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Quello che non so di te (Collana Literary Romance)
Quello che non so di te (Collana Literary Romance)
Quello che non so di te (Collana Literary Romance)
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Quello che non so di te (Collana Literary Romance)

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About this ebook

Samantha non conta più le volte in cui si è precipitata al Pronto Soccorso. Del resto, da anni ormai le parole più usate in casa sua sono “ipocondria” e “psicosomatico”, al contrario di “mamma”, la meno menzionata.
Proprio durante uno di questi momenti resta chiusa nell’ascensore dell’ospedale con un medico dagli occhi dello stesso celeste del camice, il solo capace di ritinteggiare di un bel corallo le pareti verdognole del nosocomio. Giulio, questo il suo nome, sembra capitare a proposito, perché Sam ha giurato a se stessa che sposerà un dottore, convinta che solo così potrà guarire dalla sua ipocondria.

In una Milano estiva, tra corse al triage e menzogne velate; con una coinquilina chiassosa e due sorellastre che sembrano la copia di Anastasia e Genoveffa, riuscirà Sam a nascondere la sua vera natura di malata immaginaria? E Giulio potrà amarla nonostante tutte le sue fissazioni?
LanguageItaliano
PublisherPubMe
Release dateOct 10, 2019
ISBN9788833663579
Quello che non so di te (Collana Literary Romance)

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    Quello che non so di te (Collana Literary Romance) - Francesca Redolfi

    colombre)

    Capitolo 1

    Verde.

    Colore della natura,

    della rinascita e della vita. 

    Nelle sue accezioni positive simboleggia

    abbondanza, generosità, salute,

    ma anche fortuna pura, rapida e inattesa.

    Verdognolo. Il colore di queste pareti è verdognolo.

    E non importa se il tizio che negli anni Venti ha avuto la malsana idea di scegliere questa scialba tonalità per gli ospedali lo chiamasse verde riposante. Resta comunque verdognolo, signor Flagg. Quanto mi sarebbe piaciuto scambiarci qualche spassionato consiglio da grafica. Serve un colore più brillante gli avrei detto, qualcosa di allegro, signor esperto-di-colori. Che so, un bell’arancione.

    Che già stare nella sala d’attesa di un Pronto Soccorso è a prescindere un supplizio.

    Comunque. Sono dettagli.

    Del resto, si ha molto, moltissimo tempo da spender dietro a dettagli inutili quando si trascorrono tante ore qui, in attesa. Lunga, quasi perenne attesa.

    E per fortuna sono ben attrezzata. Ho affinato nel corso del tempo l’arte di stare ad aspettare al meglio detto P.S., come l’appendice in fondo al testo, perché più o meno ogni mia pagina ha sempre quel Post Scriptum finale. Infatti, io sono, per gran parte della vita, una che attende. Sono sempre en attendant – la visita però, non il Godot del libro.

    Per affrontare al meglio questo momento, che come un rewind tende a ripetersi svariate volte nella mia esistenza, ho imparato che ci sono un paio di regoline da rispettare. Primo, avere un buon libro, uno di quelli a lieto fine e che facciano anche ridere un po’, giusto per distrarsi dal senso di morte imminente che spesso si avverte stando qui, tra queste pareti verdognole, sig. Flagg. Poi, una nutrita playlist di Spotify. Lo smartphone e, se va di lusso che me lo ricordo, pure il caricabatterie. Fazzoletti, in caso di pianto improvviso. E poi le salviette disinfettanti, meglio ancora l’Amuchina – non oso pensare a quanti germi ci siano in un ospedale. Ma sono sicuramente tanti –. Ah, e naturalmente serve essere vestiti comodi. Non come me oggi, che indosso quelle mutandine fluo che mi hanno regalato Elia e Lara al compleanno e che mi danno un fastidio da morire costringendomi a contorsioni da funambolo sulla sedia.

    È che sono venuta qua di corsa, e non ho fatto neanche in tempo a cambiarmi. Che poi non è che al P.S. ci si vada mai con tanta calma. Ero uscita dall’ufficio al mio solito orario, e zac, ho sentito quel colpo improvviso all’altezza dello stomaco. Al momento l’ho ignorato con risolutezza: "Non ti ho sentito, stomaco. Mi spiace. Sono distratta da altro. Sono concentrata su altro".

    Ma poi, mentre andavo a prendere lo scooter, ancora zac, quel dolorino. Ti ignoro ho ripetuto, non ti sento. Però ho iniziato a sudare freddo. Che sia un infarto? Può prendere lo stomaco, ne sono certa, l’ho letto e mi sono documentata a fondo su Google. Alla quarta fitta, sopraggiunta mentre indossavo il casco, ho deciso che non potevo rimandare. Dovevo andare al P.S. Per forza. È un imperativo categorico: alla quarta fitta non puoi dire di no.

    In ospedale sono arrivata trafelata e disperata come ogni volta. Al triage mi hanno fatto le solite domande, e c’era quella infermiera grassoccia che mi fissava con tutta l’aria di avermi riconosciuta e intanto ripeteva la routine di sempre con tono da biglietteria automatica: Cosa sente, scala di dolore da uno a dieci, titolo di istruzione....

