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Infinita grazia: La trasmissione della conoscenza divina
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Infinita grazia: La trasmissione della conoscenza divina

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About this ebook

Una storia incredibile costellata di miracoli e avvenimenti sulla vita di Lakulisha, un essere immortale. Uno straordinario racconto che porta con sé gli insegnamenti sulla vera pratica dello Yoga e il raggiungimento della completa libertà dai limiti del corpo e della mente. Non un semplice libro, ma una grande rivelazione e un prezioso dono al mondo intero. Una verità custodita da molto tempo nel cuore dell’autore che ha deciso di renderla pubblica solo dopo quaranta anni di intensa pratica spirituale.
“Durante la 28a età di Dwapar, quando Dwaipayan, il figlio di Parasar, sarà Vyas e il Signore Vishnu si incarnerà come il Signore Krishna, il figlio di Vasudeva, mi incamerò anche io nel corpo di una persona casta e sarò conosciuto come Lakulisha. Il luogo della mia incarnazione sarà Siddhakshetra e sarà famoso fra gli uomini fino alla fine del mondo”. (Shiva Puran, Shatrudra Samhita, Cap. 5°, verso 45-50)
LanguageItaliano
Release dateOct 25, 2019
ISBN9788863655278
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    Infinita grazia - Swami Rajarshi Muni

    Muni

    CAPITOLO 1

    BOMBAY

    UN BAMBINO BRILLANTE

    Il 13 gennaio 1913, in una devota e istruita famiglia bramina kayasta di Dabhoi, una cittadina nel distretto di Vadodara nello Stato del Gujarat in India, nacque un bambino prodigio. Suo padre Jamnadas Majmudar e sua madre Mangalaba chiamarono il bambino Saraswatichandra. I familiari lo chiamavano con il suo nomignolo Hariprasad¹.

    I suoi genitori erano vishnuiti, membri della setta hindu devota al Signore Krishna e ciò ebbe un’influenza predominante sulla formazione del carattere del bambino. Nella sua adolescenza Saraswatichandra sviluppò rispetto e devozione anche per Shiva, così come per Saraswati, la dea della conoscenza. Jamnadas era impiegato statale e possedeva un piccolo terreno coltivabile, ma la sua numerosa famiglia, composta da sette figlie e due figli, era molto povera. Così come altri devoti, Jamnadas era una persona altruista e generosa e ciò impoveriva ulteriormente la famiglia. Quando morì, il suo primogenito Krishnalal aveva 14 anni e Saraswatichandra solo 7. Krishnalal aveva sviluppato una predilezione per la vita devozionale e fin dall’infanzia era contrario a occuparsi delle faccende materiali. Allora la responsabilità della famiglia era passata a Mangalaba. Col tempo i debiti aumentarono fino alla confisca della loro casa. Il momento in cui i loro beni furono buttati per strada rimase negli anni successivi un vivido ricordo per Saraswatichandra.

    In questi tempi difficili egli continuò i suoi studi fino alla settima classe e ottenne il massimo dei voti ogni anno. A dispetto della sua ottima performance, la povertà della famiglia lo costrinse a lasciare la scuola nel 1927, all’età di 14 anni.

    Per far fronte ai problemi economici della famiglia egli soffocò il suo desiderio di continuare gli studi e accettò invece un lavoro temporaneo come impiegato alle tasse comunali. Questo impiego durò solo 4 o 5 mesi. Saraswatichandra trovò successivamente un altro lavoro come impiegato contabile in un’azienda di Dabhoi, dove prestò servizio onestamente per 3 anni (dal 1928 al 1930) accattivandosi la benevolenza del proprietario, il signor Kaduji Ganiji. Durante questo periodo, nel suo tempo libero, Saraswatichandra lesse e scrisse di argomenti letterari e alcuni dei suoi articoli e poesie furono pubblicati da riviste contemporanee. Allo stesso tempo studiava musica e Krishnalal, suo fratello più grande, anch’egli bravo musicista, fu il suo primo insegnante. La sua conoscenza degli aspetti classici della musica proveniva da Ustad Gulam Rasool Khan Sahib della scuola statale di Dabhoi².

    All’età di 18 anni Saraswatichandra, lavorando duramente, decise di salvare la sua famiglia dalla crisi finanziaria e con questo scopo nella mente, arrivò a Bombay. Il destino tuttavia gli aveva riservato una sorte diversa. A Bombay i suoi guadagni furono spirituali piuttosto che finanziari, perché fu lì che incontrò Sadguru Swami Pranavanandji, dal quale ricevette l’iniziazione allo yoga. Nel periodo che seguì, Saraswatichandra divenne Swami Kripalvanandji e conquistò la fama di grande yogi. Egli è il mio guru³ ed è affettuosamente conosciuto dalla moltitudine dei suoi discepoli come Bapuji (padre amorevole). Dunque da ora in poi mi riferirò a lui così.

    Bapuji decise di andare a Bombay alla fine del 1930. Dabhoi era una località troppo piccola per poter avere successo e prosperare. Egli pensò quindi che una grande città avrebbe potuto ampliare il suo campo d’azione offrendogli maggiori opportunità di impiego. La sua passione per la letteratura e il desiderio di conquistarsi nome e fama scrivendo racconti, poesie e commedie, determinarono la sua decisione. A quel tempo, la commedia e le opere teatrali erano molto popolari, ma nel Gujarat vi erano pochissime buone compagnie che le rappresentassero.

