La professoressa da Ros
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Anteprima del libro
La professoressa da Ros - Paolo Del Conte
COLOPHON
Tutti i diritti riservati
Copyright ©2019 Oltre edizioni
http://www.oltre.it
ISBN 9788899932671
Collana *narrazioni
Titolo originale dell’opera:
La professoressa Da Ros
di Paolo Del Conte
Paolo Del Conte
Paolo Del Conte, nato a Milano nel ’53, frequenta il Liceo classico Berchet. Dopo la laurea conseguita presso L’Università Statale della sua città, insegna Lettere per circa quarant’anni, affiancando a questa attività quella di musicista, anche a livello professionistico, con varie formazioni nelle quali canta e suona la chitarra acustica.
SOMMARIO
Autore
Non per caso - Prefazione di Seba Pezzani
La professoressa Da Ros
Equinozio
Uno
Due
Tre
Quattro
Cinque
Sei
Sette
Otto
Nove
Dieci
Undici
Chinese Cafè
Miss Sbarre
Bridge
Ringraziamenti
NON PER CASO
Prefazione di Seba Pezzani
È passato un tizio che mi ha chiesto di lasciarti il suo numero di telefono. Dice che vorrebbe suonare con te. Dice anche che ha suonato con gente importante.
Ero in giro con un chitarrista americano da una decina di giorni, quando il commesso del negozio di dischi della mia cittadina, Fidenza, che ogni tanto sostituivo, mi disse queste parole, sorprendendomi e solleticando la mia curiosità. Vorrebbe suonare con me? pensai. Ma se non sa nemmeno chi sono. La gente è strana, d’accordo, ma non poteva aver sentito come suonavo o cantavo. Non c’erano dischi a mio nome da nessuna parte e gli anni di YouTube non erano nemmeno negli orizzonti creativi degli scrittori di fantascienza. Che ti costa una telefonata? in fondo, pensai.
E così, alzai la vecchia cornetta e chiamai Paolo Del Conte. Almeno il nome me lo aveva lasciato. E da quella telefonata nacque un’amicizia che merita di essere raccontata, ma che avrei raccontato – come peraltro a volte mi è capitato di fare – solo agli amici, se Paolo ora non fosse sugli scaffali delle nostre librerie con il suo primo libro ufficiale. Ricordo solo che, dopo un breve scambio di convenevoli – una delle tante cose che abbiamo in comune è il rigetto delle smancerie, della cerimoniosità finta – si affrettò a dirmi che, se avessi accettato di andare a trovarlo per capire se tra di noi potesse esserci una sintonia spirituale ancor prima che musicale, avrei dovuto accettare che la sua era una casa in cui aleggiava un dolore grande. Parole che mi riecheggiarono in testa sulle prime rampe della strada sui colli piacentini che presto avrei imparato a fare quasi a occhi chiusi, la strada che dai piedi del bellissimo borgo medievale di Castell’Arquato, porta a Monterosso, una costa verdeggiante dove il terreno si tinge di rosso ogni volta che si volta una zolla e dove, non a caso, le vigne la fanno da padrone. In questa casa aleggia il dolore.
Non una gran pubblicità, soprattutto per uno come me che, al tempo, a casa aveva la sua bella razione di guai. Eppure c’era un che di stuzzicante, un richiamo che andava al di là della curiosità e, di certo, della musica che, forse, avremmo potuto suonare insieme. Perché, come avrei sentito dire da Paolo tante volte, certe cose non capitano per caso
.
Inutile soffermarsi sulle nubi che si addensavano sulla mia e sulla sua casa. La casa dei Del Conte si trova alla fine di una strada sterrata e si chiama Big Pink
, come proclama un cartello di legno intagliato e verniciato dallo stesso Paolo, sulla porta di ingresso. Per chi non lo sapesse, Big Pink
era la grande casa rosa di Woodstock che faceva da alloggio, sala prove e laboratorio creativo per The Band, una delle formazioni più innovative, eleganti e profonde nella storia del rock, nonché il gruppo che accompagnò niente meno che il vate Bob Dylan in uno dei periodi più cruciali della sua carriera. Mica male come inizio
, pensai, mettendo piede nel suo sancta sanctorum, una stanza dall’illuminazione fioca, zeppa di chitarre acustiche – rigorosamente Martin – tappezzata di cartine degli Stati Uniti e foto di alcuni di quelli che, avrei presto capito, erano i nostri idoli comuni: lo stesso Dylan, il supergruppo Crosby, Stills, Nash & Young, Joni Mitchell, solo per citarne qualcuno.
