Identità fotografiche: Processi di costruzione della realtà attraverso l'immagine
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Giovanna Di Lauro è laureata in Comunicazione pubblica e d'impresa presso la facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano. Ha studiato inoltre Management della comunicazione socale, politica e istituzionale presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM.
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Identità fotografiche - Giovanna Di Lauro
fotografica.
Introduzione
Attraverso questa ricerca si è cercato di fornire un’interpretazione della fotografia come fenomeno sociale, dal momento che essa fa parte integrante della vita quotidiana e sociale, ed è il mezzo di espressione tipico di una società tendenzialmente razionalistica, fondata su una gerarchia di professioni e di strati sociali. La fotografia è, per la società contemporanea, uno strumento di prim’ordine soprattutto per la sua capacità di riprodurre la realtà, capacità che la fa apparire, almeno in prima istanza, come il procedimento di riproduzione più fedele e più imparziale della vita sociale, anche se – come si vedrà – questa esattezza riproduttiva non può prescindere dai punti di vista e dalle ideologie dei soggetti che riprendono le immagini, in una sorta di gioco infinito di rimandi fra tecnica e identità, immaginazione e realtà. In questa prospettiva la fotografia diviene capace di interagire nei processi di costruzione della realtà che ogni giorno, pur non accorgendocene, abbiamo.
La maggior parte delle volte pensiamo per immagini e, i ricordi delle esperienze che abbiamo avuto e che di volta in volta andiamo a ripescare per avere delle basi su cui sviluppare i nostri comportamenti futuri, sono fissati nella nostra mente proprio sotto forma di immagini. L’immagine ci permette di avere delle informazioni dense di significato, come se fossero dei files zippati in grado di riassumere particolari esperienze che abbiamo vissuto.
In un certo senso la fotografia è economia. Basta provare a descrivere a voce un qualsiasi soggetto/oggetto di cui si possiede una foto. Nella maggioranza dei casi, il linguaggio visivo è molto più diretto, efficace e semplice e, cosa ancor più importante, è capito da tutti.
Il presente studio è stato sviluppato secondo un approccio teorico basato su diverse prospettive disciplinari, che vanno dalla sociologia all’antropologia, dalla psicologia alla storia e alla filosofia in cui, volendo fare qualche nome, spiccano autori come Barthes, Goffman, Sontag, Benjamin, Berger. Mentre i sociologi hanno focalizzato l’attenzione sui rapporti che intercorrono tra individuo e società – e, in questo senso, sull’importanza della fotografia quale ingrediente fondamentale dell’industria culturale e della moderna comunicazione di massa – gli studi antropologici hanno dimostrato complessivamente come la centralità della fotografia nel mondo odierno risieda essenzialmente nell’aspetto culturale ed ideologico dei suoi messaggi determinati a priori, ovvero indirizzati, proprio attraverso le ottiche scelte, e che combaciano in maniera esatta con le diverse ideologie che le classi dominanti hanno storicamente elaborato per esercitare il proprio potere.
L’elaborato è suddiviso in cinque capitoli più un capitolo conclusivo. La prima parte, in cui il fenomeno viene considerato sotto un profilo più ampio, è dedicata maggiormente ai contributi teorici e servirà a comprendere la fotografia sotto diversi punti di vista, in questo caso empirici. La seconda parte invece, sarà dedicata a tematiche più specifiche e verranno riportati anche alcuni esempi particolari.
Il primo capitolo è dedicato alle origini storiche e visive della fotografia, alla sua sfida
perenne con la pittura, ai caratteri dell’ottica e al funzionamento dello sguardo e della percezione.
Nel secondo capitolo, che – come detto – è un po’ il cuore teorico della ricerca, sono evidenziati i rapporti che la fotografia viene ad acquisire con la realtà, con la memoria, con l’identità e con la società. È qui che si metterà in relazione l’identità con l’immagine e si proverà a comprendere la dinamica, o meglio le dinamiche messe in atto in questa relazione, determinate in modo sostanziale anche dalla presenza di un terzo elemento, ovvero la memoria. Sempre in questo capitolo è approfondito il rapporto tra immagine e potere, e si analizzerà come questa particolare forma di comunicazione viene gestita – spesso in modo poco neutrale – dalle società capitalistiche.
Il terzo capitolo, sulla fotografia politica, entra nello specifico delle dinamiche di potere che l’immagine porta con se e saranno considerati in particolare alcuni periodi storici interessanti sotto il profilo della gestione delle potenzialità della comunicazione visiva, ovvero il periodo risorgimentale, il periodo fascista e il periodo stalinista. Sarà brevemente analizzata anche l’interpretazione della fotografia in Cina.
