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L'ultimo giorno di allegria
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L'ultimo giorno di allegria

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La vita è bella all’alba degli anni Ottanta, per due giovani biellesi, Sergio e Stefano, forti di una lunga e sincera amicizia, che neppure l’avvento inatteso di una donna affascinante, Piera, riesce a scalfire. Altre due ragazze, Agnese e Ingrid, entrano presto nelle loro esistenze, ricche di umorismo e spensieratezza, ma anche di un raffinato senso estetico e di un profonda vena riflessiva. Le relazioni s’intrecciano, a volte si complicano; nei giochi e nella gioia si cela spesso un sottile e inconfessato velo di tristezza, perché in cuor loro tutti temono che possa giungere, prima o poi, “l’ultimo giorno di allegria”.
LanguageItaliano
Release dateDec 9, 2019
ISBN9788832144345
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    L'ultimo giorno di allegria - Enrico Ferrero

    Note

    Enrico Ferrero

    L’ultimo giorno

    di allegria

    ʺL’ultimo giorno di allegriaʺ

    di Enrico Ferrero

    Copyright © 2019 Aporema Edizioni

    www.aporema.com

    Quest’opera è frutto di fantasia: ogni riferimento a fatti, persone e luoghi, esistiti o esistenti, è puramente casuale.

    A mia figlia Valeria,

    e a chi ama, oltre ogni conseguenza

    Prologo

    I primi proiettili andarono a infrangersi sulla tastiera dello Steinway and Sons del 1947.

    I colpi, partiti da un fucile automatico a pompa, interessarono una decina di tasti. La violenza dell’impatto, scaricandosi con ferocia sui martelletti e da questi alle corrispondenti corde, fece emettere al pianoforte un urlo angosciante, che si spense in un lungo rimbombo.

    Frammenti di tasti bianchi e neri schizzarono ovunque in una rincorsa caotica. Prima delle detonazioni erano disposti secondo un ordine immutabile; sollecitati da mani sapienti avrebbero saputo diffondere musica, arte, vita. Ora non restava che quella breve danza nell’aria, prima di crollare a terra per il loro ultimo concerto.

    Il contatto col pavimento della vecchia fabbrica risuonò come vetro che cade a pezzi su una lastra di ghiaccio: era il trionfo del nulla sulla ragione.

    Quel vecchio pianoforte, scelto per la sua qualità acustica dagli organizzatori della tournée europea del 1950 di Edward Kennedy Ellington, in arte Duke, era stato suonato dal grande musicista in tre piazze del tour: Zurigo, Milano e Torino.

    La guerra era finita da soli cinque anni e ora, quella musica avvolgente che simboleggiava il grande sogno americano e la sua ottimistica visione del futuro, portava a superare gli orrori di cui la gente era ancora intrisa.

    Altri proiettili, partiti da un secondo fucile, perforarono la cassa armonica dello Steinway e si schiantarono sulle corde dei bassi, che dilaniandosi emisero un ruggito inquietante.

    In un estremo tentativo di difesa, il pianoforte richiuse allora il pesante coperchio. Il fragore che ne derivò, unendosi a quello degli spari e delle corde spezzate, produsse un maestoso boato che parve non finire mai.

    Quanto doveva invece aver amato l’intrigante assalto delle mani del grande Duke che, nel maggio del 19 50, aveva deciso di iniziare la prima delle cinque serate al teatro Odeon di Milano, con una versione speciale di: Take the ‘ A’ T rain , brano composto da Billy Strayhorn, amico fraterno di Ellington, oltre che bravissimo pianista, compositore e arrangiatore. Il pezzo apriva i concerti di Duke dal 1941 fungendo da sigla della più celebre orchestra jazz del mondo, nota per la potenza dei fiati e il virtuosismo di musicisti come Ray Nance, un trombettista lunare in grado di suonare il violino con altrettanta maestria, oltre a saper cantare con voce suadente e sicura.

    Al termine del primo brano era venuto giù il teatro. Il pubblico di appassionati si era spellato le mani per quella perla staccatasi dalla vena artistica del cinquantunenne musicista di Washington.

    Il suo sguardo, durante i concerti, rimaneva quasi sempre rivolto al pubblico. Appena qualche occhiata alla tastiera, qualche cenno del capo all’orchestra e poi via: i suoi occhi intelligenti e allegri riprendevano a frugare la sala quasi a voler cogliere l’emozione suscitata nel pubblico dalla sua musica.

    Le fucilate si fecero più fitte e l’odore acre della polvere da sparo rese l’aria densa e irrespirabile. Ora i colpi arrivavano a casaccio, ma l’agonizzante strumento, pur sbriciolandosi poco alla volta, continuava a resistere. Di tanto in tanto qualche pezzo più grande si alzava in volo e dopo un breve volteggio, ricadeva a terra o sullo stesso pianoforte, ormai dilaniato da un’infinità di squarci.