    Saraswatichandra (Bapuji) all’età di diciotto anni a Bombay

    Bapuji scrisse a un amico che si era sposato e stabilito a Bombay e gli espresse il suo desiderio: Ti disturbo perché vorrei cercare un lavoro a Bombay. Fammi sapere se pensi che sia possibile trovare lì un’occupazione.

    L’amico rispose velocemente: Caro Hariprasad, vieni a Bombay quando vuoi. Non devi andare in nessun altro posto. Per favore stai con noi. Una volta qui cercheremo insieme un lavoro per te. Ci vorranno solo pochi giorni, due settimane al massimo per trovarti un impiego in una grande città come Bombay.

    Soddisfatto dalla risposta del suo amico, Bapuji decise di partire dopo la festa di Diwali⁴, tra ottobre e novembre. Mancava poco.

    Quando arrivò a Bombay, si trattenne a casa dei suoi amici che lo trattarono come un membro della famiglia.

    Benché evitasse tutte le spese superflue, la piccola quantità di denaro che Bapuji aveva portato con sé diminuì rapidamente a causa dei viaggi quotidiani in città. Venne il giorno in cui non ebbe più soldi. Il suo amico, che ben conosceva la condizione economica di Bapuji, spesso gli chiedeva: Hariprasad, hai denaro? Non essere timido a chiederlo. Sono tuo fratello!. Giudicando ingiusto essere di ulteriore peso per un amico che già lo aveva aiutato molto, Bapuji rispondeva: Sì, ce l’ho. Non convinto della risposta, una volta il suo amico volle controllare di nascosto nelle tasche della sua giacca e quando le trovò vuote, subito vi mise due biglietti da 20 rupie. Il giorno successivo, Bapuji capì cosa avevano fatto e si sentì ulteriormente in debito con questi amici così buoni. Passarono circa due mesi e gli sforzi di Bapuji per la ricerca di lavoro non dettero risultati.

    Si avvicinava il giorno del suo compleanno. Era naturale per un giovane di 19 anni immaginare di festeggiarlo. Dopotutto si trovava a Bombay, la città dell’incanto! Perfino l’ultimo tra i modesti poteva permettersi una tazza di tè al ristorante. Ma Bapuji sentì che persino questa gioia gli sarebbe stata negata, poiché sapeva che le sue tasche erano vuote.

    Al suo compleanno, Bapuji e il suo amico consumarono il solito pasto leggero al mattino e poi partirono per i loro rispettivi compiti. Una volta per strada, Bapuji si accorse che in realtà la sua tasca non era vuota. Il suo amico gli aveva donato generosamente due biglietti da 10 rupie e questo modo di augurargli buon compleanno gli piacque molto! I profondi sentimenti di affetto che già provava per lui aumentarono moltissimo.

    Era colmo di piacere e festeggiò quel giorno speciale con degli spuntini e una tazza di tè. La sera portò a casa dei dolci per i suoi premurosi amici. Sapendo bene che a Bapuji piaceva il vedmi (chapati dolce ripieno), quella notte la moglie dell’amico lo aveva preparato per servirlo durante la cena. Tutto quell’amore e quell’affetto così generosamente mostrati, colmarono Bapuji di una grande gioia.

    Ma quella notte Bapuji non riuscì a dormire poiché era tormentato dal pensiero dei due mesi di inutili ricerche trascorsi a Bombay. Si vergognò di essere di peso ai suoi buoni amici, gli girava la testa e tutto questo gli procurava un enorme disagio. Iniziò a detestare la sua vita sfortunata, si sentiva insignificante e si propose di non vivere a lungo. Il solo modo per liberarsi di una vita così misera, pensò, era quello di abbracciare la morte suicidandosi. Sempre più risoluto a farla finita, passò una notte molto agitata.

    Il giorno successivo Bapuji partì come al solito e girovagò senza meta per Bombay. Sentiva che la sua vita era inutile e voleva seriamente suicidarsi. Che disperazione per un giovane uomo che era destinato a diventare un grande santo!

    Quella sera andò al suo tempio preferito, quello della Madre Divina vicino a Pigeon House di Bhuleshwar. L’Arathi della sera⁵ si avvicinava e Bapuji prese il suo posto all’interno. Attraverso le lacrime e la luce splendente della lampada dell’Arathi, gli apparve la forma della Madre

    Divina. Egli la guardò pensando fosse l’ultimo Darshan⁶ di questa vita, poi la scena della sua visione cambiò e vide il Sandhurst Bridge vicino a Chowpaty Beach. Un treno stava giungendo a gran velocità. Vide il suo inutile corpo cadere dal ponte e la ruota del treno che lo schiacciava. Quando la visione terminò, torrenti di lacrime sgorgarono dai suoi occhi e la voce gli finì soffocata in una preghiera alla Madre Divina: Oh Madre, non voglio vivere una vita così inutile e senza amore. Lascia che io mi uccida!.

    Le preghiere dell’Arathi erano terminate, ma Bapuji era così afflitto che non se ne andò. Anche se gli altri devoti stavano lasciando il tempio, egli continuava a piangere. Un grande singhiozzo scosse il suo corpo e in quel momento un Mahatma⁷ si fermò davanti alla Grande Madre per una benedizione e rimase lì, in piedi, per alcuni istanti. Quindi il santo si mosse verso di lui, stava ancora piangendo quando egli gli prese gentilmente la mano. Bapuji si voltò verso questa persona compassionevole e si abbandonò tra le sue braccia singhiozzando. Il santo sconosciuto gli accarezzò la testa come fosse quella del suo più caro figliolo. Quindi gli parlò con voce dolce e confortevole: Figlio mio, non piangere. Vieni con me, seguimi.

