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Lo specchio
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Lo specchio

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“Avete mai pensato a quante cose uno specchio potrebbe raccontarci? Immaginate quest’oggetto nell’ascensore, chiuso in un angusto spazio, spesso solo, ma avete idea di quale pozzo d’informazioni possa essere?”. Un semplice specchio diventa la voce narrante in questo romanzo: posto all’interno di un prestigioso palazzo di Torino, trascorre quasi ottant’anni ad ascoltare, osservare e carpire nuove informazioni, testimone silente dei segreti, degli intrighi, delle passioni e dei tradimenti di chi abita ai diversi piani. Giorno dopo giorno, impara a conoscere i membri della famiglia Fasano, una dinastia di donne forti che hanno sofferto, amato, odiato, ognuna di loro in modo diverso in epoche differenti. Le loro vite sono scandite da eventi tragici, menzogne e ipocrisie, i loro cuori animati da sentimenti nobili ma anche crudeli. In un susseguirsi di vicende dai risvolti imprevedibili, in cui qualcuno non è realmente chi vuole far credere, lo specchio assiste a eventi misteriosi e azioni criminali… chi è il responsabile delle sparizioni e degli omicidi che si stanno verificando?

Lorenza Faccioli nasce a Torino nel 1963 e risiede a San Mauro torinese. Dopo la maturità scientifica si laurea in Amministrazione Aziendale presso l’Università di Torino. Attualmente si occupa di logistica commerciale presso una società multinazionale di produzione di veicoli industriali. Lorenza ama leggere e scrivere gialli. Ha esordito con il romanzo intitolato L’Eredità (Europa Edizioni) pubblicato nel dicembre 2016. Predilige ambientare i racconti a Torino, la sua città. L’altra passione è viaggiare e visitare paesi con tradizioni e culture diverse, conoscere la loro storia e assaporare le bellezze che ogni luogo ha da offrire.
LanguageItaliano
Release dateJul 31, 2019
ISBN9788855084505
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    Lo specchio - Lorenza Faccioli

    S.p.A.

    Lo specchio

    PREFAZIONE

    Non gli prestiamo mai attenzione se non per vedere la nostra immagine riflessa, per controllare che il trucco sia perfetto, per sistemarci i capelli, per osservare meglio quel brufolino che abbiamo visto nascere sul mento, per verificare di essere in ordine, il colletto della giacca piegato correttamente, il nodo della cravatta dritto, quel capello sulla maglia che fa così disordinato.

    Insomma, per noi è un semplice oggetto di grande utilità indipendentemente da dove sia sistemato.

    Avete mai pensato a quante cose uno specchio potrebbe raccontarci? Secondo dov’è posto, se mai fosse vivo, sarebbe in grado di vedere e sentire molto: pettegolezzi, segreti, notizie più o meno importanti, litigi.

    Immaginate quest’oggetto nell’ascensore, chiuso in un angusto spazio, spesso solo, ma avete idea di quale pozzo d’informazioni possa essere?

    Bene, proprio pensando a ciò, ho provato a scrivere un romanzo dove la voce narrante è proprio lui: lo Specchio.

    Egli (non esso, perché qui è vivo, pensa, ragiona, quindi è quasi un essere umano) risiede per più di ottant’anni all’interno dell’ascensore di un prestigioso palazzo di Torino.

    Osserva, ascolta e pensa.

    Lascio a voi scoprire il segreto che accompagna la vita dei personaggi che risiedono nell’edificio attraverso il racconto del nostro amico.

    Lorenza Faccioli

    1

    Oggi e l’inizio

    È buio, fa freddo, la cantina è molto umida. Non credevo esistessero locali così terribili. Mi chiamo… no, non ho un nome, sono solo uno specchio, un povero vecchio specchio che più nessuno vuole e la mia ora è quasi giunta. Ormai ho… più di ottant’anni.

    Quando fui installato nell’ascensore del palazzo, ero bello, giovane e non pensavo di certo che questo momento sarebbe arrivato.

