Neapolis: L’oziosa controversia sull’ambiguità di Johann Wolfgang Goethe
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Un investigatore su questo ha indagato, e della sua ricerca ha composto un pamphlet. Nelle sue parole senza tempo, si dispiega un universo infinito, contraddittorio, capace della grazia soave e della violenta abiezione, che della sua complessità quasi sfida colui che se ne vuol fare osservatore.
Attraverso una Napoli antica e fumosa, si muovono Massoneria e Inquisizione. Entità pesanti e ambigue, deferenti ma spietate avversarie, ognuna con i propri segreti e le proprie osservanze, che si contendono in Terra le anime degli uomini più brillanti. Sullo sfondo, il vertiginoso affresco di storie di uomini di ogni tipo: bruti e nobili, faccendieri e santi, popolo gretto e aristocratici, neri boia e artisti di ingegno ferace. Quale fu qui il vero ruolo di Herr Goethe?
Testo acuto e caleidoscopico, che niente tralascia o archivia, e tiene salda la rotta in un affascinante mare magnum di articolate tradizioni e temi compenetrati.
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Book preview
Neapolis - Giuseppe Cafiero
Epilogo
Prologo
Henderson & Craston
Detective Agency
21, Osnaburg Street, Regent’s Park
London, England
Sig. David Mondine
Antiquarian Bookshop Schimpff
Via dei Cappellari 20
Roma, Italia
Caro amico,
mi hanno confidato che ti eri smarrito in fantasiose e incresciose ambiguità. Desideravi forse acquisire strampalate conoscenze o auspicavi perderti in aleatore conoscenze?
Mi hanno confidato inoltre che avevi principiato a stazionare nel porto di Trieste, a ridosso di una misera linea ferroviaria che ospitava treni tossicosi. Attendevi forse sul molo che qualche nave attraccasse alla riva dei Pescatori o a riva Carciotti o a riva Tre Novembre? È vero che sovente sostavi come un allocco su una banchina a rimirare le onde perché la fantasia ti conducesse in luoghi immaginati? Erano volontà oscure o follie rassicuranti?
Si ha spesso il desiderio di scantonare da becere realtà, anche intriganti e compiacenti, perché si misconosce il futuro. Soltanto la follia riesce talora a placare l’inquietudine. È lecito dunque abbandonarsi ad assatanati soliloqui, o insistiti dialoghi tra se stesso e un altro che è soltanto un sé speculare.
Dove andare, dunque? Urlare forse al vento, perdersi in folate di inusitata violenza e in capricciose volontà, farsi illusioni?
Non rimane che passeggiare su moli sperduti di fronte a un mare schiumoso e irriconoscente. Immagino che proprio così te ne andavi, amico mio, quatto quatto a inseguire esistenze immaginarie.
Mi hanno riferito che il tuo viaggio attraverso i mari sconosciuti dell’inquietudine ebbe termine là dove aveva avuto inizio: su una banchina del porto di Trieste. L’ultima volta che ti hanno avvistato farneticavi di mirabolanti imprese, non rammentando più chi tu fossi e perché ti trovassi sul molo.
Era accaduto ciò che doveva accadere, o che si suppone dovesse accadere, poiché le ciarle sono il bene comune di una comunità logorroica e linguacciuta. Ne convieni?
Non ho l’ambizione di ottenere rendiconti sulle tue avventure o disavventure. Le une e le altre in fondo si somigliano. Basta guardare nello specchio dell’animo: simmetrie e asimmetrie, fausto svago per ingannare se stesso. Giochi ambigui?
Talune malelingue (o furono voci riservate che tuttavia trovarono risonanza?) hanno riferito anche di un tuo breve soggiorno nell’ospedale di San Giovanni, in quel di Trieste, che è una casa de locos, per citare Francisco Goya.
Eppure fino ad allora il tuo era sempre stato un tempo ben speso, che ti ha elargito soddisfazioni, apprezzamenti ed equilibrio. Hai sempre avuto il pregio di compiere con solerte abilità ingrati esercizi di investigazione per soddisfare al meglio i nostri clienti.
Sono stato contento dunque di apprendere che hai lasciato la città di san Giusto per stabilirti a Roma, che tu già frequentasti seguendo per mio conto le tracce di quel James Joyce, lo scrittore, e soddisfare così le esigenze di un editore che rispondeva al nome di Grant Richards. Era il 1906.
