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Attila l'unno: L'arco e la spada
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Attila l'unno: L'arco e la spada
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Attila l'unno: L'arco e la spada

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Attila, l’uomo che fece tremare l’Impero di Roma, è una figura misteriosa, sia per le sue origini, che per la morte inaspettata.
Sappiamo quello che storia e tradizione ci hanno tramandato: guerriero spietato, razziatore implacabile e strumento scelto da Dio per punire gli uomini dai loro peccati. Tuttavia non conosciamo la vera natura del condottiero, né gli eventi che lo hanno posto alla testa delle orde unne che attraversano l’Europa gettando numerosi popoli nel terrore più assoluto. Come sconosciute sono le ragioni che permettono al generale romano Ezio di opporsi alla sua avanzata e di riuscire persino a sconfiggerlo nella furiosa battaglia dei Campi Catalaunici.
Ripercorrendo quanto gli scrittori antichi hanno lasciato su di lui, Mirko Rizzotto analizza le vicende del Flagello di Dio, cercando di comprenderne i segreti delle tattiche militari e delle manovre politiche che tanto misero in crisi l’Impero romano già in evidente declino.
LanguageItaliano
Release dateOct 26, 2019
ISBN9788893720830
Attila l'unno: L'arco e la spada

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    Attila l'unno - Mirko Rizzotto

    MIRKO RIZZOTTO

    Attila l’Unno

    L’Arco e la Spada

    I edizione, ottobre 2019

    ©    Graphe.it Edizioni di Roberto Russo, 2019

    tel +39.075.37.50.334 – fax +39.075.90.01.407

    www.graphe.it • graphe@graphe.it

    L’Editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare, nonché per eventuali omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti.

    PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,

    di riproduzione e di adattamento totale o parziale,

    con qualsiasi mezzo (compresi microfilm e copie fotostatiche),

    sono riservati per tutti i paesi.

    eBook by ePubMATIC.com

    INDICE

    Attila l’Unno

    L’Arco e la Spada

    Alla memoria di mio padre Giorgio

    Attila fu un uomo nato per scuotere le razze del mondo, il terrore di tutte le terre; infatti in un modo o nell'altro tutti erano terrorizzati dalla feroce fama che si spargeva su di lui; era altezzoso sul suo carro, gettava il suo sguardo su tutti i lati, in un modo tale, che il potere della superbia si vedeva nei movimenti stessi del suo corpo. Amante della guerra, partecipava personalmente alle azioni, il più autoritario nei consigli, pietoso verso i supplici e generoso nei confronti di coloro ai quali aveva dato la sua fiducia. Era piccolo di statura, con un largo petto, la testa massiccia, e piccoli occhi. Aveva la barba sottile e spruzzata di grigio, il naso piatto, e la carnagione scura, il che dimostrava i segni delle sue origini.

    OTTONE DI FRISINGA, Storia delle due Città

    [L’ambasciatore] Cassiodoro incontrò di persona, coraggiosamente, quell’uomo temuto dall’Impero; fiducioso nella sua franchezza, disprezzò quel volto terribile e minaccevole e non esitò ad ovviare agli alterchi di Attila che, non so in preda a quale furore, sembrava che volesse ottenere il dominio del mondo. Trovò insolente il re, ma riuscì a calmarlo e con tanta schiettezza inficiò le sue false accuse…

    CASSIODORO, Variae

    Gli Unni, di cui fu re Attila, il Flagello di Dio, giunsero nell’undicesimo anno del pontificato di papa Leone I e distrussero Aquileia, prima città d’Italia; ed avrebbero poi ridotto ad un cumulo di macerie quasi l’intera Penisola, compresa anche Roma, se papa Leone non avesse raggiunto Attila e non avesse ottenuto da costui, per volontà di Dio, tutto ciò che gli richiese. E così Attila, deposta la sua crudeltà, abbandonò l’Italia e fece ritorno in Pannonia.

    SALIMBENE DE ADAM, Cronica

    CAPITOLO I

    L’ARCO SPEZZATO:

    L’ORIGINE DEGLI UNNI

    Le acque del Bosforo ondeggiavano pigramente, riflettendo i deboli barbagli della luna, seminascosta da un manto di nubi scure come la pece. Il vento soffiava gelido sul Mar di Marmara, lambendo anche le possenti fortificazioni del palazzo imperiale di Costantinopoli e ululando sinistramente intorno ad esse, mentre le sentinelle di ronda rabbrividivano involontariamente, avviluppandosi ancora più strettamente nei propri mantelli variopinti.