Nel capitolo quattro è affrontato il tema relativo al significato e alla lettura della fotografia. Verrà analizzato come il processo di interpretazione del testo fotografico sia intriso tanto dall’identità del fotografo, quanto – qualora sia un essere vivente – dall’identità del soggetto fotografato nonché dall’identità di chi fruisce l’immagine, elementi che assieme andranno a formare quell’incontro di individualità e identità che solo attraverso la fotografia è reso in modo così esplicito. Verranno passati in rassegna alcuni dei moduli grammaticali
principali del linguaggio fotografico, come ad esempio, l’istantanea, il ritratto e la sequenza.
Il quinto e ultimo capitolo argomenta invece le modalità di scrittura e di organizzazione del testo fotografico e analizza i relativi comportamenti che sono alla base del discorso fotografico oltre che le differenti fruizioni di esso. Si analizzeranno alcuni rituali sociali caratterizzati dalla presenza della macchina fotografica e si farà particolare riferimento ad una delle forme distintive in cui la fotografia viene organizzata e conservata, ovvero l’album fotografico, di cui verranno evidenziati i caratteri strutturali tipici che si ripetono di volta in volta, come a voler indicare una particolare sintassi di scrittura. Verrà poi analizzato l’uso che la pubblicità ha fatto – e continua a fare – della fotografia home-mode
per raggiungere livelli di credibilità maggiori e, di conseguenza, per aumentare l’efficacia e la recezione dei suoi messaggi.
STORIA DELLA FOTOGRAFIA E DELLO SGUARDO
LE ORIGINI
Per affrontare e comprendere al meglio qualsiasi cosa o fatto, la mia opinione è sempre stata quella di partire dalle origini. In tal senso questo primo capitolo è dedicato alla storia della fotografia e all’evoluzione e al funzionamento della nostra percezione e del nostro sguardo.
La fotografia, così come le pitture preistoriche, ha sempre avuto lo scopo di catturare, di tramandare e di conservare ciò che apparteneva ad un altro periodo, ad un’altra epoca, al passato. L’importante ambizione della ricerca fotografica è stata la stessa di quella del pittore delle grotte d’Altamira e Lascaux: l’artista preistorico che dipingeva animali e scene di vita quotidiana sulle pareti delle grotte, concretizzava infatti uno dei più antichi sogni dell’uomo: catturare l’aspetto e l’anima del mondo che lo circonda.
È noto come anche le grandi scoperte e le conoscenze delle leggi che regolano i fenomeni naturali siano state possibili grazie a una paziente osservazione. In modo analogo, anche all’origine della fotografia vi è la curiosità umana.
Antenato del moderno apparecchio fotografico è stata la camera oscura, fino alla scoperta di un supporto fotosensibile; di immagini ottenute con la camera oscura si ha notizia sin dal tardo rinascimento. Le prime camere oscure erano abitabili, il pittore o lo scienziato eseguivano il lavoro d’osservazione e di ricalco.
Nel 1700 circa, grazie a Johann Heinrich Schulze, si adattò una lente al foro stenopeico di una scatola di 61 cm, e si sostituì il fondo con una lastra di vetro molato. La fotografia più vecchia del mondo risale al 1826 ed è stata scattata da Nicéphone Niépce e ha necessitato di un’esposizione alla luce della durata di ben otto ore. Verso il 1837 Jaques Mandé Daguerre perfezionò l’invenzione di Niépce, migliorando la tecnica di ripresa e la qualità del materiale, al punto da ridurre il tempo d’esposizione ad un paio di minuti. Dal nome del loro inventore le lastre presero il nome di dagherrotipi
. Il dagherrotipo era un’immagine che trasmetteva informazioni, ma anche un oggetto da trattare con cura, rivelando così il doppio status della foto, simultaneamente oggetto e immagine (Clarke, 2009, p. 9).
La storia della fotografia nell’Ottocento è stata segnata da una serie di contraddizioni rimaste intrinseche nella foto come immagine e come mezzo figurativo. Daguerre aveva messo a punto il mezzo per registrare l’immagine, ma il rapido sviluppo della successiva tecnologia ottocentesca in questo campo, non è stato solo il riflesso dell’industrializzazione della fotografia nel contesto culturale e ideologico, quanto anche – cosa fondamentale per la natura stessa dell’immagine fotografica – della fede nella possibilità di creare il mezzo perfetto per riprodurre l’immagine perfetta, un’iper-realtà per così dire. In questo senso, la tecnologia si è sempre sposata alla magia
delle promesse dell’immagine fotografica.
Ad ogni modo, la fotografia ha posseduto fin dall’inizio, tutto ciò che serviva per trionfare in un’epoca caratterizzata dall’espansione demografica, dallo sviluppo industriale e dall’introduzione di rivoluzionari mezzi di comunicazione, nonché, cosa ancora più importante, in un’epoca in cui parte della popolazione desiderava dare una nuova buona immagine all’ordine sociale. Naturalmente però, occorsero altre invenzioni per arrivare alla fotografia moderna.