    Che cavolo c’entra, poi, il titolo di istruzione? Se avessi la terza media non mi fate passare? O forse, chissà, entrerei prima? Devo sperimentarlo, la prossima volta. Forse se sei laureato hanno la stramba idea che sei uno abituato a cercare random le cose su Google e ti precipiti qui per ogni minima scemenza. Il che, beninteso, non è il mio caso.

    Io ho sempre avuto ottime ragioni per andare all’ospedale.

    Per tutti i duecentosedici accessi che ho fatto nel corso della mia vita, c’erano sempre dei motivi validi. Validissimi.

    Tipo quella volta che mi ero chiusa il dito nella porta e l’unghia era diventata nera e temevo andasse in necrosi. O il giorno che sono caduta dal motorino, bè, lì era dannatamente serio. Ho ancora la cicatrice sul gomito sinistro, nonché la fobia di andare a più di sessanta all’ora. Potrei morire, se andassi a più di sessanta all’ora. E come non ricordare la volta in cui ho avuto la gastroenterite e mi hanno fatto una flebo perché ho rischiato di disidratarmi (in realtà, le infermiere mi hanno detto che non ho davvero rischiato, ma mettiamo il caso fossi andata avanti così per qualche giorno, di sicuro sarebbe successo).

    E poi, io pago le tasse, fino all’ultimo centesimo. Non sono come quegli evasori che hanno i milioni sui conti in Svizzera e poi usufruiscono degli ospedali italiani facendosi beffe di noi contribuenti. Io sono un’onesta cittadina che usa le strutture in maniera coscienziosa. Aspetto rigorosamente il mio turno, anche a costo di attendere ore e ore. Il mio record personale è dodici ore, nelle vacanze di Natale di qualche anno fa, quando c’era il picco dell’influenza, e invece io ero lì per un dolore al torace. Molto serio.

    «Samantha Ascani.»

    Ci siamo. È il mio turno. Sollevo lo sguardo e avverto la consueta fitta di tensione mentre mi dirigo verso l’infermiera, una bionda di mezza età dall’aria piuttosto burbera. La riconosco, l’ho già vista altre volte. Mi auguro però che lei non riconosca me. Non è mai piacevole essere additate come la solita o la sciroccata che va sempre al Pronto Soccorso.

    Cerco di stabilire un contatto oculare e di accattivarmela con un sorriso rassegnato del tipo che ci vogliamo fare! Eh sì, sono ancora qui, ma lei resta impassibile. La seguo oltre le porte automatiche e vengo accolta dal consueto odore del disinfettante. Guai in vista dice quell’odore asettico, che se avesse un colore sarebbe verdastro, sig. Flagg, come le pareti, guai seri in arrivo, Sam.

    Arriviamo dal medico e mi sento già meglio. Anche se, a un’occhiata più attenta, noto che dietro agli occhialetti ha l’aria piuttosto stanca. Del resto, sono le dieci di sera. Sarà abbastanza scrupoloso? Magari ha la testa fusa dai troppi pazienti e non mi presterà l’attenzione che merito, liquidandomi in poche parole, per giunta in un oscuro burocratese.

    «Allora...» Il medico scorre delle carte. «Lei è qui per...»

    «Il cuore» mi affretto a dire. «Sono qui per il cuore

    Il dottore aggrotta la fronte e l’infermiera bionda, accanto a lui, mi scruta con aria diffidente. Accenno un mesto sorriso, ma lei non ricambia, fredda come un ferro chirurgico.

    «Qui leggo: Stomaco.» Il medico alza uno sguardo occhialuto e interrogativo su di me.

    «Sì, il dolore parte dallo stomaco, ma sono certa che è il cuore. Sa, no, quando si ha un infarto. Si hanno bruciori di stomaco. Sono sintomi... chiari» ripeto, incespicando. Il dottore mi guarda perplesso. Forse pensa che sono anormale. E un po’ avrebbe anche ragione. Un po’.

    «O di indigestione, magari» si limita a dire. Poi si rivolge all’infermiera. «Facciamo un ECG per sicurezza.»

    Senza rivolgermi la parola, la tipa srotola la carta del lettino e mi fa cenno di sdraiarmi. Sii razionale, Sam, mi dico, sentendo i battiti a mille. Cerca di stare tranquilla. Se hai un infarto, questo è il posto migliore dove potresti essere. Sei in ospedale. Qui salvano vite ogni giorno. Qui sanno quello che fanno.

    Entra un’altra infermiera che mi guarda con aria interrogativa e la collega acidula mormora qualcosa a bassa voce, dandomi le spalle. Lo so cosa le stai dicendo, infermiera. Che sono una paranoica, che sono già stata qui altre volte eccetera eccetera. Sarei quasi contenta se avessi davvero un infarto in corso (per modo di dire) per farle vedere che non mi sto inventando le cose. Perché io sto davvero male. Voglio proprio vedere come si sentirà in colpa Miss Acidità quando capirà di aver sottovalutato la cosa. Avrai rimorso per tutta la vita, signora infermiera antipatica.

    La tipa che necessita di Malox a un certo punto decide di smettere di parlarmi alle spalle e sembra ricordarsi che è sul posto di lavoro. Torna da me, mi posiziona elettrodi appiccicosi come post-it su tutto il corpo e mi chiede conferma del nome. Verdastra mi viene da pensare. "Questa donna ha la voce verdastra. Come le sue pareti, sig. Flagg".