Roma è città tranquilla, ben regolata in spirito e ordinamenti. La tua dunque è stata un’ottima scelta. Ti invidio. Trascorri infatti il tuo tempo gestendo una libreria fra antichi volumi e rarità. Conosci bene la mia irrefrenabile passione per l’antiquariato librario. Ricorda però, come benevolo avviso, che bazzichi una città ove la fede cristiana conduce gli spiriti da screanzati abbagli alla conoscenza della verità, e le anime dall’indegnità dei vizi all’eccellenza d’ogni virtù, le converte anche alla solerzia della predicazione.
[1] Così è scritto, se non vado errato, in un’enciclica papale.
Ignoro del tutto, però, in cosa consista il tuo nuovo lavoro e quale sia la tua pratica quotidiana, e quindi come stai di salute e come vanno gli affari. Pur non conoscendo la tua situazione finanziaria, sono certo che avrai necessità economiche, dovendo con tutta probabilità assolvere a importanti impegni pecuniari nell’acquistare volumi ad aste o da collezionisti.
È opportuno, ora, che ti parli delle mie occorrenze e della ragione per cui ti scrivo. Devo riferirti, innanzi tutto, delle oscure vicende che mi coinvolgono. Devo star dietro a personaggi dalle bizzarre propensioni e dalle ambigue pretese. Non so quanto la vicenda sia intrigante, ma confusa lo è certamente. È arduo comprendere le ragioni e le negligenze che sovente si mescolano a intenti di oblique rivincite da parte di personalità alquanto disturbate.
Ciascuno merita rispetto, indubbiamente. E a fronte di tale considerazione ho creduto doveroso assolvere una mansione assegnatami. Vero è anche che una cospicua prebenda ha funto da incentivo, soprattutto in un periodo di magra come quello che ho attraversato.
Un nuovo cliente, perciò.
Questo cliente però propone circostanze investigative che sembrano scaturite dalla mente un po’ folle di un ecclettico studioso. Chiedersi le ragioni di tali insensate pretese è irragionevole al pari delle considerazioni su cui si specula. Il nostro è un mestiere che non presuppone la sanità mentale del cliente, ma soltanto opportune ubbidienze. È nostro compito assolvere precipui desideri anche se ci sembrano eccentrici.
Il caso di cui dovremmo occuparci è rozzamente ambiguo, non così l’ufficio che ci è affidato.
Queste prime righe per metterti a parte che, soffocato da impulsi sconsiderati e poiché ad impossibilia nemo tenetur, [2] ho accettato l’incarico senza chiedere il tuo consenso. Non avevo ragioni plausibili per rinunciarvi, poiché mi trovo in un ginepraio da cui non posso uscire senza una cospicua somma di denaro.
Devo confessarti, con un pizzico di screanzata insania e giacché de optionibus non est disputandum, [3] che ho acquistato, con una certa e incosciente temerarietà l’introvabile e preziosissimo volume di Ambrogio Contarini, ambasciatore dell’Illustrissima Signoria di Venezia, intitolato El viazo al Signor Vxuncassam Re di Persia ovvero Il viaggio a Uzuncassan, Re di Persia, stampato a Venezia per i tipi di Hãnibalem Fosius nell’anno 1387, e successivamente rilegato da oscuri ed eccellenti mastri veneziani. Bella e sontuosa la legatura in cuoio nero con impressioni a secco, doppia serie di filetti raccordati agli angoli, campo centrale con un’ancora, dorso filettato e piatto posteriore analogo.
L’acquisto è avvenuto a una battuta di una casa d’aste di Londra di cui mi pregio non riferirti il nome. Così come mi pregio non riferirti il prezzo, quantunque la mancanza di una pagina, fatto di cui ero a conoscenza, mi abbia infastidito. Ciò nonostante, sono orgoglioso della spesa.
Spero che tu presterai fede a quanto scrivo. Non vorrei che tu pensassi che, invece di acquistare il libro di Ambrogio Contarini, io abbia perso il denaro alle scommesse. Vero è che mi dedico ancora a tale furfanteria con alterna fortuna, ma ho diradato molto le giocate dopo un maldestro infortunio.