L’inglese William H. Fox Talbot (1800-1877) inventò un procedimento basato sull’immagine negativa da cui potevano essere tratte innumerevoli copie. Poi intorno al 1890, George Eastman lanciò sul mercato la negativa su celluloide e costruì il primo apparecchio fotografico portatile, che contribuì in modo decisivo alla diffusione della fotografia. Fu lui a fondare l’azienda Kodak con lo slogan voi premete il bottone, noi faremo il resto
(Clarke, 2009, cit. p. 11).
La fotografia ha conosciuto un’evoluzione rapidissima in pochi anni e lo sviluppo industriale la mise presto alla portata di tutti. La costante evoluzione tecnica e la conseguente miniaturizzazione suggerì a Oscar Barnak la costruzione dell’apparecchio fotografico Leica, nel 1930. Questa macchina fotografica estremamente maneggevole e portatile, aprì nuove strade al linguaggio fotografico.
Il successivo colore poi, ha costituito l’ultima e più decisiva rivoluzione nel campo delle tecniche fotografiche: con esso l’uomo ha potuto cogliere l’anima della natura e l’immagine reale delle cose fino in fondo.
Negli anni novanta l’informatizzazione dilagante ha portato alla realizzazione dei primi modelli di apparecchi fotografici digitali.
In meno di sessant’anni, dunque, la foto è passata da dominio privilegiato dei primi progenitori, a uno dei mezzi più accessibili e accettabili di raffigurazione visiva.
In tutti i rami della scienza e delle tecniche moderne, la fotografia continua a fornire nuovi dati ai ricercatori; la sua presenza è ugualmente decisiva nel campo della cultura e particolarmente rilevante è la sua influenza sui movimenti pittorici d’avanguardia: dadaisti e futuristi devono proprio alla fotografia l’ispirazione di molte loro tele rivoluzionarie.
La fotografia è stata ed è rimasta ancora la forma d’arte democratica per eccellenza, dal momento che riesce a rendere tutto e tutti potenzialmente importanti, consentendo a chiunque di realizzare foto e costruirsi una visione del mondo individuale, attuando l’imperativo surrealista di adottare un atteggiamento inflessibilmente egualitario di fronte a qualsiasi oggetto (Sontag, 2004, p. 69).
Come per l’arte, anche per la fotografia il nemico è ciò che è convenzionale, sono le rigide regole delle istruzioni per l’uso che annullano l’espressione personale, la propria idea di immagine e di conseguenza anche l’identità del fotografo, standardizzando la sua ripresa ai canoni vigenti. Di converso, la salvezza della fotografia sta proprio nella sperimentazione e nel confronto, colui che sperimenta non ha idee precostituite sulla fotografia. Si può affermare, riprendendo Chéroux, che gli errori sono banali solo da un punto di vista storico convenzionale (Chéroux, 2009).
1.2. L’ETERNA SFIDA
L’idea che la fotografia rimpiazzi la pittura risale a Baudelaire e riflette una reazione comprensibile davanti alla supposta intromissione della tecnica nella sfera artistica (Dal Lago, Giordano, 2006, p. 137).
La fotografia, con la sua pretesa capacità di riprodurre la realtà, sembrava rendere superflua la pittura. Fin dalle sue origini, però, la fotografia non è mai stata un linguaggio oggettivo, né un esperanto visivo capace di soppiantare altre forme d’arte. La fotografia ha contribuito a liberare la pittura da schemi rigidi e figurativi, permettendo agli artisti di sperimentare nuovi campi di ricerca; di conseguenza, non si è mai posta come antagonista della pittura.
Il linguaggio della fotografia, in quanto tale, non ha nulla di più democratico, massificato e oggettivo di quello della pittura, ma è evidentemente soggettivo e creativo. Anche Nadar aveva compreso che la fotografia creava un altro mondo, in cui il realismo delle figure e delle scene era solo apparente. È infatti chiarissima in lui la consapevolezza della fotografia come tipo d’arte autonoma e non sterile riproduzione della realtà. Se in un certo senso la macchina fotografica coglie effettivamente la realtà e non si limita a interpretarla, le fotografie sono sempre un’interpretazione del mondo esattamente quanto i quadri e i disegni.
Tuttavia, l’originalità della fotografia in rapporto alla pittura risiede proprio nella sua oggettività essenziale dal momento che per la prima volta, un’immagine del mondo esterno si forma automaticamente senza apparente intervento creativo dell’uomo.
Tutte le arti sono fondate sulla presenza dell’uomo, solo nella fotografia se ne gode l’assenza (Costa, 1985, p. 21). Assenza che però è solo fittizia, dal momento che la presenza dell’uomo nella fotografia si esprime – come si vedrà più avanti – attraverso la scelta del soggetto e il punto di vista.
