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Il dito di Dio
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Il dito di Dio

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Quante vite bisogna trascorrere per convincersi di non avere impiegato il proprio tempo inutilmente? Quanti sentimenti e quante priorità devono alternarsi, dentro l’animo di una persona, prima che sia davvero libera di decidere il proprio futuro? In questa storia, veramente accaduta, un uomo chiamato dalla vita a impersonare un ruolo ricco di grandi privilegi, viene improvvisamente privato di tutto e costretto ingiustamente in un campo di prigionia. Il protagonista viene travolto dalle vicende imprevedibili dell’esistenza senza mai riuscire, se non alla fine, a deciderne il ritmo o la direzione o l’epilogo. Solamente l’amore di una donna e i sentimenti dell’amicizia riescono a dare un senso alla sua esistenza e a impedirgli di affondare passivamente senza lasciare di sé alcuna memoria.
LanguageItaliano
Release dateNov 4, 2019
ISBN9788835327561
Il dito di Dio

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    Il dito di Dio - Franco Mari

    DIGITALI

    Intro

    Quante vite bisogna trascorrere per convincersi di non avere impiegato il proprio tempo inutilmente? Quanti sentimenti e quante priorità devono alternarsi, dentro l’animo di una persona, prima che sia davvero libera di decidere il proprio futuro? In questa storia, veramente accaduta, un uomo chiamato dalla vita a impersonare un ruolo ricco di grandi privilegi, viene improvvisamente privato di tutto e costretto ingiustamente in un campo di prigionia. Il protagonista viene travolto dalle vicende imprevedibili dell’esistenza senza mai riuscire, se non alla fine, a deciderne il ritmo o la direzione o l’epilogo. Solamente l’amore di una donna e i sentimenti dell’amicizia riescono a dare un senso alla sua esistenza e a impedirgli di affondare passivamente senza lasciare di sé alcuna memoria.

    IL DITO DI DIO

    La sofferenza passa ma l’aver saputo soffrire rimane dentro per sempre.

    Nemmeno mi ricordo

    Nemmeno mi ricordo dove ho preso il taxi e neppure di che colore fosse. Le strade mi sembrano tutte intasate di gente che si muove con la stessa fretta e il percorso appare pieno di ogni genere di intoppi. Il rumore del traffico non riesce, comunque, a superare quello dei miei pensieri.

    Senza neppure rendermi conto se ho pagato il giusto o no per la corsa appena effettuata, entro come un ubriaco in quel grande contenitore trasparente, illuminato e affollato di persone sconosciute dietro a un muro di vetro. Al di là della porta automatica che scorre indifferente, c’è un mondo di immagini, suoni e colori che per me hanno lo stesso significato che avrebbero per un cieco.

    Un mosaico anarchico di camicette, cappelli, foulards, di tacchi stonati da risuolare, di trolley lanciate a tutta velocità, di bambini che piangono, distributori di bevande, di monete speranzose infilate in qualche macchinetta, di altoparlanti incomprensibili, di ronzii di monitor posti, come insetti minacciosi, sulle teste di quelli che passano sotto.

    Il bip dei tasti sui cellulari, il luccichio delle fibbie delle cinture, i claps delle bretelle e delle linguette delle lattine, lo zip delle cerniere, il ciak dei bottoni automatici che si agganciano e che si sganciano a seconda che si parta o si arrivi da qualche parte del mondo. Lo scrosciare delle pagine dei giornali, lo stridore delle ruote dei carrelli, lo sbuffo vaporoso delle macchine per il caffè.

    I sospiri di rassegnazione o di sollievo o di speranza, il lamento monocorde di una vecchia signora, lo smarrimento muto degli occhi di un bambino. Le luci intermittenti, le frecce di segnalazione. Il trillo digitale della macchina per tostare il pane che ha terminato il suo lavoro. La pubblicità muta che nessuno guarda sui televisori sospesi nel vuoto. Il ripetersi senza sosta dei sibili sospirosi e discreti degli aerei che arrivano e i grugniti sgangherati e liberatori dei motori di quelli che partono.

    La hostess abbassa lo sguardo sul documento che tiene fra le mani e poi, di nuovo, mi fissa in volto, senza dire nulla. Nonostante abbiano già controllato i miei documenti al check-in e all’ingresso della sala d’attesa, rimane perplessa di fronte alle generalità scritte sulla mia carta d’identità.

    Lei, signor Saša, è un cittadino italiano?

    Lo sono in ragione del mio matrimonio con una donna italiana. In effetti io sono nato in Romania ma risiedo a Roma con mia moglie da più di venti anni.

    Quasi in tono di scusa per la sua domanda imprevista, l’ hostess mi dice: Nel vederla arrivare, mi pare di avere capito che lei ha qualche problema nel muoversi. Sì, insomma, si vede che lei non riesce a camminare agevolmente. Desidera che provvediamo al suo imbarco mediante un’apposita seggetta?