Il mio conoscente, nonché allibratore, John Bowdler mi aveva suggerito, nove mesi fa, di puntare una cifra considerevole su una corsa a Epson. Black Spot era dato quindici a uno. Non ho resistito. Ho puntato diecimila sterline. Non desidero affliggerti riferendoti l’ordine d’arrivo della corsa. Ti dico soltanto che ho gettato al vento quella cifra. Da allora ho chiuso con i cavalli. A volte punto qualche sterlina sulle partite di calcio e di rugby. Non frequento più alcuna agenzia di scommesse. Non oso confessarti se ciò mi rallegra o mi rattrista.
Torniamo a noi.
Per l’affetto che ci lega e per il lavoro che abbiamo svolto insieme in questi anni, non provo vergogna nel riferirti che al momento sono letteralmente sul lastrico e non posso fare a meno di ricordarti il detto latino homo sine pecunia est imago mortis. [4] Un nuovo cliente potrebbe rimettermi in sella. Forse non ho agito con assennatezza, ma il bisogno ha avuto il sopravvento.
Ho necessità assoluta del tuo impegno da investigatore perché ho già accordato la nostra disponibilità in cambio di un immediato acconto. È quindi vitale che tu ti occupi del caso e che lo assolva nel migliore dei modi. So per esperienza che questa bizzarra vicenda ti intrigherà, prevalendo su ogni tua resistenza: ti lascerai vincere dall’originalità del caso e ti metterai alacremente al lavoro volendo assolvere l’incarico affidatoci, obliando il detto di Celsio il Giovane " impossibilium nulla obligatio est." [5]
Confido, dunque, nelle tue cognizioni e nella tua retta coscienza. Hai potere e facoltà di indagare come crederai opportuno. Non risparmiarti, anche se, come scriveva Virgilio, " non omnia possumus omnes." [6] Soprattutto concediti liberamente al tuo intuito inquisitorio.
Riguardo al cliente ho alcune notizie da riferirti, apprese da François Gillet, il quale segue l’incarico quale intermediario.
Il suo nome è Siegfried Rezensent. Sembra essere uno studioso di chiara fama, forse professore all’università di Weimar, ove risiede. Non posso dirmi sicuro sulla sua professione poiché Gillet è stato piuttosto vago. A sentir lui, Rezensent è un conosciuto Literaturkritiker, affermato conduttore di seminari di sociologia della politica del Sette-Ottocento, in particolare quelli basati sugli scritti di Johann Wolfgang Goethe; pare che nutra una forte avversione per le idee classiste e oziosamente contrarie ai princìpi di uguaglianza sociale di Herr Goethe.
L’avversione di Siegfried Rezensent nei confronti di Goethe a me sembra peculiare. Lo è soprattutto a sentire Gillet, nei confronti del Goethe massone e della sua decisione di ricevere i guanti bianchi simbolo dell’iniziazione. Guanti che egli offrirà poi a Charlotte von Stein. Un gesto che si significava come perfetta polarità verso la donna cui era legato e che, appunto in quanto donna, era individuo subalterno che non poteva, dunque, essere accettata nella massoneria patrocinatrice di nobili e arcani culti virili.
François Gillet ci avverte anche dell’avversione di Siegfried Rezensent nei confronti di Johann Wolfgang Goethe per l’intento di questi nel voler guadagnare il IV grado del Rito scozzese di Stretta Osservanza A:.U:.T:.O:.S:.A:.G:. [7] che si rifaceva ai libri di Salomone, cioè ai grimori, raffinata amalgama fra i dettami dei cabalistici ebraici e quelli degli alchimisti arabi.
Un voluto asservimento ai dettami della tradizione massonica, un tentativo di recuperare l’essenza primaria del misticismo esoterico.
Non so se ciò corrisponda al vero. L’accetto per amor di parcella nel ricordare il detto latino notulam accipere libertatem vendere non est. [8]
Mi chiedo in realtà da dove nasca tale rabbiosa avversione. Dal desiderio di dominare un’ansia incontrollabile? Per la necessità improrogabile di accreditare se stesso screditando uno scrittore famoso? Per l’amarezza dovuta alla scarsa rilevanza dei propri studi? Per l’incapacità di generare studiosi del suo pensiero? Per timore di un discredito intellettuale?
Difficile a dirsi. Certamente Rezensent è affetto, a mio giudizio, da una patologica ossessione, Nello svolgere la nostra mansione, dobbiamo tenerne conto.
