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Adesso tutti sanno
Adesso tutti sanno
Adesso tutti sanno
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Adesso tutti sanno

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About this ebook

La prima volta che lo percepii, fu nel salotto di casa nostra.
Ed ebbi terrore
Di chi fosse,
Di cosa pretendesse da noi
E in cosa mi avrebbe sfigurata.
Aveva imparato una lezione che voleva condividere. Una lezione che non si dovrebbe insegnare a un bambino, perché la felicità non segue sempre la tragedia, né la speranza il dolore.
Niente cambierà la sua natura impassibile, quel temperamento deciso e la fedeltà verso una promessa.
Eravamo gli opposti, eppure nei suoi occhi intravedevo dei frammenti di me. Vorrei aver conosciuto la nostra storia bene quanto oggi.
Avrei saputo ribellarmi alle regole prescritte? E se fossi stata capace, quale prezzo sarei stata disposta a pagare?
Non c’è tempo per riflettere.
Ecco, senti i passi dietro di noi? È lui che sta arrivando.
LanguageItaliano
PublisherGiovanna Roma
Release dateOct 7, 2019
ISBN9788834192665
Adesso tutti sanno

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    Adesso tutti sanno - Giovanna Roma

    9781689216050

    AVVERTENZE DELL’AUTRICE

    Si consiglia la lettura del romanzo Adesso tutti sanno a un pubblico adulto e consapevole. La storia contiene scene violente, contorte, situazioni angoscianti e rapporti sessuali di dubbio consenso. Non adatto a persone sensibili al dolore e alla schiavitù. Si prega di non sottovalutare l’avvertimento.

    Se sei pronto a iniziare, che il Divino abbia pietà della tua anima.

    A chi non sa nulla di quest’opera.

    Ti guiderò

    tra i frammenti di un uomo

    recuperati dai cocci del suo cuore,

    tessuti in parole

    e assorbiti dalle pagine.

    1.

    Sei grande ormai. È giusto che tu conosca questa storia, e in più sta tirando una brutta aria, sai. Potrebbe accadere qualcosa e nessuno la ricorderebbe.

    Allora, ascoltami bene. Tutto ha avuto inizio sull’isola di un giovane principe. Il suo regno era avvolto da un inverno perenne. Nuvole nere e folate di vento allontanavano gli uccelli. Il mare ruggiva e si gonfiava, distanziava le navi dalla costa, imbrigliava le reti dei pescatori. Nonostante la pioggia perpetua, la terra non generava frutti da anni.

    «Nemmeno le ciliegie?»

    «No, stellina.»

    «Ma a me piacciono le ciliegie. Facciamo finta che loro crescevano.»

    «Va bene, solo le ciliegie. Adesso mettiti sul cuscino, fallo per papà. Perché non spegniamo la lampada? Dove hai messo il cagnolino? Ah, eccolo qui. Tienilo stretto. Non hai sonno?»

    «No.»

    «Ah, dov’ero rimasto?»

    «Alle ciliegie.»

    Una mattina di tempesta le cime degli alberi oscillavano. Nel silenzio si udivano distinti i rami scricchiolare. Se un uomo si fosse trovato nei paraggi, avrebbe alzato il naso e temuto di esserne travolto. Da quella foresta uscì l’ultima creatura che ti saresti aspettata di incontrare tra labirinti di spine e occhi gialli.

    Una fanciulla bellissima.

    Aveva affrontato un viaggio pericoloso. Il vestito era imbrattato di terra e pioggia ed era l’unico che avesse. Un disastro, a ben pensarci, però magnifica. A dispetto dei piedi scalzi e delle mani sporche, il principe ne aveva notato gli occhi. C’era il mare in quei cristalli. Tutto il mare del mondo. Da restarci sbalordito. Possedeva un’anima che aveva sfidato e vinto la fame dei lupi, il gelo della notte, le insidie dei serpenti e il braccio della morte.