Bastò quell’incontro e, forse, bastarono un abbraccio, due note suonate sulle nostre chitarre acustiche e poche parole per mettere immediatamente in chiaro una sintonia sorprendente. Perché una cosa nei lunghi anni di musica l’ho imparata: puoi condividere passioni identiche, ma, se non c’è una visione umana comune, l’arte non basta. Certo, cantare e suonare insieme, soprattutto suonare con le chitarre acustiche e cantare a tre voci, con un altro amico comune, è un’esperienza magica, in certi momenti quasi trascendentale, ma per avere un’autentica armonia vocale ci vogliono cuori che battano insieme.
A distanza di tanti anni, posso dire che le cose che hanno tenuto viva la profonda amicizia nata fra me, da una parte, e Paolo e la sua famiglia, dall’altra, esulano dalla semplice musica. Ancor oggi, visito spesso la nostra Big Pink
e, inevitabilmente, si parla di tutto, dalla politica, al calcio, alla passione comune per la Juventus – già, non si può piacere a tutti – all’America e alle banalità quotidiane della vita. Dimenticavo, di cultura nel senso migliore del termine. Cos’hai letto di bello, ultimamente?
Hai un bel disco nuovo da consigliarmi?
Il film che ho visto l’altra sera mi ha deluso." E via dicendo.
Ed è da conversazioni come quella che ho scoperto che l’amico Paolo, per anni stimatissimo e amatissimo professore di lettere in una scuola media, è un indiscutibile talento letterario. Delle sue virtù musicali, ovviamente, già sapevo. Paolo è un po’ un uomo d’altri tempi, uno che tende a schermirsi, a non mettersi mai sul piedistallo. Eppure, negli anni Settanta, il suo trio acustico si fece conoscere a Milano e non solo per aver abbracciato sonorità acustiche poco consone alla musica italiana, facendosi notare da alcuni dei cantautori più in voga al tempo e giungendo a due passi da un importante contratto discografico, con un progetto sostenuto da Pietruccio Montalbetti dei Dik Dik. La chitarra acustica di Paolo Del Conte, peraltro, figura in alcuni dei migliori LP di Lucio Dalla, Ron, Bruno Lauzi e altri ancora. Qualcuno forse ricorderà una puntata storica de L’altra domenica
di Renzo Arbore in cui Lucio Dalla e Francesco De Gregori presentarono Ma come fanno i marinai
live da Bologna: Paolo appare con la sua Martin. Ma, musica a parte, dicevo che la vera sorpresa sono stati i suoi scritti. Quando, un annetto fa, scoprii che si era messo a concepire una serie di racconti e me ne fece leggere alcuni, vi ritrovai immediatamente una qualità letteraria non comune. Devo dire che lo feci con una certa invidia, perché io stesso non sarei mai in grado di scrivere ciò che scrive lui. La sua unicità sta certamente nell’approccio, nostalgico e pratico al tempo stesso, con un costante ritorno a un periodo della sua vita, i tardi anni Sessanta e i primi anni Settanta, che furono prodighi di vibrazioni nuove, di slanci libertari e di grandi aspirazioni generazionali. Ma c’è molto più di un semplice richiamo dei giorni di scuola, di amici persi o ritrovati, di insegnanti d’altri tempi e, soprattutto, di ribellioni giovanili. Paolo Del Conte è un autore vero, un narratore DOC che, come spesso accade, per un puro gioco degli incontri non è rimasto nell’oblio dell’anonimato.
C’è tempo, Paolo. Il bello deve ancora venire.
Chi avrà la voglia di aprire il suo libro, avrà pure la fortuna e il piacere di perdersi tra le pagine e di sperare che l’oblio rischiato si trasformi in una successione di grandi storie per tutti. Questo è solo l’antipasto.
(Fidenza, Aprile 2019)
LA PROFESSORESSA DA ROS
Ai miei compagni del Liceo-Ginnasio Giovanni Berchet
Galleggio in uno stato di coscienza intorpidita, nel moto ondulatorio e sussultorio del vagone che mi trasporta lontano.
Il finestrino lentigginoso di pioggia filtra il paesaggio macchiato da qualche strappo di sole che ruba la scena alla cappa nuvolosa padrona fino a poco prima e che ancora riprende possesso del territorio alternandosi al rosso che fra poco sparirà dietro le colline.
Mi trasporta lontano da che?
Ho passato la giornata nella mia città di un tempo, per luoghi e strade consuete, nel flusso colorato di persone incrociate, scansate, urtate. Strade consuete di un tempo. Ora desuete.
Quale tempo? Un tempo passato remoto; non dico trapassato per non inciampare nell’inciampo dell’accezione linguistica. Passato remoto è un sacco di tempo lo stesso.