    Anche la vita di Piera era costellata di squarci. L’ultimo si stava consumando in quella fabbrica abbandonata, un pezzo di storia della sua famiglia. Uomini facoltosi le avevano offerto di acquistare il vecchio stabilimento per potervi tenere eventi e lei, a malincuore, aveva accettato. Prima di acquistare l’immobile quei tizi avevano però preteso che vi si organizzasse uno spettacolo di prova.

    Un tempo, quegli enormi locali avevano accolto macchinari e operai di tutte le età. Lì dentro si erano consumate vite in un frastornante baccano, ma tale sacrificio aveva consentito di crescere figli, farli studiare, acquistare case dignitose e le comodità che una società contadina, grazie al lavoro, poteva iniziare a permettersi.

    Non si può neppure immaginare l’incessante frastuono che scuoteva a ogni ora le fabbriche della zona; quel rumore infernale non procurava però solo sgomento e sordità, era il simbolo della ripresa che stava allontanando il Paese dai disastri della guerra.

    Tre telecamere riprendevano l’evento da altrettanti punti di osservazione; riflettori e spot, disposti con sapienza, davano alla scena i drammatici tagli di luce che avrebbero impressionato gli spettatori del filmato.

    Proprio in questo consisteva l’opera d’arte da proporre a un pubblico disposto a emozionarsi alla vista di quell’inutile sfregio alla bellezza.

    La mattanza volgeva al termine e la carcassa dello strumento sembrava rantolare, percorsa com’era da sinistri scricchiolii che ne annunciavano la fine. Se almeno fosse giunta sulle note di Mood Indigo, un brano malinconico e morbid o come un foulard di seta!

    Come un pachiderma ferito in attesa del colpo fatale, il pianoforte aspettava l’ultima, mortale unghiata: arrivò quando i due fucili concentrarono il fuoco su una delle tre zampe, quella alla sinistra di Duke.

    Il legno della zampa esplose e lo Steinway reclinò su un lato. Toccando terra produsse un rovinoso contraccolpo che divelse l’unica zampa posteriore. A un tratto anche la coda, o quello che ne restava, si schiantò al suolo facendo risuonare la carcassa con tutto ciò che di sonoro le era rimasto.

    La qualità acustica dello strumento, che per non farsi sommergere dalla potenza dei fiati doveva poter duellare alla pari con essi, venne ancora alla luce nell’ultimo, agghiacciante, urlo di morte.

    Appena la nebbia di fumo si diradò, il regista ordinò di stringere l’inquadratura sull’ammasso di corde, legni e martelletti, e infine di chiudere in dissolvenza.

    Il tormento era finito, il vecchio strumento non gemeva più. L’arte ignorante aveva ucciso l’arte vera.

    Acquistato dalla Carnegie Hall di New York nel 1947, aveva iniziato la sua carriera artistica grazie al jazzista più famoso del momento. Nel 1950 era poi stato venduto agli organizzatori del tour europeo di Ellington.

    The Duke suonava di preferenza gli Steinway and Sons, costruiti con estrema lentezza e tanto amore, negli stabilimenti americani di New York City. Quelli realizzati dalla stessa azienda, ma nella fabbrica tedesca di Amburgo, erano ritenuti più adatti alla musica classica per via della loro sonorità più cupa.

    Riportato a Milano per essere utilizzato in altri concerti, in seguito era passato più volte di proprietà fino all’acquisto da parte di una scuola di ballo in corso Buenos Aires. Cessata la sua attività, era stato abbandonato in un magazzino di materiale edile appena fuori Milano, dove era rimasto a impolverarsi per molti anni. Per quattro soldi, era infine stato portato via di lì dai produttori del film, di certo ignari del suo glorioso passato.

    Terminate le riprese, Piera tornò alla fabbrica dal luogo dove si era rifugiata per non udire gli spari.

    Oltre al puzzo di polvere pirica, da lì uscivano pure alcuni rivoli d’acqua: i giustizieri, nella foga di sparare, avevano centrato in pieno le tubature che correvano lungo un angolo del salone. La tensione causata dall’inaspettata emergenza, dissolse però lo sgomento che stava provando fino a pochi istanti prima.

    Come già in passato, ora si trattava di ricominciare tutto da capo, con qualche sogno in meno, e una cicatrice in più.

    PRIMA PARTE

    1

    Avevo conosciuto Piera nel giugno del 1980, durante una vacanza al mare. L’incontro era stato piuttosto fugace e ciò mi aveva impedito di scoprire da dove provenisse. Per tutta la durata di quel breve periodo non mi era neppure riuscito di sapere il suo nome; mi ero perciò limitato a classificarla come la bellona, e posso assicurare che mai tale nomignolo era stato rivolto a donna più meritevole.