    Le sue parole ebbero un magico effetto. Bapuji smise di piangere e lo seguì senza dire una parola e senza avere la minima esitazione. Uscirono dal tempio e scesero in strada. Vicino a una bottega chiusa trovarono una sedia e si sedettero l’uno accanto all’altro. Quindi il santo, sempre in modo estremamente dolce, gli parlò di nuovo: Figlio mio, stavi pensando di ucciderti! Non avere questi pensieri. Il suicidio è un atto vietato.

    Come poteva uno sconosciuto aver letto nella sua mente? Spaventato, Bapuji guardò il santo e impallidì. Con una reazione automatica disse: No! No! Ti sei sbagliato! Non ho mai pensato di suicidarmi. La sua voce si spezzò appena pronunciò queste parole. La sua coscienza sporca lo aveva obbligato a nascondere la verità anche se non intendeva dire una bugia.

    Gli occhi del santo lo guardarono con compassione. Le sue labbra accennarono un sorriso di totale comprensione e poi disse: Figlio mio, tu sei un Sadhaka (Sadhu), un cercatore di verità e santità. Questa sera hai progettato di saltare dal ponte Sandhurst, mentre un treno vi passava sotto.

    Bapuji rifletté: Come poteva sapere queste cose?, ma subito dopo confessò: Sì, ho detto una bugia. Per favore perdonami. Con questa ammissione si arrese al santo. In pochi minuti, questo strano individuo gli aveva dato nuova fiducia in se stesso.

    Era naturale che volessi nascondere il tuo piano, sei perdonato. Domani è giovedì, vieni a trovarmi tra le 3 e le 6 del pomeriggio, gli disse il santo dopo avergli toccato la spalla con affetto.

    Quindi gli dette un indirizzo⁸ e lo salutò. Bapuji rimase immobile a guardarlo svanire nella notte.

    Di solito non si impressionava facilmente, ma quest’uomo aveva letto nei pensieri della sua notte più buia e gli aveva teso dolcemente la mano. Si sentiva profondamente commosso da questo santo mistico. Adesso Bapuji voleva vivere. L’idea del suicidio era completamente sparita!

    IL SORRISO DEL DESTINO

    Il giorno successivo Bapuji si mise in cammino abbastanza presto per arrivare all’ashram del santo prima delle 18, ma per qualche motivo, nella sua confusione, tardò di mezz’ora. Di solito il santo dava il Darshan una volta alla settimana, il giovedì dalle 15 alle 18. Il cancello dell’ashram si chiudeva puntualmente alle 18 e i ritardatari rimanevano delusi. Ma quel giorno, sorprendentemente, il cancello era ancora aperto. In fretta Bapuji corse dentro. Nella sala del Darshan, seduto su un piccolo palco, vide lo stesso strano tipo che aveva incontrato la sera precedente. I suoi discepoli erano seduti davanti a lui, sul pavimento lucido. Tutti sembravano essere impazienti come se stessero aspettando un qualche ospite speciale. Quattro mesi prima il santo aveva detto loro che un giovane uomo sarebbe stato il suo discepolo prediletto e che sarebbe arrivato proprio quella sera.

    Bapuji gli si avvicinò, gli mise una ghirlanda di fiori intorno al collo e gli offrì il pranam⁹. Questi gli indicò una sedia vicina e appena Bapuji si mosse verso di essa, il santo gli disse: Swami, figlio mio, è bello che tu sia venuto.

    Lui rimase sorpreso, pensò che lo avesse chiamato Swami a causa della sua carnagione scura. Molte persone della provincia di Madras, nell’India del Sud, sono scuri di carnagione e i loro nomi terminano in Swami, ma il santo chiarì: "Non ti ho chiamato Swami perché penso tu venga da Madras, ma perché in futuro diventerai uno Swami Sannyasi¹⁰, un rinunciante. Non puoi capire ora e non è necessario parlarne ulteriormente. Bapuji rimase in silenzio, così egli continuò: Ora, se tu vorrai stare con me in questo ashram, sei il benvenuto". Quell’uomo conosceva il suo futuro, quindi non esitò a invitarlo. Sotto la sua influenza, Bapuji ricevette uno stimolo alla realizzazione delle sue stesse inclinazioni. Il destino gli sorrideva ed egli accettò subito l’offerta. Aveva due cose in mente: poter imparare lo yoga e poter servire questo grande yogi. Considerata quest’ultima prospettiva, il suo cuore si colmò di una gioia indescrivibile.

    Il giorno successivo partì dalla casa dell’amico con la valigia. Fu come muoversi dalla terra al paradiso: un viaggio dal suicidio all’esultanza. Quando Bapuji raggiunse l’ashram trovò che i devoti, sotto la guida del santo, si erano occupati di tutti i preparativi per la sua permanenza.

    L’ashram era situato in un’elegante località vicino alla spiaggia. Uno dei suoi discepoli ricchi aveva proposto al Mahatma di utilizzare questa sontuosa proprietà come suo ashram. Era un bell’edificio isolato, alto quattro piani e con tutt’intorno un gradevole giardino recintato da un alto muro. Lo scenario era incantevole.

    Il cancello pubblico sul davanti era aperto solo al giovedì, ma uno piccolo sul retro era sempre aperto per i discepoli intimi. Il santo diede istruzioni ai responsabili affinché disponessero per la permanenza di Bapuji nell’enorme terzo piano che egli stesso occupava. La grandezza dei piani superiori era tale che la camera del santo era lontana quattro stanze da quella di Bapuji. In sostanza il santo era il solo occupante di questa intera imponente dimora. Bapuji divenne il secondo abitante e per questo si sentiva incontenibilmente felice. Pensava che la signora Fortuna lo avesse aiutato e che i suoi momenti tristi fossero finiti. Solo due giorni prima si sentiva un fallito, ora era pieno di entusiasmo per il fatto di poter seguire un sentiero spirituale. È proprio vero: solo se diventiamo inutili agli scopi terreni, possiamo rivelarci utili nel servire Dio.

