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Quell'arte della fuga...
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Quell'arte della fuga...

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...Domandatevi, dunque, perché dovreste avere voglia di ascoltare storie. Perché leggere storie? Non sottovalutate, vi prego, la struggente angoscia di questa domanda. Vi perdereste la sfumatura più amorevole e leggiadra di ogni storia; quella stessa traccia che, al tramonto, vi trafigge l'intelletto di pura, disperata, lirica solitudine...
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateNov 25, 2019
ISBN9788831649049
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    Book preview

    Quell'arte della fuga... - Mauro Corsini

    Ai lettori

    Come usare questo libro: non importa se d’estate, sotto l’ombrellone, nell’ora più chiassosa di Ferragosto, oppure in un treno affollato o la sera sul divano, con la televisione dei vicini ad alto volume perché sono una coppia di anziani che non sente più tanto bene. Se siete dei lettori allenati all’estraniazione non avrete problemi a proseguire questa breve avventura della mente.

    Ma se non siete abbastanza assuefatti all’invadenza acustica del prossimo, potreste correre il rischio di distrarvi. E non sapete cosa vi potreste perdere! Il consiglio è allora quello di scegliere il momento e l’ora più adatte alla meditazione. Non perché questo libro esiga una chissà quale attenzione ma piuttosto per salvare quel poco di buono che è spesso custodito in ogni libro, che consiste in quel desiderio schizofrenico di testimoniare e testimoniarsi, che senza mezza dose di attenzione critica, una dose intera di estraniazione ed un pizzico di follia surrealista, rischierebbe di rimanere inesaudito. Quali sono le ore meditative? Sono quelle in cui avvertiamo maggiore il bisogno di sentire il mondo e nutrirci di vita. Quelle che, quando arrivano, esistere non ci basta più. Le ore dove l’opportunismo razionale delle nostre azioni si trova a fare i conti con l’opportuna leggerezza irrazionale. Per farla semplice, sono come quelle notturne, quando non avete un gran sonno. Quelle quando fuori piove o solo minaccia di farlo. O le prime ore del mattino, quelle dell’alba. All’alba si legge bene anche in un treno affollato di pendolari, tanto la maggior parte di loro prova a dormire ancora un po’ e chi non lo fa guarda fuori dal finestrino in silenzio, già rassegnato alle fatiche del giorno. Se si volesse scegliere l’alba, io consiglierei una lettura immersa in un paesaggio naturale. Mare, montagna, collina, pianura, fiume, lago, sotto un albero, sopra un albero, va tutto benissimo. Perché l’alba non ha un quando né un dove ma solo un breve adesso e un qui, istanti e spazi unici, che sarebbero nulla se privi di uno scenario naturale pronto a colorare lo spandersi del suo fuggitivo incanto. Incanto, quello dell’alba, che è quello della speranza, essendo l’alba quell’attimo tutto offerto alla speranza, capace di trasformarsi, per questo, in idea stessa di paesaggio e di natura.

    Io, personalmente, preferisco le ore del tramonto, da quando il sole inizia a fiaccarsi, fino al crepuscolo. Con o senza nuvole, vento, pioggia... perché certe ore del tramonto non hanno bisogno di un paesaggio, non hanno bisogno di un tramonto, non hanno bisogno neanche delle ore. Sono forse, pensandoci bene, un allestimento scenico dell’anima e ce le portiamo sempre dentro. Specie quando ci è chiaro, ormai, di avere l’età per doverci tirar dietro il nostro fardello di tramonto. Quella per me è la condizione più adatta per ascoltare storie o dalla quale attingere storie. È l’ora in cui sgorgano le idee e i colori più ispirati per scrivere storie. È quell'ora stessa che si mette a sognare.

    Quell’ora che vogliamo appartenga tutta alla bellezza.

    Perché la bellezza della vita ci appare tale proprio perché così è percepita dal nostro senso tragico, imprescindibile tramonto della nostra natura umana. Da questa visione del mondo si genera in noi l’ironia e quel sentimento di solitudine che ci marchia nel profondo con quel tipico presentimento, indelebile, di corresponsione indifferente da parte di quella natura.

    L’ironia è un pianto contraffatto da un sorriso.

    Ma in questa epoca nostra, nella quale noi, cinici o peggio ottusamente inconsapevoli, abbiamo saputo oltraggiare mortalmente madre natura, è a quest’ultima che abbiamo ceduto il ruolo di eroina tragica, tenendo per noi quello dell’idiota carnefice.