L’attenzione alla referenzialità iconica, porta a più esplicita maturazione il principio duchampiano di ready made e della sua logica di prelievo dalla realtà; il taglio che il fotografo opera sulla realtà attraverso l’inquadratura, potenziato dagli aspetti iconici e indicali dell’immagine, è infatti del tutto analogo a quello operato contemporaneamente dagli artisti che, rinunciando alla rappresentazione con una precisa scelta intellettuale, avevano prelevato dal mondo reale oggetti già fatti, o comunque esistenti, perché presentassero se stessi. Un’operazione che, mettendo in luce l’essenza stessa della fotografia avrebbe portato, con la Pop Art, a considerarla un ready made virtuale
, che avviene non attraverso l’azione materiale, ma con la mediazione di una macchina e attraverso lo scatto, iniziando una prassi che ha favorito da subito le pratiche avanguardistiche del fotomontaggio, dell’assemblage e del collage (Miraglia, 2011, p. 86).
La realtà fotografica dei tardi anni Quaranta ha consentito, del resto, una visione meno chiusa e più tollerante, capace di abbracciare al proprio interno non solo il citazionismo da altre epoche, ma anche tutte le manipolazioni di stampa e di laboratorio.
Negli anni Cinquanta e Sessanta la fotografia soggettiva si è presentata come momento di passaggio, in cui la ricerca sfugge ancora ad una precisa definizione, senza un preciso orientamento, sensibile alle influenze della sfera della pittura, del Surrealismo e delle Narrative artistiche degli anni. La consapevolezza di sé che la fotografia acquista fra Usa e Europa, in questi anni, diventa una coordinata di riferimento culturale decisamente centrale, tanto da incidere non solo su realtà geograficamente lontane dagli epicentri di origine delle nuove idee ma anche, tappa dopo tappa, su alcune forme espressive e della comunicazione a noi contemporanee.
In una prospettiva simile il critico d’arte John Berger ha posto l’accento sul fatto che tutte le immagini sono fatte dall’uomo cioè man-made: un’immagine è una visione ricreata e riprodotta. Ogni immagine contiene in se un punto di vista, anche una fotografia, perché le fotografie non sono come si pensa una registrazione meccanica; tutte le volte che guardiamo una fotografia siamo consci anche se in maniera superficiale della scelta che il fotografo ha compiuto preferendo quell’immagine ad un’infinità di altre immagini possibili (Berger, 1998).
In tal senso non esistono copie della realtà: ogni disegno, quadro, fotografia o film è considerato affermazione visuale.
Il carattere rivoluzionario delle immagini fotografiche, cinematografiche e televisive è individuabile quindi non tanto nel fatto che esse abbiano liberato la pittura dall’impegno della rappresentazione fedele del reale, quanto piuttosto di aver mostrato la non esistenza di quest’ultima, in quanto più che la realtà oggettiva esistono punti di vista, inquadrature, angolature del reale. Esso in sostanza, non è altro che una disseminazione di vedute che andrà inteso, in questa prospettiva, come nuova aura, come necessità messa in atto da parte dei produttori e dei fruitori di immagini portatrici di distanza critica in rapporto alla stereotipia e alla reificazione della realtà esistente.
Un altro blocco concettuale risulta dalla connessione, culturalmente accettata, tra l’interpretazione e la resa artistica.
Generalmente, il linguaggio con il quale si valutano le fotografie è estremamente povero. A volte è una traslazione del vocabolario pittorico: composizione, luce eccetera, più spesso consiste in giudizi estremamente vaghi.
La ragione di questa povertà di linguaggio non è casuale, ma è qualcosa di insito nelle fotografia stessa ogni volta che la si considera come arte, dal momento che propone un processo dell’immaginazione e un appello al gusto parecchio diversi da quelli della pittura. La differenza tra una bella e una brutta fotografia non ha niente a che vedere con quella tra un bel quadro e un brutto quadro. Le norme di valutazione estetica elaborate per la pittura dipendono da criteri di autenticità (o contraffazione) e di abilità, criteri che in fotografia sono più permissivi o addirittura inesistenti.
Tuttavia, uno dei criteri di valutazione che pittura e fotografia hanno in comune è la qualità innovativa: quadri e fotografie vengono spesso apprezzati perché impongono nuovi schemi formali o modificazioni del linguaggio visivo. Le nuove fotografie cambiano la maniera in cui guardiamo le vecchie, ma le oscillazioni del gusto fotografico contemporaneo non riflettono soltanto processi di rivalutazione coerenti e conseguenti mediante i quali il simile favorisce il simile, ma esprimono più frequentemente il valore e la complementarietà di