    Il santo decise di iniziare dal giorno successivo a istruire il suo allievo sui testi yoga. Quindi stabilì un programma di un’ora ogni mattina e una ogni pomeriggio. Il mattino successivo alle dieci Bapuji si presentò per la prima lezione. Dopo essersi prostrato ai piedi del santo, si sedette sul pavimento davanti a lui.

    Essendo la prima lezione, avrebbe voluto rimanere in assoluto silenzio per permettere al santo di iniziare con l’argomento, ma la sua incalzante curiosità lo costringeva a parlare: Posso fare una domanda?.

    Certamente.

    Hai mai visto Dio?

    Sono identico a lui.

    Come ottieni l’unità con Dio?

    Attraverso lo Yoga.

    Come viene fatto lo Yoga?

    Per prima cosa si devono purificare il corpo e la mente.

    Cosa si deve fare per realizzare questo?

    "Pratica le asana, il pranayama¹¹ e osserva i voti yogici."

    Cosa si deve fare dopo aver purificato il corpo e la mente?

    Manolaya.

    Cos’è?

    I pensieri sono di ostacolo per l’autorealizzazione. Possono essere indeboliti gradualmente e alla fine eliminati. Quando la mente è senza pensieri, si riassorbe in Dio. Questo stato è detto manolaya.

    Come si raggiunge lo stato di manolaya?

    Praticando dharana-dhyana e samadhi.

    Questo significa che mi stai consigliando di praticare l’ashtanga yoga?

    Esattamente.

    Mi insegnerai l’ashtanga yoga?¹²

    Certo. Ma prima di cimentarti nella pratica vera e propria, devi comprendere la conoscenza teorica di base che c’è dietro.

    Allora ti prego, insegnami la teoria dello Yoga.

    È proprio per questo che ti ho detto di venire da me ogni giorno, per due ore.

    Te ne sono molto grato.

    Quindi il santo impartì a Bapuji la sua prima lezione di Yoga. L’incontro terminò alle 11 in punto. Proprio allora una discepola giunse nella stanza e disse: Gurudev, il pranzo è pronto. Egli si alzò e fece cenno a Bapuji di accompagnarlo. Insieme attraversarono due ampie stanze prima di arrivare nella sala da pranzo.

    Qui Bapuji si meravigliò nel vedere due piatti d’oro e due d’argento e poi bassi sgabelli con piatti, tazze, caraffe e altri utensili sempre d’oro e d’argento. Prima di riprendersi dalla sorpresa, il santo lo invitò a sedersi su una sedia placcata d’oro, mentre lui si sedette su una sedia placcata d’argento e disse: Figlio mio, la grandezza risiede nel carattere di una persona e non nella materia. Stando così le cose, qual è dunque la differenza tra una sedia d’oro e un mucchio di polvere? Un diamante rimane sempre tale, che sia montato in oro o argento o che sia andato perso nel fango.

    Il santo era uno yogi realizzato, la cui mente non era influenzata in alcun modo da povertà o ricchezza. Solo un’anima veramente evoluta poteva conoscere e sentire un simile distacco dallo sfarzo terreno. Un uomo medio non avrebbe potuto sostenerlo. Naturalmente Bapuji, essendo umano, si sentì orgoglioso di essere seduto su una sedia d’oro e di mangiare in un piatto d’oro. Povero fino al giorno prima, ora godeva di questa opulenza favolosa. Era così eccitato che non si ricordava neppure quanto o cosa avesse mangiato. Successivamente andò a fare una lunga passeggiata per digerire sia il pranzo che la propria esperienza, ma non poteva cancellare l’oro e l’argento dalla sua mente.

    Nel pomeriggio tornò dal santo per la lezione. Appena si inchinò, questi gli toccò il capo amorevolmente e gli disse: Swami, perché sei così ammaliato dall’oro e dall’argento? Non ti appartengono e tuttavia sei così orgoglioso per essi. È sciocco da parte tua sentirti influenzato e affascinato da queste cose materiali e illusorie. Dimentica per sempre l’oro e l’argento.

    Nell’udire queste parole, l’incanto per questi oggetti materiali sparì dalla sua mente. Il giorno successivo, nella stanza da pranzo c’erano quattro piatti d’oro. Visto che il santo il giorno precedente si era seduto su una sedia d’argento, i suoi discepoli ricchi l’avevano sostituita. I soldi non erano un problema per loro. Questa volta Bapuji non ne fu colpito poiché oro e argento non lo affascinavano più. La sua attrazione per tutto questo era sparita e così riuscì a mangiare con calma e in uno stato di pace.

    IL MAHATMA

    Il Mahatma era arrivato a Bombay sei mesi prima di incontrare Bapuji. Il suo primo incontro con Laxmichand Seth, un mercante di Bombay, fu un evento straordinario, un fatto di importanza fondamentale che mise in rilievo la grandezza di questo santo uomo.

    Laxmichand era un uomo d’affari di Marwari¹³ molto ricco e con una fiorente attività commerciale a Bombay. Sebbene avesse avuto una scarsa istruzione, era un uomo intelligente, onesto e cortese. Nelle sue visite quotidiane al tempio, nell’area della città chiamata Madhvbagh, immancabilmente donava denaro ai poveri che sedevano davanti alla dimora degli dei.