    Trattengo il respiro, tesa come un pesce preso nella rete. Ora inizierà l’esame. Ora scopriranno che... Ora troveranno...

    «Tutto a posto» mormora atona la bionda, estraendo l’elettrocardiogramma dalla macchinetta.

    «A posto?» ripeto, incredula.

    «Le pulsazioni come sono?» chiede il medico.

    «Centoventi.»

    Ecco. Sono altissime. Lo sapevo. Sto per morire.

    «Sono un po’... agitata» dico con voce strozzata.

    Il dottore tamburella con la penna sulla scrivania, poi si alza, mi si avvicina e inizia a toccarmi lo stomaco. Io chiudo gli occhi e penso alla morte. No, alla morte no, Sam.

    Provo a immaginare di essere da un’altra parte, come mi ha insegnato a fare Cristina, la fidanzata del mio amico Elia, a figurarmi un’immagine positiva e rilassante. Spiaggia, mare, cielo terso. Visualizzare, lo chiama.

    «Le fa male qui? E qui?»

    «Uhm. No. È più... un dolore che va e viene. Una fitta.»

    È un infarto, vorrei dirgli. Lo vuole capire? Guardo il medico, che ha l’aria concentrata dietro gli occhialetti. È troppo giovane. E se è appena uscito dall’università? Magari è il suo primo giorno in ospedale. E se mi lascia andare dicendo che non ho niente e poi stramazzo qui fuori?

    «Ahi!» esclamo. «Sento una fitta anche alla schiena, adesso.»

    Lui si acciglia e prende lo stetoscopio. Inspiro ed espiro attimi di paura color pece nera.

    «Allora» dichiara dopo quella che mi è sembrata un’eternità, «adesso vada nella sala d’attesa al piano di sopra. La chiameranno per una radiografia al torace.»

    Una radiografia. Significa che sospetta una roba seria. Tipo un tumore. Ovvero, il mio incubo ricorrente da vent’anni a questa parte.

    Deglutisco cento volte.

    «Ma va... tutto bene?» mi costringo a chiedere.

    Il dottore e l’infermiera si scambiano un’occhiata. Ecco, me lo sentivo. Sto morendo. E non me lo vogliono dire. Forse chiameranno al telefono un parente – cioè per forza mio padre – e gli diranno che gli devono parlare con urgenza. Il colore ocra dell’inquietudine colora di colpo la stanza.

    «Sì, è tutto a posto, ma considerato il dolore alla schiena facciamo una radiografia per sicurezza. Non si preoccupi» mi tranquillizza con un sorrisetto.

    Certo, dicono tutti così. Non si preoccupi, va tutto bene, stia tranquilla, anche se sei lì in punto di morte. Che ipocrisia. Tanto non sono mica loro a star male.

    Mi sistemo la maglietta, prendo le carte che mi consegnano e vado dritta all’ascensore. Conosco bene quest’ospedale, come tutti gli ospedali di Milano e provincia, del resto. Li ho girati tutti, a turno. A volte anche fuori provincia. Gli anni in cui papà e io andavamo in vacanza in Riviera avevo fatto conoscenza con tutti i nosocomi romagnoli. Ormai mi chiamavano per nome: Ehilà, Sam, ancora qui?

    Schiaccio il pulsante ed entro. Un istante prima che si chiudano le porte arriva di corsa un medico con un camice celeste e l’aria di avere una gran fretta.

    «Posso?» domanda.

    «Certo.»

    Il dottore entra nell’ascensore e si piazza in un angolo a guardare il telefono. Io mi controllo pigramente gli elettrodi e do un’occhiata all’orologio. Le 22.15. Domani la sveglia è puntata alle sei e mezza, perché in un probabile momento di disturbo dissociativo ho detto a Karin che sarei andata a correre con lei. Non credo proprio di farcela – ammesso e non concesso che sopravviva all’infarto –.

    È che Karin è così fissata con il fitness. E cerca sempre di coinvolgere anche me, seppur con scarsi risultati.

    Karin è la mia coinquilina, ed è anche piuttosto simpatica, con annesso asterisco e la dicitura assumere a piccole dosi. Il problema è quella sua stramba mania per la corsa e affini. Di rimando lei dice che sono fissata con gli ospedali e che sono ipocondriaca. Una parola che nella mia vita ho sentito ripetere innumerevoli volte.

    Ipocondria è la prima parola che gira in casa mia da vent’anni a questa parte. Psicosomatica la seconda. È di natura psicosomatica sentenziava ogni volta il medico con aria esperta quando mi visitava. Mamma, la parola meno usata.

    Comunque. La mia amica Lara, che mi conosce da sempre e che non prova particolare simpatia per la mia coinquilina fitness addicted, dice di lasciarla perdere. E io in qualche modo ci provo, anche se devo ammettere che non è facile e... D’istinto afferro la maniglia. Cos’è stato quel colpo?

    L’ascensore si ferma bruscamente con un sobbalzo.

    Mi guardo attorno, colta dal panico. Perché si è fermato? Il medico nell’angolo pare non essersi accorto di nulla. Sta guardando il suo palmare con espressione tranquilla, come se non fosse successo niente. Resto per qualche istante ipnotizzata a fissare le sue mani.

    Perché le porte non si aprono? Adesso devono aprirsi. Per forza. Cerco di restare calma, pensando che è solo questione di qualche istante. Conto fino a dieci. Niente.