    Lui la condusse al castello e la ricoprì d’oro e di bei vestiti. Laggiù, in quelle stanze, tra i corridoi in pietra fredda, diventarono amici per la vita. Di quelli che ti stregano se si guardano troppo a lungo. Passavano i giorni a immaginare viaggi in continenti mai esplorati, su un treno che attraversasse la steppa. E più fantasticavano, più lei sorrideva. A ripensarci, il principe era convinto che quella cosa lì, quella sensazione che avvertiva alla bocca dello stomaco senza volerlo, fosse la felicità. Entrambi erano giovani, imprudenti e innamorati.

    Una notte di quel terribile inverno, uno stregone potente si intromise tra loro. Il suo corpo era avvolto in un mantello nero e la voce aveva uno strascico spaventoso. Gli occhi erano rossi come mele e due corna svettavano sulla testa. Lui allontanò la donna dal principe con l’inganno.

    Il giovane era disperato, il suo cuore gonfio d’amore era stato gettato sui gradini del castello. Lo raccolse e, quando levò lo sguardo, un’altra giovane donna era lì ad accoglierlo. Aveva i capelli del colore del grano. Sorrideva, ma non era bella quanto la sua amata. Preso dallo sconforto, iniziò a vagare per il bosco in solitudine, a bere tanto da addormentarsi.

    «Il latte col miele?»

    «Come, stellina?»

    «La mamma mi dà il latte col miele e io dormo.»

    «L’hai preso stasera? Sì? E perché non dormi?»

    «Voglio sentire la storia, papà. Cosa succede al principe?»

    Ne combinò di fesserie in quegli anni, però la giovane restava lì, nella testa. Cristallina e misteriosa quanto gli occhi che vide la prima notte.

    «E la nuova signora?»

    Lei insistette per rimanere sola con lui e un bel giorno diedero alla luce una splendida figlia, una bambina bellissima. Aveva le guance rosse e grassottelle, la pelle profumata e rideva se le solleticavi il pancino. Quando gliela posarono tra le braccia non pianse, ma sventolò le ciglia. Fu così che la pioggia smise di cadere e le nuvole sul regno si dispersero. Non ci avrei creduto, se non l’avessi visto di persona. Il sole riscaldava la terra, l’erba cresceva e gli uccellini riprendevano a cinguettare. L’inverno era finito per sempre.

    Il frugoletto cresceva amato ogni giorno di più e il popolo confidava che la primavera nascesse proprio dai suoi occhioni sorridenti. Lui ne era così innamorato, che decise di sposare la madre. La loro felicità era completa.

    Il padre sapeva che la bambina sarebbe cresciuta in salute e avrebbe sposato un principe che l’avrebbe resa una donna radiosa.

    «Cos’è successo alla vecchia amica?»

    «L’uomo era felice, però non riusciva a dimenticarla. Desiderava rivederla, stare un po’ con lei… Lo capisci? Lei era stata catturata dal mago e soltanto il principe sembrava preoccuparsene. Era suo dovere liberarla. Ora, però, dormi. Si è fatto tardi.»

    «Aspetta! La salverà?»

    «Lo farà. La libererà per sempre.

    Ricorda che gli stregoni attendono il momento in cui sei spensierato per colpire. Il mago era invidioso della fortuna del sovrano, quindi tornò al castello per lanciare una maledizione sulla famiglia reale. Una terribile catastrofe stava per abbattersi e l’unico modo per limitare i danni era scendere a patti con le forze del male. Il re avrebbe rinunciato alla sua felicità, avrebbe subìto gli attacchi dello stregone senza un lamento, in cambio del bene del regno e della figlia. In quel turbinio di sofferenze si rese conto di pensare ancora alla vecchia amica.

    A lei, che non poteva averla vicina in un momento difficile.

    Il desiderio tutte le notti nella testa. Un desiderio che ti uccide se non lo lasci sfogare.

    La voglia di rendere tutti felici, il terrore di fallire.

    C’era da impazzire. Si sentiva l’odore di un temporale nell’aria. Bisognava fare qualcosa. E lui la fece.

    «Uhm… La mamma dice che il bene vince sempre.»

    «È vero, però a volte sono necessari gesti estremi… La vita ha dato un’opportunità senza precedenti a quel principe divenuto re. Gli ha concesso un’arma. E lui lo sapeva. Lo sentiva.»