    Oh, no grazie! Lei è molto gentile ma, al di là dei primi passi che compio dopo essere stato seduto a lungo, poi riesco a cavarmela molto meglio. Certo che i sedili così bassi della sala d’aspetto non mi hanno certamente aiutato a fare una bella figura!

    La hostess mi sorride di rimando, allungandomi il biglietto vistato dal lettore elettronico. Poi si riprende il suo sorriso e trasferisce, con assoluta indifferenza, il suo sguardo e la sua attenzione al passeggero che viene subito dopo di me.

    Vengo indirizzato, in compagnia di altre persone, lungo un corridoio e di nuovo ricominciano a scorrermi lateralmente rapide immagini sfuocate di finestre, vetrate, scale, cartelloni, gelati, facce, cappotti e capelli.

    Nella mia vita ho preso un aereo centinaia di volte e devo confessare di non essermi mai completamente abituato all’idea di essere estraniato dal mio ambiente naturale, la terra, e di trovarmi affidato, lassù, al benevolo sospiro di Dio.

    Questa invece è la prima volta che non riesco a nutrire la minima apprensione circa la mia prossima condizione di passeggero aereo. Quasi per abitudine, guardo fuori dall’oblò e mi sento del tutto insensibile a tutti quei preparativi e rumori che ben conosco come indicativi dell’imminente decollo.

    Le solite noiose litanie di inutili raccomandazioni in caso di atterraggio di emergenza. Le espressioni falsamente cortesi e tranquille del personale di bordo.

    Attraverso il finestrino guardo, con un sentimento molto simile al disinteresse, l’asfalto scuro della pista che ci scorre sotto con i suoi numeri e segnali, fugaci e incomprensibili, dipinti di giallo.

    Fra pochi minuti ci staccheremo.

    No, questa volta non provo alcuna paura. Perché so di non avere più nulla da perdere.

    Il signore gradisce qualche cosa da bere o da mangiare?

    L’aspetto, quasi indispettito, dell’assistente di volo in piedi dietro al carrello al centro della corsia, mi fa intuire che non deve essere la prima volta che mi fa questa domanda.

    Quasi automaticamente, e tanto per dare un senso alla pazienza che fino a quel momento mi ha dimostrato, rispondo: Solamente un bicchiere di acqua. Grazie!

    Mi rendo conto di essere in volo da alcuni minuti e di avere mantenuto distaccati tutti i miei sensi dalla realtà che mi circonda. Se mi chiedessero, non saprei certo rispondere in quale corsia o posto dell’aereo sono seduto e neppure l’aspetto degli altri passeggeri, nemmeno di quelli seduti più vicini a me.

    I raggi di luce, entrati dagli oblò, si dispongono a configurare, sul rivestimento plastico dei portaoggetti, sagome luminose ricurve che, alla prima virata, se ne vanno ordinatamente in fila indiana.

    Nel bere svogliatamente un sorso di acqua, riprendo, con fatica, il contatto con il presente e con i miei pensieri.

    Complimenti! Molto belli quei gemelli color mirtillo!

    La ringrazio, signora. Lei è molto gentile! Piacciono molto anche a me. Si tratta di un vecchio regalo di mia moglie.

    La sua signora deve certamente essere una persona dotata di molto buon gusto!

    Sorrido amaramente delle buone parole che la mia vicina di posto ha cortesemente appena indirizzato ai miei polsini e a mia moglie.

    Mi sento morire.

    Sto andando a Milano dove hanno ricoverato mia moglie Giulia, dopo che l’hanno trovata priva di sensi all’interno di una sala della prefettura dove si era recata in visita.

    La telefonata impersonale di uno dei suoi collaboratori non mi ha colto del tutto di sorpresa. Era ormai troppo tempo che andava tutto così bene e sapevo che non sarebbe potuto andare avanti così per sempre. Me lo aspettavo che la sorte un bel giorno avrebbe rifatto i suoi conti e si sarebbe accorta di essersi sbagliata e di avermi concesso molto di più di quello io mi potessi effettivamente meritare.

    L’arrivo e la successiva uscita dall’aeroporto sono un rapido e convulso succedersi di momenti che sembrano non avere nulla a che fare con la vita.

    Scale mobili, semafori, strisce pedonali, fumi, sottopassi, biciclette, alberi, parcheggi, cani al guinzaglio, sporte della spesa, vetrine illuminate, chioschi, sigarette fumanti, radio accese, panini incartocciati, clacson, luci intermittenti.

    Smarrimento, angoscia, paura, voglia di fuggire.

    All’ingresso del Pronto Soccorso del San Raffaele una impiegata, bellissima, fredda ed efficiente come un pugnale d’acciaio, mi chiede: Mi scusi, lei come si chiama?