    Mi trovo in un edificio, un tempo elegante e signorile, a Torino, in via Alfieri, a breve l’intero immobile sarà sventrato per creare splendidi appartamenti dotati di ogni confort e tecnologicamente all’avanguardia pur mantenendo esternamente l’aspetto severo di un edificio d’epoca in questo elegante quartiere di Torino.

    Era il lontano 1933 quando quel mattino fui caricato su un furgone. Ero avvolto in un telo di lana molto ruvida e sistemato tra cartoni legati con le corde. Mi resi conto di tutto ciò solo quando, arrivato davanti a quel bellissimo palazzo, venni disimballato e vidi in terra ciò che era stato utilizzato per preservarmi da eventuali urti. Ero appoggiato al muro dello stabile, mentre due uomini raccoglievano ciò che avevano lasciato sul marciapiede per gettarlo sul furgone. Si trattava di individui rozzi, ma sicuramente brave persone e gran lavoratori. Parlavano in piemontese, a quel tempo tutti utilizzavano il dialetto per comunicare, era una lingua a tutti gli effetti, parecchio diversa dall’italiano.

    Era lunedì, una bellissima giornata di primavera che lasciava presagire un inizio anticipato dell’estate, infatti, faceva caldo, molto caldo, anche se erano solo le nove del mattino. Le persone che camminavano sul lato della strada ove mi trovavo, si spostavano e mi guardavano con un misto di curiosità e di seccatura perché si rendeva necessario scendere dal marciapiede per passare più comodamente.

    Un’elegante anziana signora arrivò con un cagnolino al guinzaglio che appena mi vide, cominciò ad abbaiare. Sta’ ciuto! urlò in dialetto la donna alla povera bestiola per zittirlo. Si acquietò immediatamente fermandosi davanti a me e, osservando la sua immagine riflessa, inclinò la testa a destra, poi a sinistra, dopodiché riprese ad abbaiare. La padrona lo strattonò portandolo via e proseguì con la sua passeggiata.

    Gli uomini del furgone, nel frattempo, avevano terminato di sistemare gli imballi nel veicolo. Tornarono verso di me e mi sollevarono per portarmi all’interno dell’edificio. Non appena entrato, vidi un bellissimo atrio con stucchi sulle pareti e affreschi sul soffitto. Sulla destra c’era una porta e in quel momento non sapevo di che cosa si trattasse, ma avrei poi capito: altro non era che la portineria. Il pavimento e i cinque gradini che conducevano alle scale e all’ascensore erano in pietra grigio chiaro. L’odore della cera, probabilmente usata per lucidare, era molto forte, ma dava un senso di pulito che ancora oggi, nel locale in cui mi trovo che sa solo di umido e muffa, continuo a percepire.

    Venni posato in terra e sostenuto da uno degli uomini mentre l’altro chiamava l’ascensore. Nel frattempo giunse una donna con fare aggressivo. Era corpulenta, sui quarant’anni, indossava un grembiule azzurro e un paio ciabatte ai piedi. Non appena ci raggiunse, disse: Cosa state facendo?.

    Dobbiamo mettere lo specchio nell’ascensore, rispose con un italiano incerto l’uomo che aveva premuto il pulsante.

    Mi raccomando fate attenzione a non rigare le pareti interne e il pavimento, cercate anche di non sporcare, ho appena lavato e passato la cera, si raccomandò la donna girandosi e tornando da dov’era venuta.

    Podoma pa volé, bruta ciampòrgnaNon possiamo mica volare, brutta pettegola – replicò a bassa voce chi mi stava sorreggendo. Capii che si trattava della portinaia.

    Nel frattempo, mi ero guardato intorno e avevo visto che su quel pianerottolo si apriva una porta sul lato opposto a dov’ero entrato dall’androne. Sul campanello lessi: Merlo.

    Impiegarono parecchio tempo per posizionarmi sulla parete di fronte all’ingresso dell’ascensore e durante quel periodo non ci furono molte persone che necessitassero di salire o scendere, di conseguenza, poterono lavorare in tranquillità. Solo un giovane arrivò e quando vide la situazione, nonostante i due uomini avessero proposto di lasciargli utilizzare l’ascensore, disse: No, grazie, non preoccupatevi, sono sufficientemente giovane da poter fare due piani di scale, buona giornata!, e corse via.