    «Che cosa?»

    « Era in arrivo un temporale, e il mondo come lo conosceva quell’allegra famigliola, sarebbe cessato di esistere

    2.

    ALAN

    Quando ero piccolo non vedevo l’ora di diventare grande. Non vecchio quanto papà, ma più grande dei miei compagni dell’ultimo anno di scuola. Una soglia che andasse oltre il lanciare bombe di carta o rubare riviste per adulti dallo zio di un amico. Sarei entrato in una cerchia più elevata di quella che si vanta di avere il fortino in giardino. Un rito di passaggio che impedisce i dietro front. Avanzi, qualunque responsabilità ti riserva il destino. Se hai bevuto il gin una volta, non puoi pretendere l’aranciata ai compleanni. Ormai sei un uomo d’alcol. Hai gettato alle spalle l’innocenza, il sogno di diventare un pirata. Sarai una pecora nel gregge dei vecchi lagnosi.

    Io sapevo che sarei stato diverso dagli adulti. Migliore. La crescita non mi avrebbe fregato come agli altri.

    Mi sarei aspettato di diventare grande con il primo acquisto dei preservativi o la perdita della verginità o rimediando alcolici con un documento falso o sopravvivendo alla prima rissa da bar. Avrei perso, avrei vinto, comunque sarei uscito da lì con un sorriso ebete stampato in faccia.

    A volte scegli il treno sul quale correre, altre volte no.

    Io non l’ho scelto.

    La mia corsia di sola andata arriva con un groviglio in gola che non vuole saperne di scendere. Ingoio, raschio il collo con le unghie smussate, ma nulla.

    Mamma diceva che era terrore e un giorno ne avrei riso. Un giorno la stretta si sarebbe allentata. Si ride sempre delle sventure passate, ma intanto lei è altrove e questa è la prima volta che vedo una persona morta su un letto sfatto e insanguinato. Indossa ancora la camicia da notte della sera precedente. L’orlo è sollevato abbastanza da scoprire le ginocchia. A quest’ora mi avrebbe preparato un disegno con la marmellata sul toast.

    È solo carne e ossa, non la mia mamma. Avanzo con passi pesanti, caviglie di argilla. Urto il bordo del letto con le gambe e ho la certezza che non sia un incubo.

    Il cellulare, onnipresente nella mano, mi casca due volte dalle dita sudate.

    «Che stai facendo?»

    Sobbalzo nell’udire un tuono. Sgrano gli occhi nel riconoscere papà alle mie spalle. Ha trascinato il trolley su per le scale e non l’ho sentito. Avevo il martellare del cuore nelle orecchie.

    Lui guarda me, poi lei. Aspetto che pianga, che mi abbracci e si disperi, che vada in escandescenza, che crolli in ginocchio, che abbia una qualche reazione, perché io non so cosa fare. Meno di otto ore fa la mamma mi ha abbracciato. Mi ha dato la buona notte con un bacio sulla fronte e io le ho detto di smetterla, perché non sono più un bambino.

    Papà chiude la porta piano, quasi tema di svegliarla, quindi posa le mani immense sulle mie spalle minute. Si strizza gli occhi fra le dita e strofina il naso. Riporta la mano su di me e prende un grosso respiro dalla bocca.

    Ho in testa la macchia di sangue più grossa, quella che assomiglia a una navicella spaziale. Lì non c’è mia madre. Volto il capo per controllare e no, mi rifiuto. Non è mai stata tanto malridotta. Pallida, immobile, i capelli un groviglio nero. Durante il giorno è un vulcano di energie, corre al parco, prepara i biscotti per le riunioni di classe. Questi sono incidenti che succedono agli altri, non a noi.

    «Guarda me.» È il primo comando che assimilo dall’arrivo in camera. Quando usa questo tono autoritario significa che è in arrivo un discorsetto da uomini. Mi tira il mento, i guanti e il cappotto ancora addosso. «Concentrati su di me e ascolta bene.» Inizia con voce ferma e forse è proprio per questa calma che sono convinto di dormire.