    Una mattina, mentre faceva la carità dopo la preghiera, vide un asceta che sedeva appoggiato a una colonna un po’ distante dal gruppo dei mendicanti, gli si avvicinò e gli offrì del denaro.

    Non sono un mendicante disse l’asceta.

    Mahatma, lo so che non sei un mendicante. Lo vedo che sei un asceta, un monaco. Ti sto offrendo del denaro pensando che anche tu potresti qualche volta averne bisogno. Per favore, accettalo. Se ritieni che non sia sufficiente o hai un’altra richiesta da fare, dimmelo per favore. Cercherò di accontentarti, disse garbato l’uomo d’affari.

    Lo guadagni questo denaro?

    Sì, per grazia di Dio ho un buon reddito e una piccola parte di esso la offro come elemosina.

    Dal momento che hai bisogno di denaro sei anche tu un mendicante, non puoi offrirmi niente. La ricchezza che ho è così grande che nessuno in questo mondo può eguagliarla. Poiché corri dietro al denaro, sei tu il mendicante, non io.

    Dopo la loro conversazione Laxmichand capì che questi non era un monaco comune. Allora disse: Mahatmaji! Ciò che dici è vero, ma non mi vanto dei miei beni. Dio onnipotente mi ha onorato con abbondante ricchezza e non rimarrò senza se ne offro un po’ ai poveri e ai mendicanti. Con questa intenzione io dono quanto più possibile. Per favore, se puoi prendi questo denaro. Non avrò da ridire se tu non accetterai le mie offerte, sarai solo tu a decidere se usufruirne. Dopo la preghiera è mio costume offrire un dono a ogni persona bisognosa seduta qui. Gratifica la mia mente.

    Se sei così tanto ricco, vai dritto a casa tua e salva la vita a tuo figlio. Se il tuo denaro può salvarlo, non sei un mendicante, ma un uomo davvero ricco.

    Laxmichand era perplesso. Chiese: Di cosa parli? Non capisco cosa stai dicendo.

    Prima torna a casa tua. Poi capirai, rispose il Mahatma.

    Vengo proprio da casa mia. Prima di andare in ufficio sono solito venire qui per pregare, disse Laxmichand.

    Ma oggi devi tornare a casa immediatamente.

    Bene, rispose Laxmichand e invece di tornare a casa andò in ufficio. Pensava che il monaco fosse un eccentrico. Appena uscì dalla sua auto vide il direttore che, correndo verso di lui, disse:

    Ha chiamato tua moglie dicendo che devi tornare a casa immediatamente.

    Per quale motivo?, chiese Laxmichand.

    Non lo ha detto, replicò il direttore.

    Laxmichand ora temeva che ci fosse una qualche verità nelle parole del Mahatma. Tornò a casa precipitosamente e scoprì che suo figlio, un bambino di 8 anni, aveva subito una brutta caduta dall’ultimo piano della casa e ora giaceva privo di sensi. I dottori non erano ottimisti e dissero a Laxmichand: Ha perso conoscenza e non risponde. Non si sente il respiro, il battito del cuore e il polso non si percepiscono. Non abbiamo molte speranze.

    Se il tuo denaro può salvare tuo figlio, allora non sei un mendicante. Le parole di quello strano asceta iniziarono a risuonargli nelle orecchie. Rendendosi conto della situazione ritornò di corsa al tempio e trovò il Mahatma seduto nella stessa identica posizione accanto alla colonna. Quando Laxmichand gli si avvicinò, questi gli chiese: Perché sei tornato? Cos’è successo?.

    L’uomo cadde prostrato ai suoi piedi e con voce rotta dall’emozione disse: Perdonami Mahatmaji! Non ti ho riconosciuto. Ho commesso un errore. Mi avevi avvertito, ma io non sono andato direttamente a casa. Per favore perdona se nella mia ignoranza ho detto qualcosa di indegno riferendomi a te. Tu sei un Essere Supremo, sai tutto quel che è successo, sarebbe intollerabile per me perdere il mio unico figlio. Abbi pietà e fai qualcosa! Vieni con me nella mia casa. Umilmente ti prego e ti supplico di far rivivere mio figlio. Abbi pietà di me! Ti sarò per sempre grato. E appena ebbe finito di parlare diede libero sfogo al pianto.

    Il Mahatma lo guardò compassionevole e chiese: Hai un recipiente?. Il mercante non lo aveva, ma corse al tempio e ritornò con una ciotola fatta di foglie. Il Mahatma vi versò un po’ d’acqua dal suo kamandal¹⁴ e gli disse: Non vado a casa di nessuno, ma dai quest’acqua al ragazzo.

    Laxmichand si arrese al suo volere e si affrettò a tornare a casa. Tutti stavano aspettando ansiosamente il suo ritorno. Egli mise un cucchiaio di quell’acqua nella bocca di suo figlio. Gli eventi presero una misteriosa svolta: il ragazzo lentamente aprì gli occhi! Il padre era esaltato, porse al figlio tutta l’acqua ed egli bevve. Perplessi, i dottori esaminarono il ragazzo a fondo e lo trovarono completamente guarito, senza alcun segno di lesioni. Laxmichand riconobbe la grazia dell’asceta, ritornò a Madhavbagh e si prostrò ai piedi del Mahatma, li avvolse in un abbraccio e pregò: Oh, Essere Supremo! Hai resuscitato sia me che mio figlio. Ti chiedo di benedire la nostra casa e di concederci l’opportunità di servirti.

    Hai capito ora chi è il mendicante?