Ora che il sole occhieggia arancio sui crinali là in fondo verso ovest, gli alberi e i campi e le case riprendono colore, spennellate strisce diagonali e velature sapienti emergono dal marrone fradicio di prima. Ma sono io quello fradicio di pioggia, me la sento penetrata fin sotto i vestiti, gocciola silenziosa nel collo, scende, la sento fredda giù lungo le gambe a inzaccherarmi le scarpe. Forse è il cielo che mi ha trasmesso il suo stato d’animo. Lui poi è cambiato. Io sono rimasto plumbeo.
Guardo dritto fuori dal finestrino e i colori si mescolano in una tavolozza che cambia rapidamente. Allora guardo obliquo e distinguo i particolari, ma fra poco sarà buio, e tutto diventerà blu. Blue. Potrei dire blue senza paura di inciampare nell’inciampo di una traduzione inappropriata.
Blue è blue. Potrei dire, mentre nella carrozza si accendono luci fioche che accentuano quel blue dentro che si confonde col fuori, e ora sì che mi sento tutt’uno con treno sedili e paesaggio. Socchiudo gli occhi per individuare il mio interlocutore e intanto ondeggio al ritmo tu tum-tu tum,tu tum-tu tum.
D’un tratto dal finestrino mi fa: che vuoi?
Solo parlare. Dire.
E allora avanti, dimmi
Potrei dire acqua che batte sui vetri nel tardo pomeriggio di settembre quando nell’aria pesa già quel grigio autunno medio che prelude alle giornate spezzate dell’inverno.
Ma no…Non rende bene. Che ci fa quella magnifica distesa di colori che traspare tra gli aghi di pioggia?
Che ci fa? Ci fa che mi riporta a settembre, prologo delle giornate azzoppate dell’autunno, e settembre è un mese di mezzo…un mese in cui pensare. Ecco che ci fa. Ok?
Potrei dire… quella musica che Joni canta con la tristezza nelle corde; quelle vocali, della chitarra, dell’anima, che mi attraversa da capo a piedi lasciandomi con un tuffo di lacrime nel cuore, steso nell’estasi di una bellezza soprannaturale.
Bellezza soprannaturale? Che c’entra con la malinconia?
C’entra, c’entra! dico io. Ma l’altro ribatte che non ci sta proprio. E io che speravo che quello mi chiarisse le idee e invece sono qua più confuso di prima. Una malinconia bellissima allora, insisto. Che mi fa venire quel groppo alla gola…
Silenzio.
Allora…potrei dire partire nel pallore del mattino per andare al lavoro e lasciare a casa il mio amore stupendo, i suoi capelli rossi morbidi di sonno sul cuscino, e portarmi nelle tasche quel sorriso per tutta la giornata e pensarci e pensarci e pensarci.
Il tuo amore stupendo? No, no, no, non ci sta neppure adesso! Che malinconia e malinconia! È
il tuo amore stupendo al presente, non era
il tuo amore stupendo al passato; ripeto: presente indicativo! la realtà sì o no?
Beh sì, e allora? Non si può provare malinconia per il tempo presente che si trasforma in passato, perché il presente diventa passato, lontano dal tuo amore stupendo?
No, no. Il tuo amore stupendo è sempre là e quando torni lo rivedi e lo riami e lo accarezzi e ritorna presente, anche se quando ci pensi per te è passato e poi diventa futuro e poi ridiventa presente. Non ci sta.
Cazzo, ma allora rompi! E se dico della vita che per viverla mi scava un solco nell’anima che mi fa troppo male quando va più a fondo e io non ci posso fare niente perché tanto devo vivere quello che viene e non quello che vorrei, tranne qualche volta, ok, ma di solito è vita ad ogni angolo che giri e te la giochi con le carte che hai e non puoi sapere se…
Basta! Stai solo sproloquiando, che c’entra con la malinconia tutta sta pappa che hai mescolato brodaglia immangiabile?
Hai ragione, forse ho confuso malinconia con nostalgia. Sì, del minestrone arancione che faceva mia madre. Ci metteva la zucca e il concentrato di pomodoro. Però così mi porti fuori tema, che brodaglia immangiabile? A parte che era buonissimo… è la vita sì o no quella di cui sto parlando?
Appunto, dice quello, la vita, la vita. La stai vivendo. Che vuoi di più?
Semplice, la vorrei senza malinconia. Anche se… per aspera ad astra
forse c’entra qualcosa, oppure sono solo fissazioni che mi porto appresso dal liceo?
Perasperadastra! Sembra uno scioglilingua, o un’offesa omofoba! A mattooo…e poi non ci sta neppure questa visto che perasperadastra non è detto che generi malinconia, semmai difficili ostacoli da superare, delle prove complicate da