    Mi trovavo da qualche giorno in Liguria, a San Bartolomeo al Mare, avevo ventisette anni ed ero libero come l’aria. Quella vita albergo e spiaggia mi stava però annoiando, anche perché non avevo altra compagnia se non quella dei miei libri e di qualche cruciverba.

    Ricordo che il primo ingresso in spiaggia di quella creatura fu soprattutto notato dai maschi, sparsi sull’arenile: i più smisero di leggere o di costruire castelli di sabbia ai propri figli.

    La nuova presenza aveva scosso il sonnolento ritmo di vita dei Bagni Romano, frequentati dagli abitudinari clienti di sempre. Il fenomeno prometteva di riservare ancora molte emozioni visto che, allora, le vacanze non duravano meno di due settimane.

    Che cosa fosse a provocare questa vera e propria tempesta ormonale collettiva è presto detto: non si trattava di una donna come le altre, ma di un essere superiore, dotato di bellezza e fascino in grado di zittire, di togliere per un attimo il respiro.

    Dell’apparente età di venticinque anni, la bellona dava la sensazione di non aver ancora raggiunto l’apice della propria bellezza, seppure già immensa, e questa impressione era accresciuta dalla sua capacità di valorizzarsi nei vari aspetti fisici. Ad esempio, la prima cosa che si notava di lei era l’imponente chioma di capelli biondissimi e ricci, che le scendevano a cavatappo fino a metà schiena.

    Quella chioma esplosiva era quasi sempre contenuta sulla nuca da un grande nastro di velluto nero dai bordi dorati. L’acconciatura poteva essere opera di una brava parrucchiera, ma mi ero fatto l’idea che fosse naturale, o che lei avesse il dono di valorizzarla dando all’insieme, con qualche ciocca svolazzante di qua e di là, l’aspetto di un organizzato disordine.

    Gli occhi, verde smeraldo, paralizzavano. L’ovale perfetto del viso e le guance dalla pelle tesa, incantavano. La dentatura, bianchissima e regolare, umiliava. Non c’era insomma un solo aspetto ordinario in quella specie di miracolo genetico.

    Le altre bellezze della spiaggia sparivano, al suo cospetto: erano come la musica di Santo e Johnny nei confronti di quella di Mozart, come un cartone animato giapponese rispetto a quelli della Walt Disney.

    Fin dal suo ingresso mattutino in spiaggia, con quel suo passo elastico e sicuro e il vezzo di tenere il capo leggermente inclinato a destra, emergeva una sua supremazia destinata a crescere di lì a poco. A ciò si arrivava non appena gli accessori d’abbigliamento scelti per la giornata, oltre ai suoi gesti misurati, iniziavano a funzionare da riflettori puntati sulla sua straordinaria figura.

    Si andava da splendidi pareo annodati in vita e con emozionanti aperture sui fianchi, a borsoni dorati o argentati dai manici ad anelli. Le calzature, che richiamavano la tinta del borsone, erano sandali dal tacco basso, privi di allacciatura posteriore.

    A volte, sul polso sinistro, amava annodare variopinti foulard dai colori sempre intonati a quelli del pareo. La sistemazione sul lettino veniva preceduta da un rituale che prevedeva lo scioglimento del pareo e il suo ripiegamento frettoloso. Lo sgancio rapido dell’indumento provocava negli uomini un sussulto: di colpo veniva infatti messo in mostra un corpo statuario privo di imperfezioni, soprattutto di quelle più diffuse tra le altre donne.

    Il luccichio di una catenina d’oro attorno alle caviglie, dettaglio in apparenza trascurabile, dava luce alla linea delle gambe, in particolare dei polpacci, proporzionati, tondi e lucidi come i paraurti di una Jaguar.

    Il rituale proseguiva con la visione di un grande telo di spugna ocra, con al centro uno sfavillante timone rosso, dispiegato sul lettino con un ampio gesto.

    Prima di adagiarvisi, la bellona passava alcuni minuti a puntarsi i capelli in modo che non ostacolassero l’omogeneità dell’abbronzatura. Questa fase, trascorsa con i gomiti alzati e le mani sul capo, metteva in evidenza un seno tondo, materno, contenuto a stento dalle coppe del costume senza dare l’impressione di essere troppo voluminoso.

    Da seduta, iniziava poi una meticolosa distribuzione dell’olio solare, operazione che molti uomini avrebbero desiderato eseguire. Infine si assisteva all’abbandono nella posizione supina, ma solo dopo aver inforcato occhiali da sole che enfatizzavano, e non ce ne sarebbe stato alcun bisogno, le linee dolcissime del viso.

