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L'universo muto
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L'universo muto

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Fantascienza - romanzo breve (104 pagine) - Era solo un superumano che voleva essere lasciato in pace


Cameron Pierce è il figlio dell’”uomo più veloce della luce”, ovvero colui che ha dato alla specie umana la possibilità di esplorare il cosmo grazie alla propulsione iperluce.

Ma come tutte le cose di suo padre, anche il figlio Cameron è un progetto: superumano di quarta generazione nato da una provetta, ha avuto la sola scelta di odiare il proprio genitore e allontanarsene il più possibile.

Cuba sembrava il posto giusto, ma è anche il luogo in cui a un potenziato non è permesso avere rapporti sessuali con un isogenico, quale è la bella Maria.

Il carcere cubano si dimostrerà molto più di una prigione per Cameron. In piena antitesi, sarà l’inizio della sua libertà e della piena conoscenza di tutto ciò che ruota attorno alla sua esistenza e a quella dell’intero universo.


Claudio Chillemi (Catania, 11 maggio 1964) è uno scrittore italiano, autore di racconti, romanzi ed opere teatrali per l’infanzia.

Nel 2009 pubblica il romanzo Kronos (2006) un giallo di ambientazione fantascientifica dove, tra vecchi metodi investigativi e nuove tecnologie, si esplorerà un futuro in cui una potente multinazionale regge in pugno i destini del mondo. È del 2011 Il lato oscuro della Kronos, seguito ideale del romanzo del 2009. Nel 2015 la terza parte della lunga saga vede pubblicato il corposo romanzo Quel che resta della Kronos, arricchito dalla prestigiosa copertina a cura di Maurizio Manzieri. Tutti e tre i libri sono stati ripubblicati da Delos Digital nel 2019.

Nel 2015 vince il Premio Italia come autore di un racconto professionale (Nè la prima né l'ultima Volta, Delos Digital). Nel 2016 vince ancora una volta il premio Italia sia con il racconto professionale (Con gli occhi del nemico, Delos Digital), sia come autore del miglior romanzo (Quel che resta della Kronos), la stessa opera con cui vincerà anche il Premio Vegetti.

Nel 2014 approda negli USA sulle pagine della prestigiosa rivista Fantasy and Science Fiction, scrivendo il racconto a quattro mani con Paul Di Filippo The Panisperna Boys in Operatin Harmony, una ucronia dedicata alla figura di Ettore Majorana, a cui fa seguito un'altra storia ispirata a Lovecraft scritta sempre a quattro mani con il grande autore statunitense, The Horror at Gancio Rosso (Acheron Books). Mentre nel 2016 è pubblicata nella prestigiosa rivista francese Galaxies con il racconto Par les Yeux de l’Ennemi.

Ha fondato nel 2001, insieme a Enrico Di Stefano, la fanzine Fondazione Sf Magazine, vincitrice per sei volte del Premio Italia come miglior rivista non professionale.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateNov 12, 2019
ISBN9788825410457
L'universo muto

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    L'universo muto - Claudio Chillemi

    9788825409895

    1.

    Evidentemente dovevo aver fatto qualcosa di grave, perché ad un certo punto mi ritrovai nel cellulare della polizia con ai polsi delle robuste e vecchie manette d’acciaio.

    Accanto a me dei tizi con un alito puzzolente di tabacco ruminavano degli strani vocaboli che non riuscivo a comprendere. Anche loro, come me, erano lì per qualcosa che avevano fatto.

    Quindi, mi sentii trascinare, portato avanti e indietro dal veicolo che si stava muovendo. Reclinai il capo verso la paratia di freddo metallo e sospinsi il conato di vomito verso le profondità delle viscere da cui proveniva. Il pilota di quel maledetto veicolo non era certo tenero con i suoi passeggeri e, quando si staccò da terra, compì un paio di strane evoluzioni giusto per ricordarci che era lui al comando. Venimmo sballottati come elettroni in un acceleratore di particelle per diversi e interminabili minuti, fino a quando tutto si placò. Un paio dei miei compagni di viaggio, palesemente isogenici, ridacchiò di gusto fissando gli occhi su di me; io li guardai inebetito, incerto se rispondere loro qualcosa o fare finta di niente. Vigliaccamente, scelsi la seconda opzione.

    D’un tratto il portellone posteriore del mezzo si aprì. Vidi solo una forte luce e due robuste braccia che mi afferrarono come un fuscello, e mi ritrovai schiacciato contro un muro umido di pioggia, mentre un leggero vento gelido mi soffiava sulla fronte con l’insistenza di un motore a ioni il cui nucleo aveva perso la densità critica.

