Apologia del Buddhismo
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Apologia del Buddhismo - Carlo Formichi
INDICE
APOLOGIA DEL BUDDHISMO
Carlo Formichi
APOLOGIA DEL BUDDHISMO
CAPITOLO I. La misura del valore di una religione.
CAPITOLO II. L’efficacia morale del Buddhismo.
CAPITOLO III. I conforti religiosi del Buddhismo.
CAPITOLO IV. Il Buddhismo nelle sue relazioni con la scienza.
CAPITOLO V. Il Buddhismo e le esigenze della Società e dello Stato.
CARLO FORMICHI
APOLOGIA
DEL BUDDHISMO
(SECONDA EDIZIONE)
Il presente ebook è composto di testi di pubblico dominio.
L’ebook in sé, però, in quanto oggetto digitale
specifico,
dotato di una propria impaginazione, formattazione, copertina
ed eventuali contenuti aggiuntivi peculiari (come note e testi introduttivi),
è soggetto a copyright.
Edizione di riferimento: Apologia del Buddhismo / Carlo Formichi. - 2. ed. - Roma: A. F. Formiggini, 1925. - 98 p.; 17 cm. - (Apologie).
Immagine di copertina:
https://pixabay.com/photos/meditation-buddhism-monk-temple-2214532
Elaborazione grafica: GDM, 2019.
Carlo Formichi
Carlo Formichi (Napoli, 14 febbraio 1871 – Roma, 13 dicembre 1943) è stato un orientalista italiano.
Insegnò lingua sanscrita presso l’Università di Pisa e – dal 1914 – presso la Sapienza di Roma. Si occupò di filologia dell’India, studiandone la politica, la filosofia e le religioni. Nel 1929 fu nominato membro dell’Accademia d’Italia, e ne divenne vicepresidente. Dal 1935 al 1940, presiedette il Comitato Permanente per i Premi Sanremo di Letteratura ed Arte.
CARLO FORMICHI
APOLOGIA
DEL BUDDHISMO
(SECONDA EDIZIONE)
Alla memoria di mia Madre.
CAPITOLO I.
La misura del valore di una religione.
Un grande poeta inglese ha detto: «tutte le religioni sono buone le quali fanno buoni gli uomini; ed il modo in cui un individuo dovrebbe provare che il suo metodo di venerare Dio è il migliore, è di essere lui stesso migliore di tutti gli altri uomini».
Questa sentenza dello Shelley è inoppugnabile. A che valgono codici di sublimi precetti, templi sontuosi ed eletti riti, se lasciano cattivo l’uomo come lo trovano? In tanto un cristiano è superiore ad un maomettano in quanto, venuti entrambi alla resa dei conti morali, il primo può vantare di faccia al secondo, tante più opere buone, tanta più umanità e carità, maggiore sentimento del dovere e spirito d’abnegazione, e via dicendo. Per la bontà d’una religione altra pietra di paragone non c’è.
Vero è che una religione può guardarsi da vari altri aspetti. L’elemento morale è certamente il più importante, ma non è il solo. In questo doloroso passaggio transitorio che è la vita, benemerita indubbiamente quella religione che offre all’uomo una speranza, un conforto, un sostegno! Tanto più che l’uomo non sa, non può esser buono, se non vede la luce d’un faro, la promessa d’un guiderdone, una meta radiosa. Una religione pessimistica, sconsolata, non è una religione. Se non che, c’è modo e modo di far brillare le ricompense agli occhi degli uomini avidi di conforti religiosi. Nulla è più facile di promettere. La questione è che le promesse non sieno fallaci, nè che nel farle s’indulga alle passioni umane, si alimentino vane illusioni, si veli o si calpesti il vero, si venga in conflitto con la scienza.
E finalmente per quanto sublime, è deleterio quel credo che favorisce le tendenze antisociali, minaccia il disgregamento dello Stato, o in qualsiasi modo, lo indebolisce, ed invece di promuovere, ritarda o addirittura annulla il progresso consistente nella conquista dei maggiori elementi possibili per il benessere materiale dei popoli e delle nazioni. Non è lecito che l’uomo sacrifichi il di qua per il di là, o per lo meno, può esser lecito a lui come singolo individuo, ma giammai come rappresentante della collettività. Le esigenze della vita degli umani sulla terra impongono limitazioni anche là dove sembrerebbe che limitazioni non dovessero esserci, e solo agli dei è concesso d’essere infinitamente buoni. Dice Shakespeare: la bontà che fa degli dei gli dei, è sempre la rovina degli uomini.
Saggiamo ora il Buddhismo da questi quattro punti di vista per determinare:
1º la sua efficacia morale;
2º la somma di conforto religioso che offre agli uomini;
3º le sue relazioni con la scienza;
4º se e quanto è compatibile con le esigenze della società e dello Stato.
Importa, però, avvertire che quando noi si parla di Buddhismo ci si vuol riferire a quell’insieme di precetti religiosi proclamati dal Buddha nel sesto secolo prima dell’era nostra, tramandatici nei testi canonici in pâli e in buona parte di quelli in sanscrito, vigenti sostanzialmente ancora oggi nel mondo buddhistico di Ceylon, studiati e vagliati scrupolosamente dai pâlisti e sanscritisti europei. Al pari d’ogni altra religione, il Buddhismo è andato nel corso dei secoli frazionandosi in sette, trasformandosi e degenerando in modo da non essere più riconoscibile da quello delle sue pure origini. Valersi di tutti questi seriori tralignamenti per mettere in cattiva luce il Buddhismo può essere effetto d’ignoranza, ma più spesso di mala fede. La discussione diventa allora impossibile, e resta solo impugnare l’arma della rappresaglia ed ai tralignamenti buddhistici che altri rinfaccia, rinfacciare i tralignamenti della religione del poco equanime e provocante avversario.
CAPITOLO II.
L’efficacia morale del Buddhismo.
La gloria maggiore del Buddhismo è nella persona del suo fondatore. Su questo punto il consenso è universale. Un’eccelsa, quasi divina, figura, che sfida tempo e spazio ed estorce rispetto ed ammirazione anche dai più renitenti, è il giovane principe degli Çâkya del quale, non già la leggenda, ma la storia narra che nella pienezza dei godimenti sensuali e delle lusinghe del potere e della gloria, intuì il dolore mondiale, provò un palpito potente di commiserazione, arse d’amore per tutti gli esseri in guisa tale che la fiamma dette luce, il fervore del sentimento si convertì in fulgore di pensiero creando il più perfetto connubio che sia mai stato di cuore e di cervello. Lucere et ardere perfectum est ha detto San Bernardo: è quello che fece il Buddha. Salvo che egli prima arse e poi splendette, sicchè noi, tanto lontani da lui, ne vediamo la luce, ma non ne sentiamo il calore. Sarà perciò lecito dubitare del suo calore? Vorremo credere che le stelle non siano fuoco unicamente perchè non ci riscaldano?
Che cosa riluce che prima non arda?
Siddhârtha, il giovane principe degli Çâkya, abbandonò la reggia per una cella d’eremita, fuggì via dai genitori, dalla consorte e dal figliuolo per meditare nella solitudine,