la por­ta­vo a pas­seg­gia­re sul ma­re. Lei ac­cet­ta­va sor­ri­den­do que­sta dol­ce pre­po­ten­za.

    Do­po qual­che tem­po ho osa­to.

    Ho osa­to pren­der­la per ma­no. Non riu­sci­vo più a re­si­ste­re.

    Ave­vo do­vu­to su­pe­ra­re le mie re­si­sten­ze in­te­rio­ri. Ave­vo pau­ra che lei non vo­les­se, o di es­se­re trop­po ir­ruen­te, o di spa­ven­tar­la. Ave­vo pau­ra so­prat­tut­to che ri­fiu­tas­se il con­tat­to con la mia ma­no. In­ve­ce An­ne ha in­trec­cia­to le sue di­ta con le mie con na­tu­ra­lez­za, in ma­nie­ra spon­ta­nea, co­me  se aspet­tas­se quel ge­sto. Ed ha ab­ban­do­na­to la sua ma­no nel­la mia. Ho ca­pi­to im­me­dia­ta­men­te. Era il se­gna­le che mi per­met­te­va di av­vi­ci­nar­mi di più, che ac­cet­ta­va il mio cor­teg­gia­men­to, il con­tat­to col mio cor­po. Che mi ac­cet­ta­va nel­la sua vi­ta.

    Pren­der­la per ma­no è sta­ta la co­sa più dif­fi­ci­le che ab­bia mai fat­to in tut­ta la mia esi­sten­za. È sta­to co­me in­fran­ge­re un mu­ro. Ed è sta­to for­se il mo­men­to più emo­zio­nan­te e più bel­lo di sem­pre.

    Pas­seg­gia­va­mo co­sì, sul ma­re, ma­no nel­la ma­no".

    Ni­co­la rav­vi­vò la le­gna nel ca­mi­no, fa­ce­va fred­do ed il ven­to sof­fia­va for­te tra gli uli­vi. Pen­sò che un pez­zo di le­gno non ar­de mai da so­lo, ma da so­lo si spe­gne. Per ar­de­re ha bi­so­gno del con­tat­to con un al­tro pez­zo di le­gno. Co­me l'amo­re, al­tri­men­ti fi­ni­sce.

    "Ave­vo bi­so­gno del con­tat­to con la pel­le di An­ne. Non riu­sci­vo a sta­re sen­za An­ne.

    Te­ner­ci ma­no nel­la ma­no era sta­to il no­stro se­gno d'amo­re. Ci cer­ca­va­mo. Ho cer­ca­to di es­se­re de­li­ca­to con lei. Ave­vo pau­ra dei suoi quat­tor­di­ci an­ni. Ma vo­le­vo che fos­se mia. E ba­sta.

    Ad An­ne pia­ce­va cam­mi­na­re con me sul ma­re. O tra gli uli­vi sfer­za­ti dal ven­to che le scom­pi­glia­va i ca­pel­li bion­di.

    Ama­va il ven­to, il ma­re, gli spa­zi aper­ti. An­da­va­mo vi­ci­no ai di­ru­pi e lei al­lar­ga­va le brac­cia per far­si col­pi­re dal for­te ven­to. Ci sem­bra­va di vo­la­re men­tre la ab­brac­cia­vo for­te.

    Ma a vol­te era co­me se si as­sen­tas­se con la men­te per fa­re un lun­go viag­gio. Ed io ri­ma­ne­vo da so­lo. Il mio pen­sie­ro si scu­ri­va e mi chiu­de­vo nel mio ma­lu­mo­re. Di­ven­ta­vo in­trat­ta­bi­le. Mi sen­ti­vo esclu­so dal mon­do di An­ne. E lei si al­lon­ta­na­va an­co­ra di più.