    Nella sua camera l’imperatore Flavio Marciano dormiva di un sonno profondo, giacendo supino sul proprio giaciglio, mentre tutt’intorno il debole e tremolante chiarore delle candele perennemente accese attorno all’immagine della Madre di Dio spandevano un chiarore soffuso, quasi irreale, sugli oggetti sparpagliati per l’ampia stanza.

    Marciano sognava. Gli sembrò di trovarsi in una delle immense pianure a nord del gelido Danubio, una di quelle sconfinate praterie spazzate dal vento, dove l’erba folta si piegava come le ondate di un mare in tempesta; il cielo sopra la sua testa era di un plumbeo color grigio e non lontano udì il sordo brontolio di un tuono, segnale dell’imminente temporale che stava per scatenarsi.

    Ad un tratto, come se fosse comparso dal nulla, vide di fronte a sé una figura che aveva bene imparato a conoscere fin dall’infanzia e subito cadde con il volto a terra, in veneranda adorazione: Gesù di Nazareth era di fronte a lui e reggeva qualcosa tra le mani.

    Mio Signore!, mormorò stupito l’uomo più potente della Terra, con voce resa roca dalla sorpresa e dall’emozione.

    Marciano, lo chiamò l’altro con voce benevola, alzati e guarda!

    L’imperatore obbedì.

    Gesù aveva un’espressione serena dipinta sul volto, incorniciato da lunghi e folti capelli castani, appena mossi dal vento, e dalla corta barba che ondeggiava sulla lunga tunica bianca come la neve. Tra le mani, i cui polsi erano segnati dai chiodi che lo avevano un tempo immobilizzato sulla croce, reggeva un arco.

    Non si trattava di un arco qualunque, era un’arma dall’apparenza rozza ma micidiale, l’arco composito degli Sciti, usato dai popoli delle steppe per gettare con ferrea precisione morte e scompiglio fra le fila degli eserciti romani; lo strumento di morte era spezzato nettamente in due e, continuando a mostrarglielo, Gesù spiegò:

    È l’arco di Attila, re degli Unni. Si è spezzato e, come vedi, non nuocerà mai più a nessuno.

    Furono le ultime parole che udì.

    Marciano si destò all’improvviso, come scosso da una vigorosa mano invisibile. Ebbe appena il tempo di mormorare a fior di labbra una preghiera, quindi si rizzò a sedere e prese a chiamare a gran voce il cubiculario che dormiva, come di consueto, ai piedi del suo letto, su di un materassino gettato sul pavimento, pronto a servirlo anche nelle ore più impensate della notte.

    Il cubiculario trasalì e saltò subito in piedi, più assonnato che stupito, al che l’imperatore gli disse trafelato:

    Mi è apparso il Signore. Ne sono certo, Attila è morto proprio in questo momento: ho visto il suo arco spezzato.

    L’altro ammutolì, sconvolto dalla notizia: possibile che l’uomo che aveva fatto tremare l’Oriente e l’Occidente fosse scomparso così all’improvviso? Eppure negli occhi di Marciano corse quella che era senz’ombra di dubbio una solida certezza: Attila, il Flagello di Dio, aveva cessato di calcare questa Terra.

    Due domande hanno tormentato per generazioni gli studiosi della Tarda Antichità: chi erano gli Unni? Da dove venivano?

    Le risposte a questi quesiti non sono semplici né soddisfacenti. Tra gli storici romani che narrarono il loro inaspettato arrivo dalle steppe asiatiche abbiamo Ammiano Marcellino (330-400 d.C. ca.), che ci ha lasciato, nelle sue Storie, quella che era destinata a restare la più celebre descrizione di questo nuovo popolo¹, una razza di uomini che non si separavano mai dalle proprie tozze cavalcature, abilissimi nell’uso dell’arco e devastanti quanto uno sciame di cavallette e capaci di incutere il più attonito terrore alla popolazione greco-romana.