    «Non si aprono» mormoro.

    «Come?» Il dottore alza lo sguardo e mi fissa. Ha i capelli scuri che gli ricadono sulla fronte e gli occhi dello stesso colore del camice. Per un secondo mi distraggo. Piacerebbe anche a me avere occhi così, e non del nocciola che mi trovo a spartire con la maggioranza della popolazione mondiale.

    «Le porte.» Indico freneticamente con la mano. «Non si aprono.»

    L’uomo aggrotta la fronte e guarda verso la pulsantiera. Seguo il suo sguardo. Il pulsante del primo piano è illuminato. Siamo arrivati, dunque. Ma siamo bloccati. Un brivido di paura mi attraversa con volute di fumo grigio.

    «Si apriranno» constata lui con tranquillità.

    «Dovrebbero già essere aperte, invece siamo fermi.» Incrocio il suo sguardo. «Siamo bloccati.»

    Lui mantiene la stessa espressione imperturbabile. Tipico dei medici, sono talmente assuefatti di adrenalina che non riconoscono più il pericolo neanche quando gli si para sfacciatamente davanti.

    «Aspettiamo» dice alzando le spalle con aria serafica. «Vedrà che tra poco si apriranno.»

    Mi rimetto a contare mentalmente. Stavolta fino a venti, ma le porte restano ostinatamente chiuse.

    «Non si aprono!» esclamo con veemenza, visto che il qui presente pare essersi alienato nei meandri dello smartphone. Pure lui è giovane, peraltro. Forse la sera fanno venire solo quelli appena usciti dall’università, a far pratica sulla pelle dei poveri pazienti infartuati come me. «Non si aprono! Le porte non si aprono per niente!» Vorrei sventolargli le mani davanti agli occhi: Ehi, lei! Non lo vede? Siamo nei guai! Siamo bloccati!.

    Vista la passività del tizio, decido di intervenire da me. Vado alle porte e cerco di aprirle manualmente, facendo forza. Non funziona. Sento il sangue che mi va alla testa.

    Forse avvertendo d’un tratto il pathos della situazione, il dottorino decide saggiamente di lasciar stare il palmare.

    «Non le forzi» suggerisce. Si avvicina e preme il pulsante del primo piano, poi quello dell’apertura delle porte, ma l’ascensore non fa alcun cenno.

    È andato in tilt. Questo maledetto coso è andato in tilt come il mio Mac quando apro troppe finestre.

    «Oh, cazzo» mormoro. Avrei voluto scegliere un’imprecazione più elegante, tipo oh, cielo, ma non mi esce. «Oh, cazzo» ripeto.

    Tra tutte le cause di morte che ho ipotizzato nella mia vita, – e sinceramente devo ammettere che sono parecchie –, mi mancava quella di rimanere chiusa in un ascensore fino all’agonia. Moriremo di asfissia. O disidratazione. Oppure i cavi si staccheranno e precipiteremo. Le pareti della cabina si fanno di colpo più strette, e ancora più verdognole, sig. Flagg.

    «Non si preoccupi» cerca di rassicurarmi il tipo. «Soffre di claustrofobia?»

    Già. Soffro di claustrofobia? Non lo so. Non ci ho mai pensato, ma in effetti, ora che ci faccio caso, può essere. Probabilmente sono anche claustrofobica, tra le altre svariate cose di cui soffro.

    «Forse» ribatto, cauta. «Comunque, non è piacevole per nessuno stare chiusi in un ascensore.»

    «No, certo. Proviamo con il pulsante d’emergenza.»

    Il pulsante d’emergenza, certo. Che però già la parola emergenza suona male, malissimo.

    E comunque, in tutto ciò, io non ho un fidanzato da chiamare. Non è giusto. Chiunque dovrebbe avere uno straccio di fidanzato da chiamare se si trova in una situazione tragica tipo questa.

    «Non rispondono.» La voce del dottore in camice celeste e gli occhi uguali interrompe i miei pensieri.

    «Non rispondono a un pulsante d’emergenza?» Sbatto le palpebre. «Ma sono pazzi

    «Provo con il cellulare.»

    «Ma se non l’avesse? Se ipoteticamente lei non l’avesse, come faremmo?» Lo fisso quasi con ferocia. Non so se lo sta capendo, ma sto incolpando lui, in quanto medico e quindi rappresentante di quest’ospedale dove le cose non funzionano, dove si rimane chiusi in ascensore e nessuno risponde al pulsante d’emergenza, oltre a non saper riconoscere un infarto perché prendono i neolaureati. Chissà che specialità avrà questo tizio. Potrà rianimarmi, se avessi un ipotetico infarto in corso? Lo scruto mentre è di nuovo concentrato al telefono. Non ha nessun segno distintivo. Sarà un cardiologo? Dubito. Con la fortuna che ho, al massimo mi sarà capitato un ginecologo.

    «Se non l’avessimo» replica intanto lui, mellifluo, «ci metteremmo a urlare finché qualcuno non ci sente. Pronto?» Si copre un orecchio con la mano. «Buonasera, siamo rimasti chiusi nell’ascensore.»

    Traggo un sospiro. C’è qualcuno, dunque. Qualcuno che sa che siamo qui, che esistiamo, che non siamo monadi sparse nell’universo. I contorni dell’ascensore, prima grigi, adesso sembrano più soffici. Il rosa pesca del sollievo.