    Avrem­mo fat­to il gio­co dell'ela­sti­co per tut­ta la vi­ta, più ci al­lon­ta­na­va­no, più au­men­ta­va la for­za che ci fa­ce­va av­vi­ci­na­re. Non riu­sci­va­mo a sta­re se­pa­ra­ti. Ma quan­do sta­va­mo in­sie­me, do­po un po' An­ne sen­ti­va il bi­so­gno di an­da­re. Ed io sof­fri­vo.

    Poi ho im­pa­ra­to. O me­glio ho ac­cet­ta­to. A la­sciar­la an­da­re. An­ne ad un cer­to pun­to do­ve­va par­ti­re.

    An­ne non avreb­be po­tu­to vi­ve­re sen­za gli uli­vi ed il ma­re. Il ven­to ed i ru­de­ri. Sen­za di me".

    Do­ve­vo ca­pir­lo, Vin­cen­zo, do­ve­vo ca­pir­lo.

    I ge­ni­to­ri di An­ne era­no se­pa­ra­ti. La sua mam­ma An­dy era olan­de­se ed era ri­tor­na­ta ad Am­ster­dam. Vi­ve­va con Ruud. An­ne an­da­va spes­so da lei, ma ave­va scel­to di ri­ma­ne­re a vi­ve­re sul­lo Jo­nio con il suo pa­pà. Il suo pa­pà la coc­co­la­va, An­ne era il cen­tro del­la sua vi­ta. Ed An­ne lo ado­ra­va. Poi ri­par­ti­va, fin da ra­gaz­zi­na, an­da­va dal­la sua mam­ma, ver­so la li­ber­tà che le da­va Am­ster­dam. An­ne avreb­be avu­to su di me lo stes­so ef­fet­to di mu­ta­zio­ne ge­ne­ti­ca. Co­me Vin­cen­zo.

    Ti av­vi­ci­ni e te ne vai co­me il son­no di un bam­bi­no, pic­co­la An­ne.

        Mar Jo­nio, 1977

    Ni­co­la:

    Era­va­mo se­du­ti tra gli uli­vi a guar­da­re in lon­ta­nan­za il co­lo­re ros­so fuo­co che il so­le al tra­mon­to la­scia­va sul ma­re, ri­ti­ran­do­si die­tro i mon­ti. An­ne ave­va ap­pe­na com­piu­to quat­tor­di­ci an­ni. Ed io di­cias­set­te. An­ne ha ap­pog­gia­to la te­sta sul­la mia spal­la. Le mie lab­bra han­no cer­ca­to il suo vi­so, poi si so­no spo­sta­te sul­le sue lab­bra in una ca­rez­za leg­ge­ra. An­ne le ha di­schiu­se, ac­co­glien­do­mi per un at­ti­mo nel­la sua boc­ca.

    Poi ha ab­bas­sa­to lo sguar­do, tur­ba­ta. Ho sfio­ra­to i suoi ca­pel­li con il mio vi­so.

    Mar Jo­nio, 1977

    An­ne:

    Og­gi Ni­co­la ha ac­ca­rez­za­to il mio vi­so con le sue lab­bra.

    "Po­se­rò la te­sta sul­la tua spal­la

    e fa­rò un so­gno di ma­re

    e do­ma­ni un fuo­co di le­gna

    per­ché l'aria az­zur­ra di­ven­ti ca­sa".

    Am­ster­dam, 2019

    An­ne:

    Vi­vo ad Am­ster­dam con Jo­han da qua­si qua­rant'an­ni. So­no an­da­ta via dal mar Jo­nio ed ho la­scia­to da so­lo Ni­co­la, tan­to tem­po fa. Non riu­sci­vo più a sta­re con lui. Ma non rie­sco nean­che a sta­re sen­za di lui. Jo­han lo sa e mi ca­pi­sce. Mi la­scia an­da­re via. An­che mia fi­glia An­na­bel sa che a vol­te tor­no dal suo pa­pà. Ed è con­ten­ta.

    Ho vi­sto per la pri­ma

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