    Il popolo degli Unni, poco noto agli antichi storici, abita al di là delle paludi Meotiche² lungo l’oceano glaciale e supera ogni limite di barbarie. Siccome hanno l’abitudine di solcare profondamente con un coltello le gote ai bambini appena nati, affinché il vigore della barba, quando spunta al momento debito, si indebolisca a causa delle rughe delle cicatrici, invecchiano imberbi, senz’alcuna bellezza e simili ad eunuchi. Hanno membra robuste e salde, grosso collo e sono stranamente brutti e curvi, tanto che si potrebbero ritenere animali bipedi o simili a quei tronchi grossolanamente scolpiti che si trovano sui parapetti dei ponti. Per quanto abbiano la figura umana, sebbene deforme, sono così rozzi nel tenore di vita da non aver bisogno né di fuoco né di cibi conditi, ma si nutrono di radici di erbe selvatiche e di carne semicruda di qualsiasi animale, che riscaldano per un po’ di tempo fra le loro cosce ed il dorso dei cavalli.

    Non sono mai protetti da alcun edificio, ma li evitano come tombe separate dalla vita d’ogni giorno. Neppure un tugurio con il tetto di paglia si può trovare presso di loro, ma vagano attraverso montagne e selve, abituati sin dalla nascita a sopportare geli, fame e sete. Quando sono lontani dalle loro sedi, non entrano nelle case a meno che non siano costretti da estrema necessità, né ritengono di essere al sicuro trovandosi sotto un tetto. Adoperano vesti di lino oppure fatte di pelli di topi selvatici, né dispongono di una veste per casa e di un’altra per fuori.

    Ma una volta che abbiano fermato al collo una tunica di colore appassito, non la depongono né la mutano finché, logorata dal lungo uso, non sia ridotta a brandelli. Usano berretti ricurvi e coprono le gambe irsute con pelli caprine e le loro scarpe, poiché non sono state precedentemente modellate, impediscono di camminare liberamente. Per questa ragione sono poco adatti a combattere a piedi, ma inchiodati, per così dire, su cavalli forti, anche se deformi, e sedendo su di loro alle volte come le donne, attendono alle consuete occupazioni. Stando a cavallo notte e giorno ognuno in mezzo a questa gente acquista e vende, mangia e beve e, appoggiato sul corto collo del cavallo, si addormenta così profondamente da vedere ogni varietà di sogni. E nelle assemblee in cui deliberano su argomenti importanti, tutti in questo medesimo atteggiamento discutono degli interessi comuni. Non sono retti secondo un severo principio monarchico, ma, contenti della guida di un capo qualsiasi, travolgono tutto ciò che si oppone a loro. Combattono alle volte se sono provocati ed ingaggiano battaglia in schiere a forma di cuneo con urla confuse e feroci. E come sono armati alla leggera ed assaltano all’improvviso per essere veloci, così, disperdendosi a bella posta in modo repentino, attaccano e corrono qua e là in disordine e provocano gravi stragi. Senza che nessuno li veda, grazie all’eccessiva rapidità attaccano il vallo e saccheggiano l’accampamento nemico. Potrebbero poi essere considerati senz’alcuna difficoltà i più terribili fra tutti i guerrieri poiché combattono a distanza con giavellotti forniti, invece che d’una punta di ferro, di ossa aguzze che sono attaccate con arte meravigliosa, e, dopo aver percorso rapidamente la distanza che li separa dagli avversari, lottano a corpo a corpo con la spada senz’alcun riguardo per la propria vita. Mentre i nemici fanno attenzione ai colpi di spada, quelli scagliano su di loro lacci in modo che, legate le membra degli avversari, tolgono loro la possibilità di cavalcare o di camminare. Nessuno fra loro ara né tocca mai la stiva di un aratro. Infatti tutti vagano senza aver sedi fisse, senza una casa o una legge o uno stabile tenore di vita. Assomigliano a gente in continua fuga sui carri che fungono loro da abitazione. Qui le mogli tessono loro le orribili vesti, qui si accoppiano ai mariti, qui partoriscono ed allevano i figli sino alla pubertà. Se s’interrogano sulla loro origine, nessuno può dare una risposta, dato che è nato in luogo ben lontano da quello in cui è stato concepito ed in una località diversa è stato allevato. Sono infidi ed incostanti nelle tregue, mobilissimi ad ogni soffio di una nuova speranza e sacrificano ogni sentimento ad un violentissimo furore.