    Quando il lavoro fu terminato, la porta del vano in cui mi trovavo venne chiusa e gli operai se ne andarono parlando tra loro in piemontese ad alta voce.

    Rimasi lì, solo, chiuso in pochi metri quadrati. Mi guardai attorno. Lo spazio era poco, le pareti laterali erano nella metà inferiore in legno scuro e lucido che odorava di olio di lino, mentre la porzione superiore era in vetro così come i due stretti battenti della porta. Attraverso la gabbia di ferro che delimitava il vano vuoto ove si muoveva la cabina, avevo una buona visibilità sulle scale e sul pianerottolo del piano rialzato. Anche il pavimento di quest’angusto spazio era in legno e nonostante fosse stato lucidato, presentava diversi segni di usura. Mi sentivo solo, tutto era silenzio e per almeno un’ora nessuno entrò.

    Improvvisamente l’ascensore strattonò e si mise in moto. Dopo poco arrivammo al quarto piano. Notai che i pianerottoli erano uguali a quello che avevo già ampiamente osservato e su ognuno di essi si aprivano due porte: una a destra e una a sinistra.

    Una donna molto alta e magrissima dal viso severo aprì la porta in griglia di ferro e poi i due battenti in vetro. Entrò e rimase un momento interdetta prima di premere il pulsante che l’avrebbe condotta al piano terra. Mi osservò con un pizzico di stupore, poi, mentre l’ascensore scendeva, si specchiò aggiustandosi l’acconciatura. I capelli erano raccolti sulla nuca, erano neri con qualche filo argentato che, insieme a qualche ruga sul volto, facevano ipotizzare un’età di circa cinquantacinque anni. Non lasciò trapelare alcuna emozione. Indossava un vestito nero con collo alto in pizzo, e mentre si specchiava mi sentii quasi imbarazzato poiché il suo sguardo era molto freddo, direi quasi cattivo. Quando l’ascensore giunse al pianterreno, la donna raddrizzò le spalle e uscì, sentii la portinaia dire: Buongiorno, signora. Tuttavia la donna altezzosa non rispose e lentamente il ticchettio dei suoi tacchi svanì nel nulla.

    Ero un po’ triste al pensiero di dover restare spesso solo per parecchie ore e, mentre pensavo, improvvisamente udii il vociare di due bambini nell’atrio.

    Elsa, Giovanni, non si corre e non si urla!, disse una voce stridula e con accento tedesco. Vidi arrivare la donna che avevo già avuto modo di conoscere insieme ai due pargoli che si erano zittiti. La bimba era più piccina, aveva circa sei anni, mentre il fratellino era più grande, probabilmente di un paio d’anni. Entrambi indossavano un soprabito blu aperto sul davanti a causa del caldo e s’intravvedeva il grembiulino bianco della bimba e quello nero del fratellino; avevano un grosso fiocco blu elettrico al collo. Quando entrarono nell’ascensore, restarono ammutoliti a guardarmi. Erano molto belli con capelli biondi e ricci, occhi azzurri e vispi.

    Cos’avete da guardare?, domandò la donna altezzosa mentre chiudeva le porte. È solo uno specchio!.

    Ma questa mattina non c’era, rispose il piccolo.

    È stato posizionato dopo avervi portati a scuola.

    È bello, vero signorina Mayer?, replicò la piccola.

    È uno specchio, come si fa a dire che è bello, è solo uno specchio. Ora forza, fuori, dovete pranzare, riposare e poi fare i compiti.

    I bimbi uscirono e il loro viso esprimeva tutta la noia e il fastidio di dovere seguire i dettami di quella donna. Entrarono nella porta destra del quarto piano.