    «Benissimo. Aspettiamo, allora» chiude la telefonata e alza lo sguardo. «Pochi minuti e saranno qui».

    «Speriamo» mormoro avvilita, sedendomi per terra con la schiena appoggiata alla parete.

    L’uomo resta qualche istante in silenzio. Giurerei che mi stia squadrando.

    «Ha atteso molto al Pronto Soccorso?» indica il braccialetto che mi hanno attaccato al polso.

    «Qualche ora. Stavo giusto salendo per fare una RX al torace. Sospettano un infarto.»

    «Un infarto?» sbatte le palpebre, tra il perplesso e lo scioccato.

    «Cioè... Non proprio. Devono indagare» dico, stando sul vago.

    Lui resta zitto, come assimilando le mie parole. «Speriamo non lo sia, allora.»

    Alzo le spalle, mimando indifferenza. Ormai, tra morire in ascensore o per infarto, che differenza c’è? Non so quale sia l’alternativa migliore, onestamente.

    «Io devo andare da mia madre, al secondo piano» aggiunge l’uomo, che a quanto pare sembra in vena di conversazione. Sarà uno di quei tipi che nel momento in cui cade l’aereo ti raccontano tutta la loro vita, tutti i loro segreti. «È ricoverata per una polmonite.»

    «Oh. Accidenti» dico, con una certa partecipazione.

    La polmonite è stato uno dei miei incubi ricorrenti l’inverno scorso. Temevo di averne una in corso, e ho implorato il medico di farmi tutti gli accertamenti possibili. Invece non l’avevo, per fortuna. Ma sono certa di averla schivata per un pelo, perché una mia collega l’aveva presa ed era stata a casa due mesi dal lavoro. Un incubo.

    «Già. Una brutta faccenda.»

    Segue un attimo di silenzio in cui mi compaiono davanti tutte le gradazioni dell’ansia. Tutte più o meno verdastre.

    «Secondo lei i cavi resisteranno?» non riesco a trattenermi dal chiedere.

    Lui mi guarda con aria perplessa, come se non capisse di che accidenti sto parlando. Poi, sul suo volto compare l’ombra di un sorriso. Ha un viso che colpisce, ora che ci faccio caso.

    Graficamente direi che è asimmetrico. Mascella decisa. Un naso importante, che forse gli conferisce quell’irregolarità, ma che nell’insieme gli dà un tocco particolare. Lo sguardo fermo, accentuato dall’arco pronunciato delle sopracciglia, risalta sulla carnagione di un paio di tonalità più scura della media caucasica. Non è proprio il cliché della bellezza angelica stile Leonardo Di Caprio, ma ha un qualcosa di attraente, direi cinematografico. Avrà sui trentacinque anni. Chissà se è cardiologo o ginecologo, o cos’altro.

    «Sono molto resistenti» conferma con una certa sicurezza.

    «E ci sarà abbastanza ossigeno, qui dentro?» butto lì con noncuranza.

    «Certo» replica con la stessa imperturbabilità.

    È chiaro, lampante, che quest’uomo sta sottovalutando il pericolo.

    «Perché sa» insisto, «io sarei la prima a morire, se non ci fosse abbastanza ossigeno. Come gli uccellini.»

    «Gli uccellini?» mi guarda dritto in faccia.

    «Sì. Quelli nelle miniere, ha presente? I minatori portavano sempre una gabbietta con un uccellino, perché se fosse mancato ossigeno sarebbero stati i primi a morire e loro avrebbero potuto salvarsi.» Scuoto la testa. «Povere creature.»

    Mi è sempre sembrata un’enorme ingiustizia, quella di portare gli uccellini nelle miniere. Insomma, avrebbero anche potuto scegliere animali meno simpatici. Tipo le lucertole. E poi, non avrei mai pensato che prima o poi avrei rischiato di fare io la fine dell’uccellino, chiusa in un ascensore.

    «E perché lei dovrebbe finire come gli uccellini?» mi fissa con un luccichio divertito nello sguardo. Cosa ci sarà di divertente? Magari quando si trova in un momento tragico o importante a lui viene la ridarella. Forse al suo matrimonio avrà riso tutto il tempo. D’istinto controllo le dita. Non ha la fede.

    «Perché sono più... piccola. È evidente.» Indico la sua persona, la corporatura non certo esile che si indovina sotto il camice.

    «Capisco» dice, lentamente. «Quindi sta incolpando me perché qui dentro sopravviverei più di lei.»

    «Non la sto incolpando. È un puro dato di fatto.»

    Il medico scuote la testa, giurerei che nasconde un sorrisino. Certo, per lui dev’essere un fuori programma divertente, da raccontare ai colleghi in sala operatoria. Quasi me lo immagino. Non sapete cosa mi è successo l’altra sera... dirà, intanto che tagliuzza qualcuno con il bisturi.

    «Vede?» indica la fessura tra le porte. «Da qui l’ossigeno passa. Possiamo sopravvivere entrambi.»

    Guardo la microscopica fessura, praticamente invisibile. Da lì passerà pochissima aria. Però, forse ha ragione. Devo essere più razionale. Me lo dice sempre anche papà: Sii razionale, Samantha. E poi, questo qui è un medico. Ha studiato. Queste cose le sa. Per forza.