    Ignorano profondamente, come animali privi di ragione, il bene ed il male, sono ambigui ed oscuri quando parlano, né mai sono legati dal rispetto per una religione o superstizione, ma ardono di un’immensa avidità d’oro. A tal punto sono mutevoli di temperamento e facili all’ira che spesso in un sol giorno, senza alcuna provocazione, più volte tradiscono gli amici e nello stesso modo, senza bisogno che alcuno li plachi, si rappacificano.

    Cassiodoro, il celebre storico romano e prefetto del pretorio al servizio dei re ostrogoti d’Italia nel VI secolo, narrò dettagliatamente la storia di questa popolazione, dal suo apparire in Sarmazia nella seconda metà del IV secolo (con la conseguente sconfitta e suicidio di Ermanarico l’Amalo, sovrano dei Goti stanziati in quelle regioni) fino alle imprese dei figli di Attila contro l’Impero d’Oriente e gli Ostrogoti. Certo, l’opera cassiodorea sopravvive solo nell’abbreviazione fattane dallo storico goto Giordane, ma resta comunque la più completa esposizione della storia dei rapporti politici fra il mondo unno e quello romano-germanico.

    Eppure nemmeno Ammiano e Cassiodoro, con i loro preziosi scritti, sono stati in grado di rispondere ai nostri quesiti iniziali.

    La diversità dell’aspetto fisico e dello stile di vita degli Unni era qualcosa che colpì profondamente gli osservatori romani, tanto che si giunse addirittura a dubitare della loro piena appartenenza al genere umano. I Goti, che caddero a migliaia sotto i dardi dei nomadi delle steppe e che furono costretti, per sfuggire alla schiavitù, a migrare in massa verso la frontiera danubiana dell’Impero Romano (375 d.C.), favoleggiavano di una loro discendenza da un connubio fra demoni e streghe.

    Nel XVIII secolo, tra il 1756 e il 1758, un giovane studioso francese di nome Joseph de Guignes, interprete di lingue orientali alla Bibliothèque Royale di Parigi e specializzato nella letteratura cinese, intraprese la stesura della monumentale opera che lo rese celebre, la Histoire gènèrale des Huns, des Turcs, des Mogols et des autres Tartares Occidentaux, in cinque volumi. In essa de Guignes sosteneva che gli Unni venuti a contatto con il mondo romano discendevano da una tribù nota con vari nomi, come Hsiong-nu, Xiongnu, Hiong-nou e altri ancora; tale tribù non apparteneva al ceppo cinese, ma a quello turco; gli Hsiong-nu, dopo secoli di incursioni, avrebbero, nel 209 a.C., formato una sorta di grande regno nomade avente come centro l’attuale Mongolia (ben prima, ovviamente, dell’arrivo delle popolazioni mongole propriamente dette), e assai citato dalle fonti storiche cinesi³. Nondimeno, a parte l’innegabile assonanza del nome Hsiong-nu con quello latino di Hunni, de Guignes non fornì ulteriori spiegazioni alla sua tesi e diede per scontata l’identità di queste due popolazioni, seguito con entusiasmo in questo da molti studiosi della sua epoca, in primis Edward Gibbon⁴.

    Oggi, in generale, la ricerca è molto più prudente nel fare degli Unni gli eredi diretti degli antichi Hsiung-nu⁵. In effetti (a volte esageratamente) la tendenza attuale è di evitare di prendere una posizione definitiva in merito, data la scarsità di prove. E.A. Thompson è giunto a dichiarare che uno studioso del tardo Impero Romano che decida di affrontare la storia degli Unni deve necessariamente iniziare con l’affermazione che sta per offrire ai suoi lettori una storia senza un inizio e senza una fine, ragion per cui, finché non si sarà in grado di affrontare gli antichi testi cinesi con maggior padronanza, sarebbe meglio limitarsi a prendere le mosse dalla comparsa degli Unni in Europa, lasciando cadere ogni discorso sulla loro discendenza dai nomadi Hsiong-nu⁶.

    Seguendo però l’opinione di molti altri accreditati studiosi, tra cui Santo Mazzarino, siamo dell’idea che sia meglio lasciar cadere eccessive prudenze e reticenze:

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