    Sono il marito della signora Giulia Romani. È stata ricoverata qui da voi questa mattina dopo un malore in prefettura. Sono stato avvertito quasi subito e sono partito da Roma, dove abitiamo. Questi sono i miei documenti. Mi chiamo Viktor Saša.

    Mi chiamo Viktor Saša

    Mi chiamo Viktor Saša e ho settantasei anni.

    Il mio paese di origine è la Romania anche se, a ben vedere, fin da quando ero giovane, sono state molte altre le mie patrie adottive.

    Mio padre era un medico militare con il grado di tenente colonnello dell’esercito rumeno e, fin dalla mia infanzia, mi iniziò alla conoscenza delle lingue straniere.

    Anche se nel mio paese lo studio delle lingue straniere, a parte il russo, non era molto incoraggiato, mio padre era convinto che per me sarebbe stato indispensabile conoscere bene almeno l’inglese, la lingua del futuro e, comunque, quella che, per lui, era la lingua dei «padroni dell’altra metà del mondo».

    Grazie alle possibilità derivanti dal suo alto grado nell’esercito, mi fu possibile, fin dalla prima giovinezza, di godere del raro privilegio di andare più volte in Inghilterra e in Francia per lunghi soggiorni di studio.

    La mia facile disposizione verso le lingue straniere fece il resto. A quindici anni parlavo e scrivevo correttamente in inglese e in francese.

    A ventitré anni uscii dall’Università di Bucarest, senza alcuna passione e senza alcun merito particolare, con il diploma di laurea in Farmacia.

    Avevo un fratello di nome Vincent, più vecchio di cinque anni, che, a differenza di me, era riuscito a compiacere completamente i desideri della nostra famiglia scegliendo, con passione e con grandi risultati, la carriera militare, sino ad arrivare in breve tempo al grado di colonnello dell’esercito.

    Nel mio caso, invece, la mia famiglia era rimasta molto delusa della mia scarsa attitudine verso la vita militare e ancor più verso la medicina.

    Così, fra mille titubanze e ben poco trasporto emotivo, si era arrivati al mediocre compromesso della laurea in Farmacia. Un risultato che non aveva accontentato nessuno dei miei, tanto meno me.

    A essere sincero, a diciannove anni, quando mi fu chiesto di fare una scelta, mi resi conto che non c’era proprio nulla che mi interessasse e per me un corso di laurea equivaleva a un altro.

    A parte che non fosse Medicina.

    La mia avversione per l’arte medica proveniva da un viscerale disagio che provavo verso il corpo delle altre persone. Si fosse trattato di una persona sana o malata, il semplice contatto con un corpo animato da movimenti, tepore e dallo scorrere di fluidi all’interno di tubi ignoti e profondi, suscitava in me ogni genere di imbarazzo.

    E la cosa si verificava puntualmente anche nei rapporti fisici con quelli che erano i miei compagni di gioco o i comuni animali da compagnia come, ad esempio, i cani e i gatti.

    Queste infantili reazioni di fronte a un altro essere vivente, condizionarono non poco la mia giovinezza e tutta la mia vita. Sono inevitabilmente cresciuto nella continua ricerca di limitare il più possibile ogni tipo di contatto troppo fisico con i miei simili e con tutti gli altri esseri viventi.

    Gli sport di squadra o quelli che esponevano necessariamente al reciproco e spesso violento contatto corporale, mi vedevano sempre ben volentieri escluso o, comunque, recalcitrante.

    Questo stato di cose arrivò poi a influenzare non poco le mie amicizie e le mie prime avventure sentimentali.

    Pur essendo un bambino introverso, non ero affatto, per questo, un tipo asociale. Mi piaceva la compagnia degli altri sia a scuola che fuori ma non riuscivo, come tutti i miei compagni di scuola e di gioco, ad affidare alle mie mani il compito di trasmettere e di ricevere da altri alcun genere di messaggio che non fosse spiacevole o sconcertante.

    Figuriamoci se fossi stato indotto a fare il medico! Sarei stato, inevitabilmente, costretto a fare il ricercatore, in mezzo a provette e a vetrini colorati, il più possibile lontano dai padroni dei tessuti e delle sostanze biologiche che avrei dovuto studiare ed esaminare.

    A differenza dei miei genitori che su di me avevano riposto grandi speranze e si erano dichiarati disposti ad alimentare i migliori progetti, sono sempre stato consapevole di essere un mediocre e di non avere mai avuto dentro di me alcun mezzo reale per nutrire ambizioni più profonde.

    Ma, nonostante questo, fin dall’inizio la mia vita era stata ingiusta ed era arrivata a concedermi molto più di quanto i miei effettivi meriti avrebbero potuto far credere.

    La mia vera passione era stata, da subito, la musica.