    «È inutile farsi prendere dal panico» aggiunge, scrollando le spalle.

    «E allora, che facciamo?» domando stupidamente. Abbiamo già chiamato per l’emergenza. Non c’è molto altro da fare, in effetti.

    «Conversiamo.»

    Conversiamo? Forse lo spiegano ai corsi di aggiornamento dei medici. "Se rimanete chiusi in un ascensore con altre persone, non fatevi prendere dal panico. Socializzate".

    «Dunque...» si sfrega la barba appena accennata, «cos’ha in programma di fare domani?»

    «Lavoro» rispondo mestamente. «E dovrei uscire a correre con la mia coinquilina, ma non ne ho voglia.»

    «Correre fa bene.»

    «Sì... certo.» Mi trattengo dall’alzare gli occhi al cielo. Ovvio, come tutti i medici anche lui vede le cose solo in termini fanno bene-fanno male e non non ne ho per niente voglia-mi fa schifo correre.

    «Ma a lei non piace» constata, vedendo la mia espressione.

    «È solo l’orario» ribatto. «Le sei di mattina. Andiamo. Non è possibile affrontare una corsa alle sei di mattina. È... innaturale.»

    «Faccia come me, allora. Vada la sera.»

    Ah, ecco. Quindi questo qui è uno di quei rari medici che applicano davvero quello che dicono ai loro pazienti. Non come il mio, che predica di mangiare bene e fare attività fisica regolare e poi s’ingozza di supplì e pesa cento chili.

    «Sì, la sera sarebbe più conciliabile. È che... non ho costanza» confesso. «Magari un giorno ci vado, poi m’impongo di andare anche il successivo, e invece resto sul divano a guardare Game of Thrones.»

    Forse è venuta anche a me quella strana smania di spifferare tutti i miei segreti. Tra un po’ gli racconterò che indosso le mutande fluo che mi danno fastidio e che tengo ancora il mio orsacchiotto sul comodino come quando avevo sette anni.

    Intanto ho la malsana idea di alzare gli occhi verso la fessura dell’ascensore. Quanto durerà l’ossigeno? Quanto? I colori attorno a me virano dal verdastro, sig. Flagg, al nero pece.

    L’uomo rimane qualche istante a scrutarmi mentre io fisso la cabina e tutte le tonalità dell’angoscia.

    «Le servirebbe un personal trainer.» Per un istante mi volto a guardarlo, chiedendomi se lui abbia un personal trainer. Sembrerebbe proprio il tipo. «Oppure togliere la parabola di Sky.»

    Mi viene da sorridere. «Ah, quello è da escludere.»

    Lui ricambia il sorriso. «Quindi...» si schiarisce la gola, «lei domani non andrà a correre. E andrà al lavoro.»

    «Sì» confermo, con entusiasmo al minimo. «Sono una grafica.»

    Forse dovrei dire web designer. Fa più trendy. Dovrò tenerlo a mente la prossima volta.

    «Bello» esclama, e pare sincero.

    Farà parte di quelli che pensano che un lavoro come il mio sia un’assoluta figata. E sì, talvolta lo è. Ovvero quando il mio capo mi permette di sbizzarrirmi un po’ con la fantasia, e di fare qualcosa di veramente creativo. Il che capita circa una volta all’anno. Cioè quando devo progettare i volantini per la festa di compleanno di sua figlia. Tutto ciò non è molto gratificante, ma pazienza.

    «Sì. Bello... Diciamo a volte.»

    «Come tutti i lavori. Belli a volte» s’interrompe. «Pensi se non fossero belli nemmeno a volte. Pensi se fossero sempre e solo una noia mortale. Che tortura!»

    «Bè, credo che dopotutto ci si potrebbe adattare a fare qualsiasi cosa. La vita vera è fuori.» Mentre lo dico, mi sento scarsamente credibile. Quale vita vera? Certe volte mi pare di non aver mai iniziato a vivere davvero, di aver vissuto per anni e anni con le ali tarpate, sotto una cappa di vetro, vedendo gli altri che vivono cose che io non sono in grado di vivere, e fanno cose che io non riesco a fare.

    «E lei cosa fa nella vita vera?» domanda con un tono interessato. Forse pensa che faccia cose adrenaliniche come bungee jumping o extreme canyoning.

    «Oh, bè. Io...» Incontro Lara ed Elia. Vado da mio papà. Cerco su Google i sintomi che ho. Vado al P.S. «Io... vedo le mie amiche». Mi pare la risposta più sincera, anche se banale come il traffico sulla Milano-Laghi a Ferragosto. Infatti, lui sembra non accontentarsi della risposta. Oppure è memore del corso di aggiornamento: "Fate parlare le persone in preda a un attacco di panico. Fatele esprimere".

    «Che altro fa?» insiste. «Non so... lavora a maglia?»

    Eh? In quale epoca pensa che viviamo, questo qui, nell’Ottocento? Mi verrebbe quasi da ridere, non fosse che sto per affrontare una morte imminente per asfissia.

    Scuoto la testa. «Non so lavorare a maglia. Non so cucire nemmeno un bottone. E neanche stirare bene. Mi annoia.» aggiungo per dovere di cronaca.

    «Una donna d’altri tempi, insomma.»