    Quella della scrittura è una metamorfosi, ed è quasi mai indolore. Nel passaggio dall’intenzione all’atto intellettuale, ci si deve alleggerire delle troppe banalità che, per sopravvivenza, ci adoperiamo a trattenere. Esercizio non immediato, perché operato su convenzioni che, proprio per nostra naturale urgenza, sono necessarie alla socializzazione.

    Le banalità sono infatti quelle autodifese o strumenti che a volte ci salvano dal baratro dell’incomunicabilità senza per questo indurci a comunicare.

    Consuetudini relazionali non impegnative, utili per parlar tanto e comunicare poco o nulla. Con qualche banalità e un po’ di faccia tosta, si può tuttavia risultare divertenti ad una cena tra amici, riuscire in qualche approccio galante ma soprattutto ci si può lanciare nella carriera politica, in tale faccenda, però, è appena il caso di dirlo, non bisogna mai lesinare con la faccia tosta. Ciò è pur sintomo di qualche malcelata forma di intelligenza truccata da banalità. Oppure, astuzia, o semplice vocazione simulatoria della banalità; in questi casi si tratterebbe, però, di banalità truccata d’intelligenza.

    C’è chi vive la propria fuga come atto di condanna del vivere, oltraggiando la vita d’ostinata banalità; e chi, ancora, oltraggia la banalità del vivere bucandosi d’ostinata morte. Che è un po’ come tuffarsi in oblianti banalità, per annegare ricordi o altre disperazioni.

    E c’è chi, invece, per forme di ostinazione non sue, attende alle banalità giornaliere, fatte di sbarre o violenza, di fame, di stenti o di bombe sopra la propria testa, sempre consapevoli questi, della non banalità della vita.

    Per altri ancora, invece, la banalità non è uno spazio angusto, ma un ambiente personalizzato che ogni tale soggetto si ritaglia a misura di autostima. Confortevole anche se narcotizzato. Non una, pur dignitosa, esigenza di semplificazione, piuttosto un traguardo semplicistico. Tale comune variante di banalità può annidarsi ovunque, e in chiunque, invalidando ogni possibile preconcetto sociale, economico o culturale di appartenenza. Allora, questo atteggiamento virale, diviene quel naturale alveo semi-inerte, sul quale lasciar scorrere la vita, verso una pace infertile ma soddisfatta. Paga d’insignificanza. Oltre tale comodo alveo, ogni responsabilità sociale, etica ed estetica, si delega volentieri. La giustificazione del bene e del male viene così demandata, soprattutto quando riguardi questioni appena oltre l’orticello ove seminiamo il nostro quotidiano. Tale onere spetterà a colui cui offriamo, subordinandolo, il nostro arbitrio; costui si prenderà cura per noi di distinguere il giusto dal non giusto. Si tratta, in fondo, di sopravvivenza, perché crescere a volte spaventa terribilmente. La sorpresa sta nel fatto che, nessuno essendone immune, a tutti sarà capitato di confidare in tale comodo equilibrio. Tuttavia, si spera, vivendo siffatta banalità come un atto di tregua offerta al complicato sfinimento del vivere e possedendo perlopiù idonei anticorpi per uscirne al momento opportuno.

    Sono sempre comprensibili le tregue nella vita, i momentanei disimpegni. Talvolta lo sono anche le rese.

    Per questo, la narrazione di una storia, gioca sempre con la banalità, come fosse Il piccolo chimico, sperimentando il dramma e l’abisso, non appena lacerato quel velo protettivo di voluta mediocrità.

    La banalità, come la bellezza, non è mai banale. Fatta salva la beata banalità del vivere da idioti. Chi sono questi ultimi? Tutti quanti suppongano che l’idiozia sia, in fondo, facilmente autodiagnosticabile.

    In questa alterazione o rimaneggiamento della banalità, a cui lo scrittore è dunque soggetto, risiede il terribile rischio della scrittura. Privo di simili difese o espedienti, lo scrittore si chiude come una crisalide nel suo bozzolo dal quale sa che ne uscirà solo con una nuova identità, riconoscibile sulle orme che la sua scrittura depone. Tracce vere, autentiche di sé e per questo oscene nella loro esposizione, indifesa, irrevocabile, a volte dolorosa, che possono intimorirlo o addirittura emarginarlo.

    Scrivere, in qualche modo narrare, è un antidoto per sfuggire i rischi provocati dalla pericolosa alchimia tra banalità e solitudine. Un rimedio destinato non solo a chi scrive.