    «Perché c’è tutto quel sangue? Perché non si sveglia?» Ho bisogno di sentirglielo spiegare. Stento a credere a ciò che vedo e sono confuso. Non pensavo alla morte. Qualcuno che ami, che ritieni immortale, può spegnersi? Una sua parola bloccherebbe le immagini nella mia testa e la grancassa nel cuore.

    «Asciugati le guance e alza la testa. Non devi chiederti perché. La domanda è come.» L’ammonimento riverbera in un suono profondo e deciso. Devo chiedermi in che modo sono entrati? Non capisco, che mi importa della maniera? Esamino intorno, la finestra chiusa. La porta? Era chiusa, ho bussato prima di entrare.

    «Ora voglio che mi ascolti in silenzio.» Annuisco. «Non serve che chiami l’ambulanza. Ci penso io. Arriveranno presto e la porteranno via. Puliranno ogni angolo e non dovrai rispondere a nessuna domanda. Penserò io a tutto.»

    «Sono sceso per la colazione e lei non c’era. Non ho visto nessuno. Non ho sentito rumori strani» racconto, in caso gli serva saperlo o riferirlo.

    «Jolinda è arrivata?»

    Mamma chiedeva spesso l’aiuto di una donna delle pulizie per rassettare la casa, ma oggi non si è vista. Papà sta sorvolando sulla mia confessione. Non l’ha chiesta, quindi non gli interessa sapere cosa io stessi combinando.

    Papà, la mamma continua a sanguinare, vorrei dirgli. Perché mi chiedi di Jolinda? Ci sono questioni più importanti. Hai perso l’amore di una vita. Quando urlerai?

    Devo avere una faccia strana, perché inclina il capo per studiare le mie reazioni. Gli occhi blu scuro quanto i miei, mi fissano a lungo. Non in modo cattivo, più nel senso: devo sapere se ci sei con la testa.

    Si solleva dritto e digita sul cellulare. Credo che parli con Jolinda, mentre io riporto l’attenzione sulla mamma e immagino cosa le sia potuto succedere. Ha la sottoveste perché l’hanno colta nel sonno. Significa che non ha sofferto? Degli estranei sono entrati in casa e l’hanno uccisa. Perché lei? Papà ha molta più vita sociale, ha un lavoro importante, lei rimaneva con me.

    Lo scruto.

    È intento a spiegare a Jolinda di restarsene a casa e non venire. Fatica a raccontarle cos’è successo. Si mangia le parole. Tento di aprire bocca e mi accorgo di non riuscirci nemmeno io. Sono sul punto di vomitare.

    «Hai dormito tutta la notte? Ti sei mai svegliato?» riprende a chiedermi. «È importante saperlo.»

    «No, non ho visto nessuno, te l’ho detto.» So che la casa è affidata a me, mentre papà è via per lavoro, ma avevo guardato la TV fino a tardi e stavo morendo di sonno.

    Mi vergogno di raccontarglielo, quindi abbasso il capo e tiro i polsini del pigiama dei supereroi. Mi fissano con le sopracciglia aggrottate. Non mi sento forte come loro. Sono un vigliacco e un debole. Ho deluso persino loro. Me lo voglio togliere.

    «Tu e mamma eravate soli ieri sera? È passato qualcuno a trovarla? Un uomo, per esempio?» Ho l’impressione che papà mi strillerà, tanta è dura la linea delle sue labbra, quindi nego con il capo.

    «Chi è stato, papà?» Lui è il mio eroe, è l’adulto che conosce ogni cosa, anche mamma ne era convinta. I miei perché lo spazientivano, ma finivano per trovare una risposta grazie a lui. Per me è la soluzione di qualsiasi rebus. Persino le storie della buona notte ai tempi dell’asilo erano migliori di quelle della mamma. Niente fatine o pesciolini d’oro, solo pirati e agenti segreti.

    «William Mitchel», sentenzia fissandola. Non un dubbio, né un tentennamento modulano la sua condanna.