    Non appena i miei ospiti ebbero chiuso le porte, l’ascensore si mosse e, arrivato al secondo piano, entrò il ragazzo che avevo già visto la mattina. Non appena fu dentro, prima di schiacciare il bottone, mi guardò, sorrise e mi voltò le spalle. Era un bell’uomo, indossava un vestito grigio antracite sotto il soprabito nero. Non aveva la cravatta, bensì un farfallino anch’esso nero con piccole stelline rosse. Era alquanto bizzarro, tuttavia la simpatia che sprigionava riusciva a far apparire qualunque cosa avesse indosso elegante. Profumava di dopobarba e i suoi capelli scuri erano lunghi sul davanti, ma tirati indietro e impomatati a tal punto da essere lucidi.

    Giunto al pianterreno si voltò, mi guardò e disse: Ciao specchio, ne vedrai delle belle in questa casa!, uscì di corsa. Arrivederci Ada, ma ormai era lontano quando la portinaia rispose al suo saluto.

    Trovai alquanto curioso questo comportamento e pensai che in qualunque palazzo possono esserci personaggi strani e nel tempo molte sono le vicende che accadono, ma proprio non immaginavo ciò che mi avrebbe riservato il futuro.

    Ero immerso in questi pensieri quando fui chiamato al terzo piano. Un’anziana donna entrò traballante nell’ascensore, mi osservò e anche lei, come tutti, si specchiò o forse semplicemente mi guardò con curiosità. La signora uscì sul pianerottolo e dal rumore dei passi sentii che si stava dirigendo verso la guardiola della portiera.

    Buongiorno Ada, la sentii dire.

    Buongiorno signora Fasano, la voce della portinaia era di finta gentilezza.

    Quante volte le ho detto che, dopo aver lavato il pavimento dei pianerottoli, una volta asciutti, deve riposizionare gli zerbini!.

    Oh, mi scusi tanto… è solo… che oggi sono venuti a montare lo specchio nell’ascensore ed ero impegnata a tener d’occhio che non rovinassero o facessero danni, per cui mi sono dimenticata.

    Tute le volte a-i è na scusaTutte le volte c’è una scusa – sentii dire mentre i passetti dell’anziana si allontanavano.

    Dopo pochi minuti vidi arrivare la donna corpulenta che, con fare affannato e stizzito, corse verso le scale. Sentii un rumore che sembrava quello di uno zerbino sbattuto per terra e, dopo poco, i passi frettolosi della portinaia che scendeva le scale. Notai che muoveva la bocca, probabilmente parlava da sola, ma non capii che cosa stesse dicendo. Di certo era contro la signora Fasano.

    Rimasi immobile per parecchio tempo. Sentii un ottimo profumo di arrosto e non capii da dove arrivasse fino a quando mi misi in moto. Giunsi al secondo piano e, quando si aprirono le porte, venni inebriato da quella fragranza: usciva dall’appartamento della porta sinistra. Un uomo brizzolato, di mezz’età, attendeva la moglie che stava chiudendo a chiave: Sbrigati Teresa, mio fratello ci aspetta!.

    La donna arrivò e frettolosamente entrò nell’ascensore.

    Mi raccomando, tu non parlare, lascia che ci pensi io, disse l’uomo quando la donna fu nell’ascensore.

    Certo, stai tranquillo. Tu che cosa pensi? Ce li presterà?.

    Ma sì, vedrai che andrà tutto bene, non ti preoccupare, non è cattivo, capirà.

    L’ascensore non si muoveva, i coniugi continuavano il loro discorso davanti a me, non si erano neanche accorti della mia esistenza.

    Ma non è la prima volta che gli chiedi aiuto, questa è già la terza e temo che avrà da ridire dal momento che non abbiamo ancora restituito il resto.

    Vedremo, tu però non fare come l’altra volta, non parlare, sai che lui è maschilista e non accetta che le donne intervengano nei discorsi tra uomini. Già non sarà contento che ci sia anche tu, ma io non trovo corretto escluderti, del resto lo facciamo per nostro figlio.

    E se non ci aiutasse? Luca morirà e noi verremo cacciati dal nostro appartamento, dove andremo a vivere?. La donna aveva gli occhi lucidi.

    No, non fare così, ti prego. Ora tranquillizzati. Sistemati bene, guardati allo specchio… lo specchio? Ma questo non c’era prima!, disse l’uomo osservandomi stupito.