    Gli lancio un’occhiataccia. A quanto pare sarò costretta a trascorrere i miei ultimi minuti di vita chiusa in ascensore con un maschilista, forse pure misogino. Ah, la fantasia del karma.

    «Però mi piace cucinare» mi difendo. «Quando m’impegno, sono anche piuttosto brava.» Ometto di dire che però quasi mai m’impegno.

    «E cosa cucina di buono?»

    Ci penso un po’ su. Di solito cerco di variare sempre quando cucino per Elia e Lara, sperimentando sulla pelle dei malcapitati come fossero cavie da laboratorio. Però c’è un piatto in cui sono particolarmente brava.

    «Dicono che le mie melanzane alla parmigiana siano insuperabili. Rigorosamente fritte, grondanti di sugo e mozzarella filante.» Seguo sempre per filo e per segno la ricetta di Giallo Zafferano, ed escono buonissime.

    «Vien voglia di assaggiarle» commenta lui.

    Apro la bocca e poi la richiudo subito. Chissà perché, mi stava venendo spontaneo dirgli che magari potrei cucinargliele, un giorno. Che assurdità. È chiaro che non lo rivedrò più e non cucinerò mai le melanzane per lui. Anche perché la fine dell’uccellino in miniera incombe drastica su di me.

    «E lei?» mi affretto a chiedere, prima di mettermi a straparlare per carenza d’ossigeno. «Lei cosa fa nella vita vera?»

    «Nella vita vera...» si strofina il mento con aria pensosa.

    Una voce maschile ci interrompe.

    «Siete qui dentro?»

    Oh, peccato. Ero proprio curiosa di sapere cosa fa nel tempo libero. Strano, ma il mio primo pensiero non è stato ci hanno trovati, siamo salvi, ora reciterò tre Ave Maria e un Padre Nostro per ringraziarti, Dio. Anzi, stavo quasi dimenticando dove fossi. Come se un velo color corallo avesse coperto tutti i colori angoscianti che provavo prima.

    Il medico va in fretta alle porte, battendoci sopra con la mano. Forse, dopotutto, non era tanto tranquillo nemmeno lui.

    «Sì. Siamo qui.»

    «Sono il tecnico. Ora cerco di aprire manualmente.»

    Mi alzo, un po’ disorientata. Fuori si sentono dei rumorini e qualche imprecazione. «Queste cazzo di porte... Ma come le hanno fatte?»

    Occhi-color-camice e io ci scambiamo uno sguardo divertito.

    «Qualche miglioria non guasterebbe» conferma lui, verso la micro-fessura da cui non passa aria.

    Sto pensando che tutto sommato questo tipo è anche simpatico. A parte che va a correre tutte le sere, è maschilista e probabilmente è un ginecologo. Non che abbia qualcosa di personale contro i ginecologi. O magari è un pediatra. Un dietologo, forse. Il fisico del fissato con la dieta ce l’ha.

    «Adesso vi tiro fuori» dice il tecnico. «Devo prendere degli attrezzi.»

    Si sentono altre voci sovrapposte in un brusio confuso.

    Il dottore resta per un momento concentrato sui rumori, poi sembra cambiare idea, si volta verso di me, fa spallucce con l’aria di aver deciso di fregarsene di chi c’è al di là e di tutto il resto.

    «Stavamo dicendo?»

    «Cosa fa nella vita vera…»

    «Ah, giusto. Dunque...» si sfrega la fronte con aria pensosa. Ora butterà fuori la faccenda dell’extreme canyoning, sicuro. «Sono appassionato di letteratura» dice invece, a sorpresa. «I classici, soprattutto. Ma non disdegno i romanzi contemporanei.»

    Toh. Il medico che legge Tolstoj. E io che credevo che scienziati e letteratura non andassero d’accordo. Nemmeno scienziati e umanisti, se è per questo. Ora che ci penso, forse è questo il motivo per cui tutte le mie storie con dei medici sono naufragate. Mondi diversi e inconciliabili.

    «E poi mi piacciono i film d’epoca» prosegue. «Quelli in bianco e nero che non guarda più nessuno. Tipo Jules e Jim.»

    «L’ho visto!» esclamo. «Ma preferisco altro di Truffaut. Tipo... L’ultimo metrò.»

    «Bello. Molto più recente, però. E comunque, ogni tanto scado» dice dopo un attimo di pausa. Incrocia il mio sguardo. «Guardo film demenziali americani. Quelli pieni di sparatorie.»

    Soffoco una risata. «Più o meno come tutti gli uomini. In compenso io stravedo per le commedie romantiche demenziali americane.»

    «Allora in quanto a demenzialità siamo pari.»

    «Credo di riuscire a batterla» lo sfido. «Io vado matta per le vecchie sigle dei cartoni animati.»

    Lui inarca un sopracciglio. «Non mi dica.»

    «Soprattutto quelle giapponesi in voga negli anni Ottanta. Le canto sempre sotto la doccia.»

    «Non invidio i suoi vicini.»

    «Bè, la mia vicina si uccide di canzoni romantiche e lacrimevoli. Le mie almeno sono allegre. Però sono stonata» ammetto.

    «Un posticino simpatico dove abitare, il suo.»

    Ci scambiamo uno sguardo e il suo volto rifulge di un breve sorriso. Cobalto, mi verrebbe da dire.