    Domandatevi, dunque, perché dovreste avere voglia di ascoltare storie. Perché leggere storie? Non sottovalutate, vi prego, la struggente crudeltà di questa domanda. Vi perdereste la sfumatura più tenera e dolce di ogni storia; quella stessa traccia che, al tramonto, vi trafigge l’intelletto di pura, disperata, lirica solitudine. Che è, poi, la quinta dove tu, lettore-attore, ami nasconderti, così come con te fa la tua stessa natura, quando hai bisogno di un riparo, quando hai bisogno di posare il passo altrove che sulle tavelle del tuo palcoscenico.

    La vera trama di ogni storia.

    Tuttavia, caro lettore, che sia quella di un inquietante Fëdor Dostoevskij o di un surreale umorista come Boris Vian, sappi che la scrittura sarà sempre più amena di quanto non possa esserlo la sua lettura!

    Introduzione

    Die kunst der fuge, l'Arte della fuga, è una raccolta di studi per organo di J.S Bach. La fuga come inseguimento di fraseggi musicali in contrappunto, introdotta dal grande compositore tedesco, accompagna la nostra mente verso una via d'uscita, un'uscita di emergenza. Un sottofondo meditativo sul quale viaggiare oltre se stessi. Una fuga non solo metaforica, che dura tuttavia il solo tempo dell'ascolto, ma questo non è poco.

    Una fuga può essere l’ascolto di musica, la contemplazione di una composizione artistica, una lettura capace di estraniarci. Un film, uno spettacolo di teatro. La meditazione profonda di uno yogi. Qualunque esercizio mentale che sia in grado di dissetare, goccia a goccia, il nostro bisogno di autenticità.

    Fuggire davvero significa andare incontro a noi stessi e forse questo traguardo non si può raggiungere. A dir poco si tratterebbe di un esercizio complicato da troppi condizionamenti. Difficile e al tempo enigmatico.

    Perché andare incontro a se stessi significa andare controcorrente rispetto alla centralità degli Ego-sistemi che sempre più ratificano i sovranismi del , che ognuno proclama in se stesso. L’andare incontro a noi stessi, rivela il paradosso di uscirne, piuttosto, per riscoprire la comune connessione con le prime radici della nostra sostanza vitale, riconnettendola a quell’Eco-sistema, mentale e spirituale, mediante la connessione delle coscienze. Annichilire la volontà dell’Io, per vivere, tramite il Noi, il Tutto.

    La speranza di un'uscita di emergenza è sintomo di un nostro superstite disaccordo con il modello di vita condizionato da vari opportunismi economici, socio-politici, non sempre condivisibili e spesso contrastanti tra loro.

    Siamo tutti virtualmente reclusi. Siamo tutti infelici pur se appagati. Sedotti da un senso di potenza insaziabile, chiusi nelle nostre carceri immateriali ma concrete. Più di quanto si possa immaginare. Azioni e pensieri, da tempo non più autenticamente nostri, ci illudono di libertà. Inseguiamo un surrogato di felicità che, continuamente sussurrata all'orecchio, ci convince dell'Ego-sovranismo del nostro sé, insinuandoci visioni e miraggi di ribelle onnipotenza. Una pagina facebook è il manifesto che ci autoproclama sovrani assoluti del nostro regno, spesso solo virtuale, ma non importa. Un post è un editto, una sentenza, un proclama! O la semplice eco di chi vorremmo essere e fingiamo già di esserlo, con l'affiliazione di una condivisione, o di un meno impegnativo like. Avere per ostentare, presumere di essere, simulare di aver potere e di essere il potere! Per la nostra auto-celebrazione! Virtuale o non.

    La nostra beata non-libertà ci è offerta a piene mani, in questa fase ormai incancrenita, dedita al consumo di benessere e soprattutto al consumo di iper-tecnologia. E ne siamo rimasti assuefatti. Essa si bea di poter proiettare, in noi, visioni allucinogene di poteri non nostri, desideri non nostri, di assecondarli, poi, con soddisfazione non nostra, di farci ambire ad altro ancora, inseguendo sogni narcotizzati, non nostri.

    Si tratta sempre di non-esigenze avvertibili come primarie necessità, obiettivi non più rinunciabili della nostra esistenza. Assecondiamo, sempre più sconsiderati ed autolesionisti, l'eutanasia della parte migliore di noi: il nostro pensiero critico soggettivo, divenuto o relegato ad essere, accessorio scomodo per la nostra beata non-felicità. Un rompiscatole che pretenderebbe pure di farci la morale e che sempre ci ammonisce e biasima per quella abdicazione del soggetto del nostro essere in favore dell'essere un soggetto.