    È vero!, esclamò la donna. Devono averlo messo oggi. È bello e anche utile, continuò mentre si asciugava gli occhi con un fazzoletto bianco ricamato. Era una bella donna, dimostrava poco più di cinquant’anni anche se sul viso erano evidenti i segni dei dispiaceri. Aveva una corporatura robusta, pur non essendo grassa, indossava un tailleur rosso porpora di lana spessa con collo di pelliccia. Il braccio era infilato nel manico di una borsetta nera parzialmente nascosta dall’impermeabile ripiegato sull’arto. L’uomo al suo fianco mi dava le spalle perché stava premendo il pulsante per scendere. L’avevo tuttavia visto quando si era accorto di me. Anche lui era un bell’uomo, all’incirca coetaneo della moglie, molto stiloso nel suo completo blu.

    Quando l’ascensore arrivò al piano terra, i coniugi uscirono. Notai, nel vederli allontanarsi, che l’uomo zoppicava un po’ mentre la moglie aveva un andamento molto signorile e camminava a braccetto del marito.

    Dov’è la signora Merlo?, chiese Teresa.

    Mah, non so, dai, ora non pensare a lei, andiamo altrimenti arriviamo in ritardo, rispose il marito e la sua voce risultò ormai lontana insieme al suono dei loro passi.

    In mezza giornata avevo già fatto la conoscenza di parecchi inquilini dello stabile, mi ero fermato ormai a tutti i piani tranne che al primo, ma ero solo all’inizio della mia permanenza.

    Il palazzo era signorile ed elegante, ma le persone che lo abitavano erano incredibilmente curiose. Mi domandavo quale fosse il problema della coppia che avevo accompagnato per ultima all’uscita, erano eleganti, ma di certo non facoltosi se necessitavano di un aiuto economico e non erano proprietari dell’appartamento ove risiedevano. Pensai che avrei dovuto porre attenzione ai nomi sui campanelli quando arrivavo ai piani in modo da focalizzare meglio i residenti nel palazzo. Ero assopito quando ebbi un sobbalzo e l’ascensore si mise in moto. Arrivai al quarto piano, la porta sinistra era aperta e una giovane donna era sull’uscio e, guardando all’interno, chiamò ad alta voce: Giovanni, Elsa, sbrigatevi, dobbiamo andare!.

    I due bimbi che già avevo conosciuto uscirono e corsero verso l’ascensore.

    Margareta, disse la signora. Quando è pronta può andare, porto io i bambini a fare una passeggiata, c’è il sole, non fa freddo e ho bisogno anch’io di un po’ d’aria.

    Va bene, signora, sentii dire dall’interno. Era la voce particolare della donna austera che già avevo conosciuto, quindi il suo nome era Margareta Mayer. Era la governante dei due bambini che forse erano gli unici pargoli dell’edificio. Notai che entrambe le porte del pianerottolo portavano il nome Fasano sui campanelli e, avendo visto entrare e uscire da due porte diverse i piccoli, capii che si trattava di un unico appartamento. Non mi fu tuttavia chiaro quale fosse la relazione tra quella famiglia e l’anziana che avevo già conosciuto. Forse si trattava di semplice omonimia.

    La giovane donna fece passare prima i figli, poi si accomodò nell’ascensore.

    Mamma, guarda, uno specchio, osservò la bambina indicandomi.

    Sì, lo so, l’abbiamo fatto mettere noi, rispose la donna mentre chiudeva le porte.

    A che cosa serve?, chiese il fratellino.

    A specchiarsi, a cosa vuoi che serva?, replicò la mamma mentre si girava per aggiustarsi i capelli.