    Ma, anche in quel caso, non ero neppure molto portato verso lo studio e la costanza. Comunque, nonostante la mia scarsa applicazione, grazie alle mie naturali doti, ero arrivato a suonare discretamente il pianoforte.

    A scuola sono sempre stato uno studente ordinario, molto aiutato, nei giudizi che gli insegnanti mi davano, dallo status particolare di mio padre.

    Anche i quattro anni di università non erano riusciti a modificare di molto le mie attitudini.

    Ecco per quale motivo mi ero ritrovato, a ventitré anni, con un titolo di studio immeritato in una materia che non mi aveva minimamente coinvolto e senza alcun genere di progetto nella testa.

    Purtroppo, uno dei miei difetti giovanili più grandi è sempre stato la mancanza di programmazione a proposito della mia vita.

    A differenza di molti miei amici o compagni di scuola, io non ero mai riuscito ad astrarre e far crescere dentro di me alcuna condizione futura fantastica o possibile che fosse riconducibile a una passione, a un desiderio vissuto dolorosamente oppure almeno conseguente a un vero stato di necessità.

    La levità del mio stato interiore mi aveva inevitabilmente portato a indirizzare gran parte del tempo e delle mie risorse sulla cura del mio corpo e del mio aspetto esteriore.

    Paradossalmente, la dedizione assidua verso il mio aspetto, non era neppure orientata a compiacere i miei familiari o a lanciare qualche messaggio seduttivo alle persone di sesso femminile che occasionalmente frequentavo.

    A posteriori mi viene da ipotizzare che si sia trattato di una specie di ripiegamento verso sé stessi, di una pavida pulsione incapace di aprirsi verso gli altri, di uno atteggiamento sterile, quasi di tipo masturbatorio, capace però di automantenersi e di andare più in profondità della semplice vanità e del narcisismo così diffuso nelle età giovanili della vita.

    A venticinque anni, venni inviato da mio padre in Svizzera, presso l’ambasciata rumena, per essere inserito all’interno di un vasto progetto diplomatico-commerciale che i paesi del Patto di Varsavia stavano cercando di attuare al fine di procurarsi le molecole chimiche e farmaceutiche che non erano in grado di produrre.

    La guerra fredda, che dall’immediato dopoguerra era diventata l’unica diplomazia condivisa dai due grandi blocchi, condizionava necessariamente il commercio di queste sostanze.

    Da una parte, c’erano le grosse multinazionali chimiche occidentali che avrebbero volentieri fatto affari con i paesi d’oltrecortina per vendere i propri prodotti. Dall’altra, c’era un mercato di trecento milioni di persone assolutamente bisognose di quanto era, almeno in teoria, di facile reperimento nell’altra parte del mondo.

    In mezzo a tutto questo, seppur istituzionalizzata sotto la fumosa definizione di scena politica internazionale, c’era la stupidità umana che impediva il semplice e ragionevole fluire delle cose.

    Io, senza alcuna esperienza commerciale, senza un’adeguata preparazione tecnica, favorito esclusivamente dal mio aspetto gradevole e dalla conoscenza delle lingue straniere, mi trovai progressivamente coinvolto in quei traffici internazionali, oscuri ai comuni mortali, dove arrivano a spostarsi, da una parta all’altra del mondo, enormi quantità di beni e di denaro.

    In un periodo lungo circa dodici anni, senza alcuno sforzo apparente, riuscii a dare la scalata discreta e silenziosa dell’organigramma della InterPharma, la società multinazionale del Patto di Varsavia, sino a diventarne l’amministratore delegato.

    Erano le diciannove

    Erano le diciannove del 31 dicembre 1969 e mi stavo preparando per andare nel salone dello Staad Hopera di Vienna per il concerto annuale di fine d’anno.

    Non avevo molta strada da fare perché l’Hotel Sacher, dove alloggiavo da anni, era a poche decine di metri di distanza.

    Come in ogni occasione mondana, mi ero occupato di me stesso per tutto il pomeriggio.

    Sul mio corpo si erano dati da fare il massaggiatore, il parrucchiere, il barbiere, l’estetista e il manicure.

    Seppur con qualche iniziale riluttanza, avevo da tempo imparato a concedere il mio corpo alle loro attenzioni e, dopo aver passato più di quattro ore di torture sotto alle loro mani, finalmente mi ritrovavo da solo a occuparmi degli ultimi preparativi per la serata.

    Avevo concesso ad Alfred, il mio maggiordomo, un’intera settimana di ferie da trascorrere con la propria famiglia in Carinzia. Come in altre occasioni simili, la sua breve assenza aveva avuto su di me il significato di una piacevole sorpresa.

    Io non avevo la minima idea di quanti abiti, camicie o scarpe avessi dentro agli armadi. Da anni era Alfred a occuparsi di tutto. In ogni momento mi faceva

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