    Pazienza. Male minore in fondo. L'importante è inseguire l'esca della beata non-felicità. Lasciarci dolcemente da lei anestetizzare, ipnotizzare: "Quant'è bella giovinezza ...che non fugge tuttavia..."

    Nessuno ha più una voglia vera di cambiamento o fede nel cambiamento. Come rinunciare, del resto, al benessere della tecnologia a buon mercato? Pensare meno e godere di più sembra una tale formula di successo! Da almeno qualche secolo. Cancrena, la nostra, avviatasi al suo incurabile stato avanzato negli ultimi decenni. Metastasi, ora, dell'esistenza umana.

    È tuttavia una strana società terminale la nostra, che non soffre per sé o per non essere sé, poiché, ed è questo forse un meschino favore che la natura ora gli corrisponde, affetta da inferma beatitudine senile.

    Sottesa al regime industriale e consumistico, la nostra appagata non-libertà si rianima con la buona cultura, quella largamente offerta dal mercato, quindi da esso o attraverso esso, regolata e stillata per un più produttivo consumo di cultura. Che è quindi, per conseguente auto-definizione, non-cultura. Non parlo del valore della cultura, ovvero delle qualità e delle virtù che ad essa si confanno, ma voglio sottolineare la sua subordinazione ad una funzione, spesso legata al mercato con la sua logica pubblicitaria. Per questo, per l’attribuzione di un eccesso di funzione sociale al valore culturale, viene conseguentemente favorita e diffusa una cultura selezionata, drogata, secondo una modalità via via imposta dalle convenienze del momento, operando di fatto una repressione di ciò che non conviene. Eutanasia anestetizzata di facce sconvenienti della cultura. Ma la cultura dovrebbe continuare ad avere, tutte le sue facce, nessuna esclusa. Altrimenti ne deriverebbe una censura, o una messa all’indice, pur non sempre intenzionale, provocata tuttavia da una soggezione di marketing. Ciò che si produce: musica, libri, film, arte..., deve prima o poi fare cassa. Lo esigono le case discografiche, le case editrici, le gallerie d’arte, le agenzie di distribuzione, il mercato drogato dallo share, l’espositore al banco dei best sellers. Con il sorriso smagliante del buon venditore, tutti gli operatori confessano che è la cultura ad essere importante nell’industria della cultura. Ma è, e lo sappiamo, esattamente il contrario. È una questione di utilità e questa è oggi sempre più quella dell’economia di mercato.

    Così, con termini di economia di mercato, parliamo di produzione culturale, offerta culturale, patrimonio culturale. Il mercato crea la sua società ideale. Tutti belli, e tutti giovani, anche i vecchi. L’importante è il consumo, altrimenti crolla tutto. Chi è ai margini, ci resti! Chi è disperato e non ha un domani, crepi oggi! Se il mondo sarà invivibile tra un paio di generazioni, si pensi ancora positivo, vivendo più che si può allegramente... ecchissenefrega!.

    "Chi vuol esser lieto, sia: del doman c'è ancor certezza!"

    Contagiando organi vitali della società, anche la politica si è assuefatta al gioco, ipocrita ma fruttuoso, del beare con una mano e negare libertà con l'altra.

    L'ideologia, se non è morta, non sta benissimo… sepolta da fake news, da post e slogan a buon mercato, dispensate da un irresponsabile autoritarismo dell’incompetenza, il pensiero stesso è vittima del consumo usa e getta. Quanti pretendevano di parlare alle menti, ben consapevoli della nobiltà del loro privilegio, sarebbero oggi infiacchiti, vinti da coloro che avranno saputo dimostrare l'utile tattica di infiammare i cuori. Poi costoro hanno nel tempo perfezionato le loro modalità comunicative cuore a cuore, sperimentando i maggiori vantaggi di parlare allo stomaco. Infine all'intestino tenue. Viviamo in un’epoca dove, quel poco che rimane di verbale, è ridotto ad essere una comunicazione cardiaca, gastrico-digerente. Domani mattina questi si annunceranno, declamando vibranti volgarità al nostro colon-retto e, temo, anche oscenamente oltre. Tra una pubblicità e l'altra, perché è la legge anche della politica, che riconosce ormai quasi esclusivamente nella propaganda la sua anima tutta pubblicitaria. Precisabile come non-politica, se siete amanti delle finezze. Molti di noi, in fondo, se ne compiaceranno, perché sempre un po' svogliatamente felici di non dover pensare davvero ma di poter giudicare e consumare in libertà, cogliendo modaioli pensieri -issimi e giudizi prêt-à-porter, firmatissimi, scimmiottabilissimi e a buon mercato.