    Era una bellissima signora, bionda con occhi azzurri, era la copia adulta dei suoi figli. I capelli ondulati erano lunghi, sciolti sulle spalle e divisi da un lato, era leggermente truccata. Indossava un abito verde scuro molto morbido, sui fianchi si formava una fascia che stringeva come fosse un’alta cintura dalla quale la stoffa veniva rilasciata e scendeva fluttuante fino al polpaccio. Sul fondo del lato sinistro era stampato un disegno di fiori rosa antico. Dello stesso colore del motivo era la giacca di lana leggera appoggiata sulle spalle. Una catenina d’oro con un crocefisso come ciondolo e un paio di orecchini piccini erano gli unici gioielli che la donna portava. Era molto alta e magra, con la pelle chiara e un viso dolcissimo. Era sicuramente la padrona dell’immobile dal momento che aveva detto ai suoi figli di essere stata lei e forse il marito ad avermi fatto installare nell’ascensore.

    Ad un certo punto, si rese conto che uno dei bambini aveva lasciato una ditata su di me, prese un fazzoletto dalla borsetta, si avvicinò maggiormente e pulì. Sentii un leggero profumo di rosa che m’inebriò. Dopo pochi istanti arrivammo al piano terra, la donna non ebbe il tempo di aprire la porta, ci avevano già pensato i bambini che uscendo cominciarono a intonare una canzoncina.

    Buongiorno signora Merlo, sentii dire alla giovane donna.

    Buongiorno, madamin Virginia.

    Talvolta le scappava qualche termine in dialetto. Trovai inoltre buffo che la padrona di casa si rivolgesse alla dipendente chiamandola per cognome e quest’ultima utilizzasse il nome di Battesimo della sua datrice di lavoro… molto strano. Avrei capito più avanti il perché di tutto ciò!

    Dopo poco la governante scese a piedi e mi raggiunse al pianterreno. Uscì senza rispondere al saluto della portinaia come aveva già fatto in precedenza.

    La luce cominciava a diminuire, si stava facendo sera e io mi sentivo terribilmente solo. Mi chiedevo quando sarebbe arrivato qualcuno e continuavo a essere curioso circa gli abitanti degli appartamenti che ancora non conoscevo.

    Improvvisamente si accesero le luci delle scale e dei pianerottoli e vidi arrivare un giovane uomo accompagnato da Virginia e dai due figlioletti. Capii che si trattava rispettivamente del marito e padre che mancava ancora per completare la famiglia. Elsa era in braccio al papà e Giovanni dava la mano alla mamma piagnucolando.

    Possibile Virginia che debba sempre essere così capriccioso?.

    È stanco, lo difese lei.

    Trovi sempre una scusa per tenergli le parti, replicò lui mentre apriva la porta dell’ascensore. Proprio in quel momento la voce di un’anziana signora urlò: Aspetta Umberto, aspetta, vengo su con voi.

    La famiglia si bloccò all’istante e la signora Fasano che avevo già conosciuto, arrivò cercando di accelerare il passo.

    Ciao mamma, salutò l’uomo chinandosi per darle un bacio sulla guancia.

    La donna sorrise e per un attimo comparve un velo di dolcezza mentre accarezzava la bimba e baciava il maschietto chinandosi, ma quando si raddrizzò e guardò la nuora, il viso tornò duro e disse: Buonasera Virginia.

    Buonasera Mariuccia, come sta?.

    Come puoi chiedermi come sto? Ho sessantotto anni, sono vecchia e malata! Che domanda stupida, togliti, fammi passare, spintonò la giovane donna entrando nell’ascensore per prima.

    Qui non ci stiamo tutti, andiamo su io, Umberto e i bambini, tu, Virginia, vieni dopo.

    Viene su da noi?, domandò la nuora mentre il marito chiudeva le porte.

    Certo! Qualcosa da ridire?, rispose quasi urlando l’anziana.

    Virginia non parlò più e restò in attesa.

    Io veramente non capisco come tu abbia fatto a innamorarti e sposare quella stupida.

    Non è stupida, mamma, è solo un po’ debole, ma è una brava madre.

    Ah beh, se volevi solo una donna che ti desse figli, potevi trovarne almeno una del nostro rango e più colta. Tra l’altro chi ha fatto mettere questo specchio?, chiese guardandomi.

    Noi, mamma, noi l’abbiamo fatto mettere.

    Noi… diciamo tua moglie così si può specchiare, ma quanto è costato?.