    I suoi costumi erano sempre dei bikini di colore bianco o nero, fuorché negli ultimi due giorni, quando ne esibì uno di colore rosso fuoco. Tutti quanti sembravano però valorizzare l’aspetto ambrato di un’abbronzatura che faceva di lei una divinità esotica.

    Appariva sempre da sola, e se questo avrebbe potuto incoraggiare i fusti della spiaggia, in realtà la rendeva una creatura inarrivabile, una sorta di stella capace di abbagliante luce propria.

    Il bagnino fu supplicato di svelare qualcosa di lei; soprattutto le mogli volevano disporre di elementi che ne umanizzassero la figura, ma trapelò soltanto che fosse un medico, o qualcosa del genere, e che stesse cercando di riprendersi da un fallito matrimonio.

    Poteva essere dunque esistito un uomo così folle, così insano di mente da rinunciare a un simile incanto, infischiandosene per giunta delle sue sofferenze?

    La risposta stava in quegli occhi tristi e stupendi, che ti trapassavano come se non esistessi o fossi un corpo trasparente, che sapevano guardarsi attorno senza dare mai l’impressione di vedere qualcosa o qualcuno.

    I giorni passavano svelti e si costituì una delegazione incaricata di invitare la bellona alla festa in spiaggia, organizzata da Romano per la sera successiva.

    Puntuale arrivò però il suo rifiuto, giustificato dalla necessità di rientrare prima del previsto, che tagliò di netto le residue speranze di conquista da parte del popolo maschile. Me ne rallegrai. Preferivo infatti continuare a pensarla rocciosa e inespugnabile come una fortezza antica, piuttosto che vederla capitolare all’assalto del primo imbecille di turno.

    La sorte mi diede poi l’occasione di scambiare due parole con lei, allorché le raccolsi dalla sabbia un pettinino cadutole dai capelli:

    «Questo deve essere suo: se si infila sotto la sabbia poi non si trova più.»

    Un sorriso intenso mi mise in imbarazzo.

    «Oh sì, grazie, che gentile… sono proprio distratta! Mi sarebbe spiaciuto perderlo, è un caro ricordo.»

    «Si figuri, ho visto quando le cadeva» fu la mia geniale risposta. «Arrivederci. »

    Mi voltai di scatto commiserandomi per la scarsa verve dimostrata: ʺMa bravo, sei il principe dell’eloquenza! Nessuno avrebbe potuto affascinarla di più.ʺ

    La sua voce, melodiosa e bassa, risuonava già in me, ma piccole sfumature ne avevano sottolineato il fascino misterioso. Tale importante aspetto mi sembrò il perfetto coronamento di tutto il resto, e ne fui felice.

    Dopo qualche giorno finì anche la mia vacanza e me ne tornai a casa con l’immagine di lei che, anziché sbiadirsi, diventava sempre più vivida. Poiché ignoravo tutto di quella dea, ero quasi certo che non l’avrei mai più rivista, anche se speravo avvenisse il contrario.

    Ripresi svogliatamente la mia vita abituale e il mio sbiadito lavoro da impiegato in una grossa ditta di spedizioni. Una pena. In testa c’era sempre l’immagine di quella ragazza bionda e non mi davo pace per non aver provato a chiederle come rintracciarla.

    Se era davvero un medico, la immaginavo intenta a rianimare moribondi nel reparto di terapia intensiva di qualche ospedale del nord, ma in quale città? Torino, Milano, Genova, o che altro?

    Dalle poche parole pronunciate in quell’unica occasione, non mi era parso di cogliere un’inflessione particolare e questa insormontabile assenza di tracce, faceva sì che, nel ricordo, il mito si ingigantisse, come pure la mia convinzione di essermene innamorato.

    2

    Ne parlai a Stefano che, fin dai tempi della scuola, era uno dei miei pochissimi amici, oltre che l’equivalente al maschile di quella bellezza che avevo ammirato nella mitica ragazza.

    Bello, alto, muscoloso, stupendi occhi azzurri, gran sorriso e, soprattutto, uomo ricco di intelligenza, sensibilità e altruismo, Stefano era sempre stato oggetto di grandi attenzioni da parte dell’universo femminile. Lui però non ne aveva mai approfittato, limitandosi a poche e sincere relazioni sentimentali.

    Grande atleta, mi coinvolgeva sempre in massacranti escursioni sulle nostre montagne biellesi, oppure in lunghi giri in bicicletta che, data l’assenza nel territorio di vere pianure, si risolvevano in faticose salite subito seguite da rocambolesche discese.

    Il nostro motto era: partire tardi e tornare presto.

    Gli orari delle nostre partenze erano pazzeschi, per nulla in linea con le sane tradizioni che prevedono tempi comodi di andata e ritorno durante i quali godersi il paesaggio, un po’ di sole, ma

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