    Non riuscivo ancora a comprendere perché ero finito lì. L’ultimo ricordo che avevo era la camera di Maria. Si trattava di un bordello da quattro soldi appena fuori l’Avana. L’unico paese al mondo che aveva ancora i bordelli era Cuba. L’unico paese al mondo che ancora fumava, sniffava, beveva e si prostituiva. Era il porto franco tra nord e sud del mondo e sapeva ben sfruttarlo.

    Maria era una ragazza di diciannove anni, diciamo quasi tre anni meno di me, ma sembrava una bambina. La conoscevo da un mese ed ero diventato il suo miglior cliente, forse l’unico cliente. La volevo portare via dal bordello, i soldi non mi mancavano. Ma non era una questione di soldi, o meglio, non solo una questione di soldi. Ci pensai in quel momento, mentre ero trascinato tra la pioggia e il fango, verso una cella di sicurezza, e mi sembrava di vivere in un film in bianco e nero del ventesimo secolo, o in uno di quei tristi e violenti romanzi del naturalismo francese. Ma, va bene, va bene anche questo.

    La prigione non è fatta per i prigionieri. Il camerone dove ci stiparono portava ancora i segni ingloriosi della seconda rivoluzione cubana, quando le truppe americane avevano invaso l’isola più di mezzo secolo prima. Si vedevano emblemi e stemmi a stelle e strisce che la controrivoluzione comunista di venti anni dopo non aveva saputo o potuto cancellare. Le stesse stelle e le stesse strisce che erano disegnate in quel corpetto che Maria indossava poco prima che mi separassero da lei, e che a stento tratteneva le sue forme. I nuovi comunisti erano sicuramente molto più teneri e permissivi dei primi se permettevano a una prostituta cubana di indossare indumenti con simboli capitalisti. I comunisti, i fascisti, i liberali, i democratici? Quale perverso gioco di ricollocazione storico-politica si era messo a fare l’uomo! La prigione non è fatta per i prigionieri, lo confermo. È fatta per chi sta fuori a farsi seghe mentali su chi e sul come si debbano punire i criminali, e non esiste criminale più criminale di altri che un innocente.

    Ma andiamo con ordine.

    Come dicevo dovevo aver commesso qualcosa di grave per trovarmi in quel cesso, circondato da brutti ceffi isogenici che mi sbeffeggiavano senza ritegno, e con una guardia che mi faceva la corte trastullandosi con il punteruolo dell’elettromanganello in dotazione proprio a pochi centimetri dal culo. Avevo capito quasi subito che alla base delle accuse che mi erano rivolte doveva esserci Maria; magari il suo pappa era un pezzo grosso del governo cubano; oppure la donna doveva essere l’amante segreta di qualche strafottuto generale. Non so che dire. Fu solo dopo parecchi minuti passati a ricevere improperi di ogni tipo che un grasso e sudaticcio omaccione sulla cinquantina, sicuramente il capo di quella masnada di guardie carcerarie, si avvicinò e mi prese per il colletto sollevandomi qualche centimetro da terra. La sua forza inusitata era segno evidente di una natura da ibrido genetico.

    – È questo il superumano? – chiese ad alta voce.

    – È lui! – rispose un coro ridanciano che si concluse con fischi e sonore risate.

    – Non mi pare un granché – borbottò l’ibrido lasciandomi andare. – E così te la spassavi con Maria – mi chiese contestualmente nel voltarmi le spalle.

    – Maria chi? – riuscii a borbottare tra il frastuono degli altri prigionieri.

    La guardia mi diede una forte scossa con l’elettromanganello che quasi mi tramortì, caddi in ginocchio e mi sentii afferrare per i capelli con il malcelato intento di costringermi a rialzarmi. Lo feci e fui spintonato verso una piccola scrivania dove troneggiava un vecchio schermo tridimensionale K6, in disuso ormai da un decennio. Ad attendermi c’era l’ibrido. Masticava un grosso sigaro spento sul lato sinistro della bocca, ruminava e sbuffava come una vaporiera mentre interloquiva in spagnolo con il suo terminale. Dopo qualche minuto, fece segno ad uno dei suoi sottoposti di farmi sedere su una sedia metallica da interrogatorio. La riconoscevo, l’avevo vista parecchie volte sui miei libri del liceo, nel capitolo: – La controrivoluzione cubana.