    Quasi nulla, mi è stato dato da un amico che l’aveva fatto fare per la sua casa, ma si è reso conto che era troppo piccolo e quindi non gli serviva più. Ho pensato che avrebbe potuto riflettere la luce del piano e rendere un po’ più luminoso l’interno dell’ascensore.

    L’anziana fece una smorfia mentre arrivavamo al quarto piano. Tutti uscirono ed entrarono in casa.

    Immediatamente fui richiamato e quando Virginia mi fu davanti, aveva gli occhi lucidi. Cominciò a singhiozzare mentre salivamo e quando arrivammo continuò a piangere, solo nel momento in cui il marito uscì sul pianerottolo, la donna si asciugò gli occhi e, a testa bassa, entrò nell’appartamento.

    Non te la prendere, sentii Umberto dire alla moglie, poi più nulla.

    Di certo la povera Virginia non era amata dalla suocera e il marito non faceva molto per difenderla, era succube della madre o quest’ultima era il detentore del patrimonio di famiglia e il figlio non poteva far molto? Prima o poi l’avrei capito. Umberto non era un bell’uomo, si vedeva che era ricco e che apparteneva a uno stato sociale alto, ma sua moglie non sfigurava affatto accanto a lui. Certo che vedere una bella donna al fianco di un uomo non alla sua altezza in termini estetici faceva pensare che lei l’avesse sposato solo per i soldi, ma a me non sembrava essere quella la situazione. Gli occhi di Virginia quando guardava il marito erano pieni d’amore.

    Ormai era buio, le luci delle scale erano spente, il silenzio era assordante, speravo arrivasse qualcuno e il mio desiderio fu esaudito. Quando giunsi al piano terra, i coniugi che avevo già conosciuto entrarono nell’ascensore. Lei piangeva a dirotto, il marito le cingeva la vita con un braccio: Non piangere, in qualche modo sistemeremo le cose.

    Luigi, come fai a non capire che non abbiamo più un soldo, Luca ha bisogno di cure e noi non possiamo più pagare l’affitto a quella strega della Fasano? Quella vecchia non ci farà più credito. Noi tre saremo in mezzo a una strada, singhiozzò Teresa.

    Il marito non rispose. Quando arrivarono al secondo piano lessi il nome sul campanello: Ferrari, questo era il loro cognome. Non ebbero il tempo di mettere la chiave nella toppa che la porta si aprì. Un ragazzo di media statura, emaciato, in pigiama li accolse. Era sicuramente il figlio, Luca, e si vedeva che era molto malato. La donna lo abbracciò e piansero insieme sulla porta mentre l’uomo restò fuori a guardarli. Non vedevo la sua espressione poiché era di spalle, ma secondo me era anche lui disperato.

    Non ci darà più un soldo tuo zio, Luca, singhiozzò la madre.

    Il ragazzo la scostò da sé.

    Non ti preoccupare, mamma, io raggiungerò papà presto e tutte le sofferenze finiranno.

    Fece entrare in casa la madre e l’uomo che, a questo punto, compresi non essere il padre.

    Ero sempre più confuso. Le storie familiari di quel palazzo erano intricate e curiose. Avrei avuto molto tempo a disposizione per comprenderle meglio.

    Mi stavo nuovamente muovendo e, giunto a terra, entrò il ragazzo simpatico del secondo piano accompagnato da una ragazza sorridente.

    Guarda Giulio, c’è uno specchio!, esclamò la donna guardandomi.

    Sì, lo so, è stato messo questa mattina. In questa casa di matti pensa quante cose sarà costretto a vedere e sentire, rispose l’uomo mentre premeva il pulsante del secondo piano.

    Ma dai, non sono tutti cattivi, io non lo sono, replicò la ragazza con un sorrisetto malizioso mentre si sbottonava il soprabito giallo. Vidi che indossava un grembiule bianco da infermiera. Era bruna con occhi castani. Non era bella, ma quando sorrideva mutava talmente l’espressione che diventava più graziosa.

    Io non parlavo di te signorina Clara Bianco!, la tirò verso di sé e le diede un bacio sulla guancia e un buffetto sul naso mentre usciva dall’ascensore.

    "Giulio, perché

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