    Pubblicità e fake news, sfruttano la via di contagio più rapida ed efficace, ovvero la divulgazione per copia-incolla sui cosiddetti social. Chi copia-incolla prima è più originale di chi copia-incolla dopo. Si vincono followers perché si è più fashion. Perché la cultura delle idee copia-incolla non esige che queste siano verificate o verificabili. Esige, tuttavia, che siano sempre nuove, possibilmente insolite e che bùchino il web, che spàcchino! Sempre divulgate da volti noti. Poco importa se competenti. Conta l’estetica glamour dell’informazione, più asservibile alla legge del consumo, non l’autenticità. Ciò che conta sono i titoli ad effetto, quelli che truccano le mezze verità per poi stregarci con ingannatrici allusioni. L’impazienza dei lettori, sempre meno lettori critici e sempre più consumatori di titoli ad effetto, diviene così colposamente, anche se inconsapevolmente, complice. Con la cultura così drogata, è facile iniettare la morte nelle vene della civiltà, potendosi facilmente trasformare intere democrazie in dittature di maggioranze. Una dopo l'altra. Già succede. Il male avanza. Ora pro nobis, ora pro nobis!

    Resta, per chi ha saputo conservare un po' di leggerezza, la libertà della fuga. Leggerezza, non superficialità. Agilità immaginativa, piuttosto, che è poi spesso creativa.

    Con la mente si può fuggire, certo, in tanti modi e verso mete e significati diversi. Chi ha immaginazione per fuggire, fa della sua fuga una scampagnata, un’escursione verso luoghi lontani, non solo geografici e per questo viaggia più adeguatamente di quanto non possa fare chi viaggia davvero con jet e bagagli in stiva, dimenticandosi però di portare con sé la leggerezza di un’immaginazione necessaria. Con l’immaginazione ci si può allontanare o si può addirittura evadere, ci si può estraniare dalle banalità che non sopportiamo o sublimare, perfino, nella meditazione di sé. Si può fuggire da un ricordo o verso un ricordo. Si può fuggire dall’oblio o verso l’oblio. Chi ha immaginazione è già lontano, prima di chi debba viaggiare per arrivare lontano, perché nella lontananza, spesso, ci vive. È sempre la leggerezza, tuttavia, ha conferire alla fuga il suo giusto senso. Che è poi tutto il senso delle cose. Lo è anche e soprattutto quando è l’arte la sublime meta del nostro fuggire. Perché la leggerezza fugge sempre inseguendosi.

    Perché la leggerezza, come la vita ha saputo insegnarmi, è un'arte!

    Mauro Corsini

    Quell’arte della fuga...

    Racconti

    LA SFIDA

    LA SFIDA

    1.

    E così un giorno, di prima ora, Massimo Riboni, detto il Che, incontrò Giovanni in un bar neutrale, in una circostanza del tutto casuale.

    Giovanni amava alzarsi prestissimo, molto prima del necessario, per osservare l'arietta vergine e cristallina lasciarsi penetrare dalle prime rosee luci dell'alba. Almeno questo è quanto raccontava, ogni mattina, al barista, mentre quel bonaccione sollevava la saracinesca e una sequenza di interruttori del quadro elettrico, con una lentezza tale da lasciar intravvedere un’attenzione ancora sonnecchiante, tanto che c'era da immaginarsi che quella sonnolenza fosse dovuta più a quella monotona spiegazione che ad un sonno insufficiente. Sta di fatto che Giovanni fosse già lì, come ogni mattina alle sette in punto, in attesa che Bobo, risuscitasse L'incontro, emettendo i primi sbuffi di vapore ed i primi fischi di riscaldamento.

    Un caffè, Giovanni?

    No, grazie. Fammi il solito. Lo sai che devi farne almeno una decina, prima che ne esca uno decente.

    Solito scambio di frasi da copione. Il solito, sarebbe stato il solito tè verde al gelsomino. Ma, come al solito, Bobo ci provava sempre. A qualcuno doveva pur toccare il solito primo caffè!

    Quel bar, ai margini del paese, era affacciato sulla strada che si immetteva sulla provinciale. Sembrava messo lì perché si potesse godere del panorama, con quelle collinette protese che facevano capolino sbucando, come di consueto a quell’ora, oltre un oceano di nebbia che man mano si diradava.

    Inappuntabile nel suo completino da corridore ciclista professionista, con tanto di scarpine e caschetto, Giovanni praticava un ciclismo agonistico. Non andava in bici. Lui faceva ciclismo. Andare in bici allude ad un piacere, priva la pedalata di quel necessario senso di dovere. Di quella stoica

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