    Sì, ho capito di essere completamente povero. I tuoi averi sono indescrivibili. Non c’è e mai ci sarà alcuno al mondo che eguaglierà le tue ricchezze. I tuoi beni non hanno limiti. Cosa possiamo offrirti noi poveri mendicanti?, chiese prostrato l’uomo d’affari.

    Quale servizio mi vuoi rendere? Non chiedo alcun servizio. A cosa mi servirebbe accompagnarti? Non mi piace andare a casa di nessuno.

    Oh Essere Divino! Puoi non venire a casa mia, ma è per tua grazia che io ho un altro palazzo vuoto. Per favore, vai lì e fanne il tuo ashram. Apporterò tutte le modifiche necessarie, non voglio che tu vada in altro posto. Non conosco il tuo nome e non so nemmeno da dove vieni, ma già da oggi sei mio ospite. Devi dare a me e alla mia famiglia l’opportunità di offrirti ospitalità e di servirti. La richiesta di Laxmichand era una preghiera sincera.

    Va bene. Sia come vuoi tu, vengo a stare a Bombay. Se così desideri, vivrò nel tuo palazzo.

    Oltremodo felice, nell’udire la decisione del Mahatma, Laxmichand lo portò in quella che sarebbe poi diventata la sua dimora. L’edificio venne modificato secondo i suoi desideri e da quel giorno la casa divenne l’ashram del santo.

    Tutto questo accadde nel giorno di Guru Purnima¹⁵. Laxmichand nominò il santo suo protettore spirituale e lui e sua moglie ricevettero da lui l’iniziazione al mantra¹⁶. Egli fu il primo discepolo del Mahatma a Bombay.

    Nella stessa città, un’altra persona ricca, Govardhanbhai Seth amico di Laxmichand venne a conoscenza della resurrezione di suo figlio. Così anche lui desiderò diventare discepolo di questo grande Mahatma. Con la raccomandazione di Laxmichand, anche a Seth fu data l’iniziazione al mantra. Nelle due settimane successive si diffuse la notizia dei poteri miracolosi del santo e numerose persone benestanti ne furono ammaliate. Ricche casalinghe iniziarono a visitare l’ashram per avere il suo Darshan. Venivano da molto lontano, addirittura da cinquanta miglia di distanza e si sentivano liete di poter offrire anche solo un modesto servizio al Mahatma. Si sentivano molto fortunate nel potergli lavare un vestito o una tazza o pulire il bagno o sistemare la sua poltrona. Di solito il Mahatma si sedeva a meditare nella sua stanza, ma quando la lasciava per fare il bagno, più di una dozzina di donne vi entravano e rapidamente spazzavano, lavavano il pavimento e sistemavano la poltrona. Tutti i devoti erano desiderosi di servire in qualche modo questa grande anima.

    In pochissimo tempo il numero dei devoti era aumentato di parecchie centinaia. Tutti venivano regolarmente all’ashram per il Darshan e il servizio. A tutti era permesso avere il Darshan a un’ora stabilita del mattino o del pomeriggio. Anche il servizio doveva essere terminato entro un certo orario. Eccetto che per pochi discepoli, a nessuno era permesso entrare nella stanza di meditazione del santo. La maggior parte si riteneva soddisfatta del Darshan a distanza. La porta della stanza di meditazione restava aperta giorno e notte, quindi chiunque poteva vederlo almeno dall’entrata senza alcuna difficoltà.

    La serena personalità del Mahatma aveva un magico effetto. Nessuno entrava in contatto con lui senza subire l’influenza del suo fascino. Le persone erano incantate dal suo carisma. Sebbene non avesse mai dato una regola per la gestione dell’ashram, tutti i suoi discepoli sapevano esattamente cosa dovevano fare. La disciplina e la santità dell’ashram non erano mai turbate e ognuno faceva la propria parte in modo disciplinato, sorridente e gioioso.

    Il Mahatma spesso persuadeva i suoi discepoli con niente più di un dolce sorriso e occasionalmente con poche parole. Di solito non parlava con nessuno senza una ragione particolare e quando succedeva, finiva sempre la conversazione entro pochi minuti. Inoltre conversava con le persone sempre nella loro lingua madre padroneggiando qualunque idioma con disinvoltura e scioltezza, invece quando si rivolgeva a un’assemblea, preferiva parlare in hindi. Sebbene raramente tenesse discorsi, ognuno rimaneva affascinato dal suo modo di parlare ricco di saggezza. I suoi sermoni erano colmi di concrete e sane verità.

    Il Mahatma trattava Bapuji molto bene e lo abbracciava come un figlio prediletto. A motivo di questa particolare benevolenza, il cuore del discepolo era colmo di gioia e vi era una nuova atmosfera intorno a lui. Il Mahatma stabilì che Bapuji fosse direttore dell’ashram e benché fosse investito delle responsabilità di badare all’organizzazione, non doveva fare alcun lavoro per adempiere a questa mansione. C’erano molti devoti volontari desiderosi di assecondare le sue richieste.

    Egli doveva solo assegnare loro il lavoro e sorvegliarne l’esecuzione. Qualche volta trovava difficile distribuire compiti a ogni persona, perché tutti gareggiavano tra loro per servire. Ma ognuno lo rispettava e gli ubbidiva perché, quando non c’era, il Mahatma usava dire: Swami è il mio discepolo più importante. Questa era una ragione più che sufficiente perché tutti avessero grande stima di lui.