    Ma era una sedia spenta. In pratica solo una sedia. Però, appena seduto, il terminale dell’ibrido lanciò un forte raggio esaminatore verde che, nella penombra del casermone che ci ospitava, mi accecò gli occhi, costringendomi a chiuderli. L’ibrido fece un cenno alla guardia dietro di me che subito mi colpì alle spalle.

    – Apri gli occhi – comandò, e io eseguii.

    Il raggio proseguì la sua azione esaminatrice, quindi si fermò a lungo sul mio volto andando su e giù, infine si spense. A quel punto la voce metallica del computer iniziò a snocciolare le mie generalità.

    – Camerum Tiberius Pearce, nato a Londra il 15 maggio 2084, superumano di quarta generazione. Figlio di Sebastian…

    – Alt! – gracchiò l’ibrido. – Abbiamo qui un pezzo grosso – aggiunse alzandosi dalla sua postazione e avvicinandosi a me. – Sei il figlio di Sebastian Pearce, quello della propulsione iperluce? – mi chiese portando il volto così vicino al mio da poter sentire l’orribile puzzo del suo sigaro.

    – Si – borbottai, del tutto impossibilitato a mentire.

    – E sei un superumano di quarta generazione. Mio padre era della seconda e mia madre era stata scartata alla selezione per la terza.

    Cos’è, pensai, mi sta raccontando la storia della sua vita? E cosa me ne frega se lui è o non è un potenziato? Poi, con il passare dei secondi e delle parole, mi accorsi dell’incredibile dose di violenza e di frustrazione che conteneva quella sua confessione spontanea.

    – Poi a Cuba è stata introdotta la legge che vieta a un potenziato fottuto di superumano di avere rapporti sessuali con un isogenico, e questa è una cosa buona – mi disse puntando l’indice della mano sinistra in mezzo ai miei occhi. – Venite qui da noi, ve la spassate con le nostre donne, le illudete con le vostre doti… – e disse doti mordendo il sigaro quasi a spezzarlo. – Quindi tornate nel vostro stronzo mondo di merda, lassù al nord, a raccontare frottole e bugie sul nostro paese, ad accusarci di perversione, di dittatura, di inumanità, voi porci fottuti! – e, dicendo questo, mi percosse il petto con lo stesso indice che poco prima aveva puntato in mezzo ai miei occhi.

    – Insomma! – dissi io in preda ad un velleitario moto di rivolta. – Perché mi trattenete, sono un cittadino Europeo, voglio parlare con la mia ambasciata, ho i miei diritti – conclusi sbuffando.

    Fu allora che l’ibrido mi colpì con una velocità che, francamente, stonava con la sua mole. Il dorso della mano scavò sulla mia guancia destra un solco profondo finendo la corsa proprio sul setto nasale, che ebbe come un sussulto, guaendo incrinandosi e lasciando via libera al sangue che mi sgorgò copioso dalla narice sinistra.

    – Tu hai diritti che io ti do – sentenziò l’ibrido mentre io cercavo di tamponare l’emorragia come meglio potevo, con una manica della mia camicia. – Guardate un po’ il sangue è rosso – sghignazzò facendo segno ai suoi uomini di avvicinarsi, mentre alle mie spalle gli altri prigionieri lanciavano invettive contro di me.

    Poi, con la stessa rapidità con cui il sangue era scaturito, si fermò di colpo, erano passati dieci, forse quindici secondi. L’ibrido smise di ridere, si riavvicinò a me e squadrò il mio viso con circospezione.

    – Ecco cosa significa essere un superumano della quarta generazione – gracchiò. – Sarai una magnifica preda per i tuoi compagni di cella, un uomo che guarisce così in fretta è uno spasso assicurato per molto, molto tempo – e concluse la frase con una risata sguaiata.

    2.

    Mi accorsi subito che l’ibrido aveva ragione.

    Quando il primo pugno mi colpì in pieno viso il dolore fu lancinante e dissi a me stesso che mai avrei potuto provare un’altra volta quella sensazione; poi, quando i pestaggi si fecero regolari, mi resi conto che il fisico di un potenziato poteva, eccome, sopportare maltrattamenti di ogni sorta. Le tumefazioni guarivano in poche ore, i denti resistevano a colpi tremendi senza neanche scheggiarsi, il sangue si coagulava istantaneamente e le ferite svanivano in un paio di giorni. Mi domandai subito, perché? Perché ci avevano creato con un corpo così potente per vivere in città dal crimine zero, seduti in tavole dove il cibo non mancava mai, passeggiando lungo viali profumati

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