Ritieni che avrei dovuto irridere le confidenze di François Gillet e rifiutare il mandato perché l’investigazione sembrava eccentrica e sconclusionata, quantunque ben pagata? Impossibile. Ho accettato così una cospicua caparra. Sono certo che mi concederai comprensione per tale sfrontatezza: avevo necessità di saldare urgentemente alcuni obblighi con John Bowdler a causa di una mia errata valutazione sull’incontro di calcio fra Chelsea e Manchester United.
Ora, alcune considerazioni su Siegfried Rezensent.
Personaggio indubbiamente eccentrico affetto, io credo, da una paranoia ossessivo-compulsiva. Ho riflettuto a lungo sugli appunti che mi ha rimesso François Gillet e ne ho tratto ponderate considerazioni.
Non credo che Siegfried Rezensent veglia diffamare Goethe accusandolo di conformismo e classismo. Penso piuttosto che aspiri a proporre se stesso diffamando Goethe per talune malefatte. Una sorta di rivalsa.
In che modo? La strategia è sottile. Egli vuole additare l’opera di Goethe come priva di una specifica socialità, di ogni anelito di uguaglianza, di volontà protesa verso il bene comune. Ma arrivo al punto, alla sostanza dell’incarico investigativo che ci hanno proposto.
Bisognerà scrivere un pamphlet sulla vita che si conduceva a Napoli durante la permanenza di Herr Goethe, con minuzie avvincenti e nozioni circostanziate: comporre un eccellente viatico per raccontare la città. Descriverla attraverso appunti peculiari e scene di vita diverse da quelle già narrate da Goethe nel suo Viaggio in Italia. Questo chiede Siegfried Rezensent: descrivere una città segnata dalla sofferenza e dal sopruso.
Quale sofferenza, quale sopruso? Cosa aveva eluso Goethe nel raccontare Napoli? Il disagio di una città e dei suoi abitanti. Ha narrato di una città splendida e allegra, e non poteva essere diversamente: Goethe era un habitué di logge consortili frequentate da nobili, da alti prelati, da una ricca borghesia. Ma Goethe, secondo Rezensent, non ha mostrato alcun interesse nei confronti della magra e agra vita della gente comune.
Un suolo felice, il quale provvede largamente, facilmente ai bisogni principali, dà origine a una razza felice d’uomini.
[9]
Tale era Napoli per Goethe.
Il Settecento doveva, così, essere rammentato come tempo di una fraternità consortile.
Siegfried Rezensent ritiene inoltre che Goethe non abbia considerato rimarchevole il fatto che la santa Inquisizione, la cui presenza era comune a Napoli, come ricorda Gillet, avesse mietuto vittime innocenti. La filosofia e un pensiero eterodosso non dovevano surrogare la religione, non era consentito per esempio che la sciagurata idea di Baruch Spinoza potesse fare adepti.
Sembra che la massoneria avesse stretto un segreto patto con l’Inquisizione: forse perché i suoi metodi erano assai simili ai ferrei dettami massonici?
" Credite mihi: assem habeas, assem valeas, habes habeberis." [10] Goethe, secondo Rezensent, si pasceva del suo snobismo e praticava un ateismo di maniera. Detestava ogni spregiudicata rivolta sociale, era contrario alla libertà di stampa, avverso alla partecipazione popolare nelle decisioni pubbliche. Era persuaso, invece, che l’intelligenza appartenesse a una minoranza, a un’aristocrazia intellettuale.
Un esempio. Goethe scriveva:
Il napoletano crede veramente di essere in paradiso.
[11]
Paradiso? Ben poco in realtà, se gli storici più accreditati evidenziano che, a Napoli, in quegli anni, i meno abbienti non avevano alcun potere decisionale e la loro vita era segnata da codici dottrinali che imponevano il governo delle tre effe: farina, forca e feste.
Siegfried Rezensent ci impone di appuntare possibili inconfessati misfatti dell’Inquisizione a Napoli. Un atteggiamento che abbozza un sottile gioco di rivalsa per marcare un proprio narcisismo intellettuale e imputare a Goethe dimenticanze ragguardevoli anche se forse marginali.
Rezensent desidera, a mio vedere, giocare questa partita in campo avverso. Vuol tacciare Goethe di aver distolto lo sguardo, in maniera subdola e premeditata, dai dolorosi accadimenti legati all’Inquisizione.
Dunque è lecito domandarsi: perché mai Goethe evitò di indagare sull’Inquisizione?
Per ingraziarsi forse i lettori italiani, che, come ben sai, sono profondamente cattolici?
Per conquistare i lettori tedeschi