    Un giorno, non appena il Mahatma accarezzò il capo di Bapuji, il giovane discepolo fu così colmo di gioia che disse: Tutti i devoti venendo qui all’ashram ti chiamano Gurudev. Ho domandato a molti di loro il tuo nome come sannyasi, ma mi hanno risposto: ‘Non lo sappiamo. Egli è Dio incarnato, fatto persona e può avere infiniti nomi. Tutti i nomi composti da ogni lettera dell’alfabeto sono il suo nome’. È detto nelle sacre Scritture che il nome del Guru è il più grande mantra per un discepolo. Io desidero conoscere il tuo. Per favore, dimmi il tuo vero nome. Ho intenzione di cantarlo come un mantra.

    In questo caso, canta il Pranav mantra OM¹⁷, disse il santo.

    Pranav è il tuo nome?

    A cosa ti serve sapere il mio nome? Se ciò che desideri è fare japa, allora il Pranav mantra è il migliore.

    Sia una persona che vive nel mondo, che un rinunciante, debbono avere un nome. Quando è necessario, mi chiami ‘Swami’. Allo stesso modo, anche noi abbiamo questa necessità.

    È vero. Il mio nome è Pranav.

    Fu così che Bapuji apprese e quindi disse a tutti i discepoli che il nome del loro Guru era Swami Pranavanandaji.

    Il grande santo Pranavanandaji fu quindi il Guru di Babuji e il Dada Guruji (il Guru più importante) dell’autore di questo libro. A questo grande santo ci si riferirà in futuro come Dadaji.

    LA DISCIPLINA DELLO YOGA

    Le indicazioni che Dadaji dette a Bapuji comprendevano quanto segue:

    – Accetta l’esistenza e l’unicità di Dio;

    – Osserva i codici morali di condotta conosciuti come Yama e Niyama¹⁸ al meglio delle tue possibilità;

    – Pratica la moderazione, il comportamento virtuoso, il servizio, la fede, l’autoanalisi (introspezione) e l’impegno al dovere;

    – Studia le sacre scritture e frequenta persone sante;

    – Prega, canta gli inni, recita i mantra e pratica la devozione a Dio;

    – Pratica le asana, il pranayama e la meditazione;

    – Osserva il silenzio e la solitudine.

    Mentre spiegava i testi yogici, Dadaji spesso insegnava tecniche yoga a Bapuji e una volta gli disse:

    "Figlio mio, se tu vuoi essere uno yogi di grado elevato, in aggiunta ai testi yogici devi studiare l’ayurveda¹⁹, l’igiene e la psicologia. La conoscenza di queste scienze ti farà progredire più facilmente sul percorso dello Yoga."

    Bapuji mise subito in pratica tale suggerimento. Tra i devoti di Dadaji vi erano alcuni importanti dottori e un vaidya esperto di ayurveda, quindi cominciò sistematicamente a imparare da loro l’anatomia, la fisiologia e l’igiene. Dadaji prese inoltre accordi con un esperto psicologo affinché gli insegnasse anche la sua materia. Così la sua formazione gradualmente si ampliava.

    Ogni giovedì pomeriggio il cancello principale dell’ashram rimaneva aperto dalle 15 alle 18 così che, sia i visitatori esterni, che quelli che lo seguivano regolarmente, potessero vedere Dadaji. Questo Darshan settimanale era tenuto in una stanza appositamente preparata per tali occasioni.

    Un giovedì un giovane sadhu (rinunciante) venne all’ashram. Egli, in piedi davanti a Dadaji con le mani giunte, chiese:

    "Santji²⁰, sono interessato allo yoga. Desidero comprenderlo a fondo. Sono venuto perché so che tu sei uno yogi realizzato. Al momento sto praticando alcune asana e del pranayama. Recito i mantra e faccio meditazione, ma non sono soddisfatto né ho avuto alcuna realizzazione. Per favore, sii così gentile da darmi l’iniziazione shaktipat²¹."

    Dadaji disse:

    "Poiché hai ricevuto l’iniziazione come sannyasi²², devi avere il tuo proprio guru. Sarà più appropriato ottenere da lui l’iniziazione shaktipat."

    Il sadhu replicò: Il mio guru non c’è più. Ho incontrato altri yogi, ma finora nessuno ha ispirato in me un’intima fede ed è per questo che mi sto rivolgendo a te. Spero che non mi deluderai.

    Dadaji disse: Bene, puoi continuare con la pratica delle asana e del pranayama. Questi sono i passi iniziali per ricevere l’iniziazione shaktipat. Dovrai lavorare più duramente e con perseveranza per poter ricevere questo particolare tipo di iniziazione, poiché può essere data solo a quei ricercatori che sono veramente desiderosi di raggiungere la liberazione. Dovrai dare prova del tuo valore per questo. Coloro che non sono all’altezza non possono essere guidati in questa direzione.

    Dadaji gli aveva semplicemente detto la verità, ma poiché il sadhu era pieno di impurità, si irritò e parlò sgarbatamente: Non sei uno yogi realizzato. Un santo è colui che converte persino una persona indegna in un essere degno e lo inizia. Egli mai deluderebbe un aspirante.

    Dadaji non fu per nulla turbato da queste parole, ma rimase calmo e tranquillo mentre Bapuji, che stava vicino a lui, si adirò. Afferrò il sadhu per il polso e iniziò a trascinarlo fuori dalla stanza. Poiché aveva mostrato totale irriverenza verso Dadaji, decise di condurlo fuori perché fosse bastonato. Ma quando si mosse verso la porta, Dadaji con calma gli disse: Swami, per cortesia, porta il santo nella tua stanza e con gentilezza offrigli frutta, latte e dolci poiché non ha ancora mangiato. Disponi inoltre che gli venga dato un dono prima della sua partenza.

