I mitici anni ottanta: il decennio che ha generato il millennio (Gli scrittori della porta accanto)
Di Aa. Vv.
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I mitici anni ottanta - Aa. Vv.
RACCONTI
1987: ADILA E LA GUERRA DELLE PIETRE
Di Maria Lidia Petrulli
Se penso al tempo come a un’entità matematica, il presente è la somma di tanti momenti passati, momenti sistemati come particelle quantiche nello spazio degli eventi. La linearità è un’utopia creata per ridurre l’angoscia del vuoto esistente fra un salto quantico e un altro, e di questi vuoti è pervasa la storia. La nostra storia di palestinesi cui è stata strappata la terra su cui vivevamo.
Come in un gioco, quando si attraversa un ruscello saltando da una roccia all’altra, così ci districhiamo nell’anomalia, per non parlare di angoscia, della nostra storia, in cui occorre balzare sui tanti eventi/inganno che altri hanno preparato per noi. Senza consultarci.
È così che ho visto giungere come un’onda quest’ultimo frammento di storia, un’onda che lentamente si gonfia, si ispessisce, diventa più alta, nutrendosi dapprima della risacca, poi di altre onde, e infine del vento che strappa le catene dell’identità cui era legato, sino a trasformarsi in una gigante onda anomala. Tendo l’orecchio. Ne ascolto la voce. Sento ruggire la rabbia dell’identità offesa, della libertà negata, del futuro frantumato, della giustizia oltraggiata, poiché nessun fratello ha il diritto di scacciare l’altro dalla casa comune. Intorno a me, uomini e donne in attesa. Nessuno sa cosa aspetta, quale futuro contribuirà a costruire questo momento, chissà se qualcuno se lo chiede.
Accucciata sotto il fazzoletto bianco che mi protegge la testa, io me lo domando. Mi rispondo che il futuro sarà la risultante dei salti quantici prodotti da questo momento. E non solo.
Poiché esistono i quanti/momenti decisi lontano da qui, da altri uomini e da altre nazioni che non sanno niente di noi: nessuno è venuto a parlarci, nessuno è venuto a chiederci cosa vogliamo, nessuno si accorge della disperazione che regala la consapevolezza di essere soli e non riconosciuti.
Noi siamo un popolo che non esiste, trasparente, nonostante la storia e l’evidenza. Altri vuole che sia così.
È dicembre e fa caldo, il fazzoletto bianco assorbe le gocce di sudore che mi colano lungo la fronte, me ne sto accucciata davanti al mucchio di pietre pronte al loro primo salto quantico. Penso, mi pongo le domande che gli uomini non si fanno, poiché nel mio ventre di donna esiste una possibilità che loro non hanno, e che mi fa valutare le cose diversamente.
Mi guardo indietro, c’è un silenzio che non riesce a star fermo, è troppo agitato, perderà il controllo e non potrà essere diversamente, lo so, la storia lo insegna. Il sangue chiama altro sangue. E non solo lui, anche l’identità ignorata.
Penso ai quanti che creeranno miriadi di biforcazioni quantiche che, a loro volta, ne creeranno altre migliaia, il futuro non è prevedibile, rimarrà nascosto dietro il velo del tempo, scoprendosi a mano a mano che la cascata di quanti precipiterà da direzioni diverse. Il futuro è un buco nero dove tutto deve ancora accadere, dove niente potrebbe essere come dovrebbe, dove i quanti potrebbero comporre un labirinto da cui non sarà possibile uscirne mai più.
Sono riflessioni tristi a quindici anni, ma non posso farne a meno e penso all’israeliano che è stato ucciso il sei dicembre, ai quattro palestinesi morti qui, a Jabaliya, due giorni dopo, e ad Halem-al- Sisi, ammazzato per aver lanciato una pietra. Conoscevo Halem, aveva solo tre anni più di me, era un bel ragazzo, irruento, pieno di voglia di vivere in una terra riconosciuta e senza frontiere imposte da altri. Penso al suo seme che non darà più frutti, al ventre vuoto della donna che forse amava.
Mi passo una mano sulla pancia: forse anche lei resterà sterile, forse non conoscerà mai la gioia di donare la vita, perché un momento quantico del presente potrebbe ucciderla, e se non la uccide potrebbe farlo egualmente, con la paura. Ho paura della possibilità di mettere al mondo una creatura costretta a esistere senza essere riconosciuta, che non abbia la libertà di giocare per strada nel timore che la sua vita venga sfregiata per un caso quantico che non è un caso, ma la bestialità insita nell’essere umano.
Sollevo lo sguardo dalla mia postazione. D’improvviso, il silenzio si è fatto rumoroso, so quel che sta per accadere. Sono anch’io qui, a Jabaliya, per lo stesso motivo.
Nonostante i miei dubbi di donna, avevo già preso la mia decisione: qualunque burla voglia giocare il futuro, io parteciperò a questa rivolta, a questa guerra di pietre, poiché penso che, in questo momento, non ho altri quanti da scegliere. È una possibilità e non voglio nascondermi.
Manca ancora qualche momento, e mentre la rabbia che mi circonda monta e serpeggia, la calma si annida proprio lì, nella mia pancia di donna che accetta l’ignoto davanti al quale il destino la pone.
Guardo le pietre ammucchiate e sorrido, ho imparato a usarle con i miei fratelli, ho costruito una fionda, so come colpire e come far male, so come soltanto ferire. La nostra guerra di pietre è una rivolta, forse pretende del sangue, ma la mia è l’affermazione di un’identità che esiste, scomoda forse, per alcuni, è un modo di dire che sono qui, che sono un essere umano con una pancia che desidera dare alla luce una creatura che non sia ghettizzata, la mia è la rivolta pacifica di un essere