    Si schiarisce la gola. «Quindi vede Game of Thrones, ascolta Occhi di gatto, e non esce a correre.»

    Faccio una smorfia. «Riassunta così, la mia vita fa schifo.»

    E non è che sia poi tanto diversa, penso nello stesso istante. Ma non lo dico. Sto giocando, in qualche modo. Giocando a essere quella che vorrei essere e non sono, né forse sarò mai. Una persona piena di bei colori, priva di grigiore, priva di nero.

    «Non credo affatto» replica lui, serio.

    «Comunque, lo ammetto, sono una persona che non fa cose eccezionali. Anzi, forse piuttosto banali.» Sto ripetendo a memoria quello che mi diceva un ex fidanzato, più o meno. Non è stato piacevole, quando me l’ha spiattellato in faccia. Però io non sono proprio così. Non del tutto, almeno. Non sono solo quello. «Ma nella banalità di ogni giorno cerco di trovare qualcosa di bello» concludo, alzando lo sguardo.

    E questo è assolutamente vero. Altrimenti sarei già morta, credo. Circa vent’anni fa.

    Il dottore adesso mi guarda con aria interessata. «Il bello delle piccole cose.»

    «Diciamo che sì, mi sforzo di cercare la bellezza un po’ ovunque. Come quando al lavoro mi danno da fare un sito noioso e cerco di trovarci una qualche passione per farlo.» O come quando il mondo ti cade addosso, ma tu devi andare avanti comunque e vedere ciò che di luminoso è rimasto. Trovare il color ambra dell’estate quando attorno a te c’è solo un grigio ciminiera. Ma anche questo non lo dico.

    «Segue quello che diceva Pessoa, dunque» afferma dopo un po’.

    «E cosa diceva Pessoa?»

    «Pessoa diceva...» s’interrompe qualche istante. «Benedetti siano gli istanti, e i millimetri, e le ombre delle piccole cose.»

    Resto un po’ in silenzio, a sentire l’effetto vellutato della sua voce. La cabina, che prima era grigiastra e verde – sig. Flagg –, adesso ha cambiato del tutto tonalità. Corallo, è ciò che la riempie.

    «Però non direi tanto le ombre delle piccole cose» osservo. «Direi più le luci. Le luci delle piccole cose.»

    I colori. Quelli che provo sempre, come se fossero emozioni. Perché poi è questo che sento, che vivo, anche se nessuno lo sa. Tingo il mondo di tonalità diverse. Cambiano a seconda di ciò che provo.

    Il dottore si guarda attorno nel nostro piccolo ascensore. «Ci riesce anche qui?»

    «Come?» sbatto le ciglia.

    «Riesce a trovare anche qui, qualcosa di bello?»

    Non so perché, ma d’istinto mi viene da guardare ai suoi occhi. E non so se lui se n’è accorto, che ho indugiato qualche istante di troppo nell’azzurro.

    «Allora, forse ci siamo.» Il tecnico dall’altra parte sembra essere giunto a un punto di arrivo, distogliendoci dalla nostra conversazione e dall’imbarazzo di una risposta che non avrei saputo dare. O forse sì, ma non sarebbe stato il caso di dirla. Lo dicevo, che la carenza di ossigeno provoca farneticazioni.

    Sentiamo un cigolio provenire dalle porte. E poi, finalmente, dalla fessura entra più luce. Pochi istanti e le porte si spalancano, e davanti a noi c’è il tecnico con gli attrezzi in mano. Mi aiuta a uscire e nel giro di un secondo siamo fuori, nel corridoio, salvi. Eppure non provo il sollievo che credevo avrei sentito. È più qualcosa di simile a un dolce rimpianto, quello che avverto. Lancio un’occhiata alla cabina da cui siamo usciti. È grigia, con i neon verdastri. Non è mai stata di altri colori. Non c’è alcuna traccia del corallo che avevo visto.

    Si avvicinano due infermiere dall’aria ansiosa.

    «State bene?» chiede una delle due, andando dritta dal mio accompagnatore. Appena lo guarda in faccia se ne esce con un’esclamazione di stupore. «Ah, ma è lei, dottor Koller!»

    Lui è uscito dall’ascensore e si sta sistemando il camice.

    «Mi spiace per l’inconveniente» sta dicendo l’infermiera, allargando le braccia, l’aria mortificata. «Non è mai successo in venticinque anni che lavoro qui.»

    E ti pareva se non doveva capitare proprio quando c’ero io. Ah, la cara, vecchia legge di Murphy.

    «Non si preoccupi» la rassicura lui. «Non è successo niente.»

    Già. Niente. Solo che le pareti da grigie sono diventate corallo. O celeste. O comunque di uno di quei colori belli da vedere, da sentire.

    «Sta bene? Ha bisogno di qualcosa? Acqua, tè?» l’infermiera gli si affanna attorno. «Camomilla?»

    «Sono a posto. Forse la signorina...» allunga uno sguardo azzurro su di me. È la prima volta che ci guardiamo, qui fuori. Sbatto le palpebre, un po’ a disagio. Che strano, essere qui, tra la gente e la luce. È come se fossimo stati sparati fuori di colpo a folle velocità. Chissà se anche per lui è lo stesso.

    «Ah.» L’infermiera si volta verso di me, decidendo di prendermi in considerazione

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