    Dadaji insegnò quindi a Bapuji a ricompensare un uomo che lo aveva insultato, a offrire un dono piuttosto che una maledizione. Le sue parole ebbero un magico effetto su di lui: si calmò immediatamente lasciando andare i polsi del sadhu. Lo condusse amichevolmente nella sua stanza e gli offrì latte, frutta e dolci. Quando l’uomo partì, gli fu dato un dono ed egli lasciò l’ashram sentendosi pienamente soddisfatto.

    Osservandolo mentre si allontanava, Bapuji rifletté: Che anima sfortunata! Dopo aver molto girovagato, il destino lo ha condotto da uno yogi realizzato, ma a causa di un accumulo di azioni malvagie compiute nel passato, di una cattiva sorte e un falso orgoglio, non è stato capace di riconoscere un super-uomo come Dadaji! Chissà per quanti cicli di morte e rinascita continuerà a girare!.

    Nell’atteggiamento di Bapuji avvenne un notevole cambiamento: la compassione prese il posto della collera. Naturalmente non era altro che il risultato della grazia di Dadaji. Si pentì sinceramente per l’atteggiamento errato che lo aveva indotto a pensare di bastonare il sadhu, ma ancor più perché era il primo discepolo di un grande santo come Dadaji! Il fuoco del pentimento bruciò le sue impurità mentali e si sentì felice. Grazie a questo episodio, Dadaji insegnò a Bapuji la difficile lezione dell’autocontrollo.

    Ogni giorno da duecento a trecento devoti visitavano l’ashram. Dadaji non domandò mai il nome ad alcuno, eppure conosceva tutto di loro. Ogni volta che parlava a qualcuno gli si rivolgeva chiamandolo per nome. Fra questi c’era una donna di ottanta anni chiamata Meenaxi che ebbe, con grande gioia, la sua prima occasione di servirlo. Mentre lavava i suoi vestiti pensò come sarebbe stato bello se lui l’avesse chiamata per nome. Dopo aver steso i panni ad asciugare, andò nella stanza di Dadaji, si affacciò alla porta e si inchinò verso di lui a distanza. Appena si girò per andarsene, egli la invitò con un gesto. La donna era completamente elettrizzata. Per la prima volta era alla sua presenza e non appena si inchinò, egli le carezzò affettuosamente il capo bisbigliando dolcemente: Il tuo nome è Meenaxi, non è così?. Ed ella fu inondata di gioia.

    Dadaji poteva leggere nella mente degli altri e sondarne i pensieri più profondi tanto facilmente quanto le persone istruite sapevano leggere libri. Per via delle loro esperienze personali con lui, molti dei suoi devoti erano consapevoli di questo.

    Un giorno Laxmichand Seth stava dicendo ad altri discepoli: Ho fatto fare questa altalena d’argento appositamente per Dadaji. Se egli volesse sedervisi anche solo per due minuti, mi sentirei incredibilmente fortunato. Ma il problema era quello di trovare qualcuno che osasse chiedere a un tale rinunciante di sedersi su un’altalena d’argento. Dadaji era così distaccato dalle cose mondane che tutto quello che egli possedeva erano due vestiti color zafferano e un kamandal. Poiché Bapuji era il suo favorito, tutti i discepoli consigliarono a Laxmichand Seth di rivolgere a lui tale richiesta. Credevano che se si fosse occupato lui di questa faccenda, Dadaji non si sarebbe mai rifiutato di accontentarlo.

    Il giorno dopo Laxmichand Seth si avvicinò a Bapuji e con voce esitante disse: Swami, è desiderio del mio cuore che Gurudev segga sulla mia altalena d’argento anche solo per un momento. Mentre diceva questo, le lacrime uscirono dai suoi occhi mostrando quanto grandi fossero il suo timore e la sua speranza!

    Per sua natura Bapuji era una persona molto sensibile. Vedendo le lacrime negli occhi degli altri, spesso piangeva a lungo provando una profonda compassione. Disse: Va bene, pregherò Guruji che ci faccia questo favore.

    Laxmichand Seth aveva sistemato l’altalena sulla veranda. Bapuji entrò nella stanza di Dadaji seguito discretamente da altri discepoli, gli porse i suoi saluti e fece la sua richiesta: Gurudev, il tuo caro discepolo Laxmichand Seth ha portato un’altalena d’argento per te affinché ti ci segga. Puoi farci questo favore sedendoti su di essa solo per qualche minuto? Vogliamo che tu la benedica con il tuo sacro tocco. Questa è la nostra sincera preghiera.

    Quando Bapuji gli era vicino, la voce di Dadaji diventava soave e divinamente dolce. Gli chiese quindi con tono gentile:

    Davvero ti piace l’altalena?. Appena lo udì dire così, Bapuji si sentì estasiato. Entusiasta e fiducioso oltre ogni limite, disse:

    Oh, la amo immensamente. Se tu me lo chiedessi, mi ci siederei io stesso.

    Non era realmente sua intenzione farlo. Non lo aveva nemmeno mai pensato, ma in qualche modo le parole gli sfuggirono di bocca senza preavviso, come una freccia scagliata da un arco. Dicendo così, subito si accorse dell’equivoco e se ne rammaricò. Ma prima che potesse farne ammenda, Dadaji lo fermò, gli prese saldamente la mano e si diresse verso l’altalena. Tutti i discepoli li seguirono.

    Quando furono vicini, Dadaji cercò di farlo sedere ed egli resistette. Tentò invano di liberarsi dalla presa, ma venne costretto a sedersi e questo gli fece provare molta vergogna. A quel punto Dadaji gli indicò una formica che camminava sul cuscino

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