    Conosco il signor Mitchel di vista. Ha i capelli che gli sfiorano le spalle, arricciati sulle punte. Mi sembra un tipo tranquillo. Un vicino come un altro, non uno squilibrato.

    «Impara a osservare.» Mulina un dito per la stanza. «Vedi disordine in giro? Cassetti aperti? Lampade a terra? Non è entrato un ladruncolo da quattro soldi. Stiamo parlando di un uomo arrivato fin qui per uccidere.»

    Un killer in casa nostra! Fisso la mamma con occhi sgranati.

    «Qualcuno di abbastanza vicino da sapere dove colpire. Qui nel profondo. Non lo devi cercare tra i nemici.»

    Questa volta fisso lui.

    «Gli amici sono più insidiosi, tradiscono appena gli volti le spalle.»

    Eppure il signor Mitchel non mi-

    «Ne sono certo» insiste, leggendo il mio dubbio nel pensiero. «Tua madre aveva il brutto vizio di fidarsi della gente sbagliata. Gliel’ho ripetuto un milione di volte di non frequentare quell’opportunista. Testarda com’era, avrà fatto di testa sua.»

    Non ricordo di averla mai sentita accennare a qualcuno estraneo alla famiglia, ma evito di rivelarglielo o si arrabbierebbe.

    «Ha approfittato del mio viaggio per aprirgli casa.» È convinto che il signor Mitchel sia entrato e l’abbia uccisa per gelosia. Lei sarebbe stata uguale a quelle della televisione? Insicura, coinvolta in una relazione clandestina? Mamma è… era una mamma perfetta.

    Capisco che in questo momento è bene non contraddirlo, perché riversa parole amare sull’intero albero genealogico dei vicini. Lo sommerge senza indulgenza e allarga il precipizio che ho nel petto. Un buco nero che si riempie di rovi e di spine.

    «Devi promettermi di stare alla larga da loro. Non voglio che feriscano anche te. Non cercarli, non chiedere, non passare sotto le loro finestre.» Elenca i divieti sulle punte delle dita. «Giragli a largo o finirai male.»

    Impiego qualche minuto per accertarmi di rispondergli senza che la voce si spezzi. Papà non è il tipo che lascia trasparire le emozioni, quindi lo imito. Tiro su col naso e stringo i pugni.

    «Perché colpirla… in quel modo?» Arrivare di soppiatto, strisciare in camera. Immagino come sia andata. Mamma è stata costretta a svegliarsi nel cuore della notte. Il signor Mitchel in piedi accanto ai suoi capelli scompigliati sul cuscino. Lei si è seduta, le mani in preghiera, la voce sottile per non destarmi e spaventarmi. Lo scongiura di risparmiarla con le lacrime agli occhi, dunque lui le ha sparato.

    Perché ho continuato a dormire? Non ho sentito la pistola. Le avrà premuto il cuscino in faccia? Sì, forse. Nei film fanno così. Allungo la testa per spiare il guanciale.

    «Ascolti quando ti parlo?» Mi scuote e annuisco ancora. Mastico le labbra per non rimettere.

    «Entro domattina seppelliremo tua madre nella cappella di famiglia.»

    La bile scende di nuovo. Le lacrime si volatilizzano. Parla come se fosse morto il mio pesce rosso e volesse rassicurarmi che ne riceverò uno più grosso per il compleanno.

    Studia la mia espressione un istante, soppesando se io sia abbastanza recettivo da comprenderlo. Non distolgo lo sguardo, deve sapere che ho capito e sono pronto a obbedirgli.

    «Cosa faremo?»

    «Tu niente… Se essere magnanimi è stato tempo perso, essere egoisti ci condurrà da qualche parte. È chiaro che conosce un linguaggio solo, quindi per comunicare con lui…» Non termina la frase, riducendola a una scrollata di spalle. Per la prima volta, da quando la visione di mamma mi ha colpito, intravedo una via d’uscita dal panico. Non ho chiaro quale sia, si tratta di uno spiraglio informe, ma rilevante. Sono le uniche parole di speranza che papà mi offre.

    «Credi che abbia sofferto?»

    La sua bocca si contrae in una smorfia di rancore, mentre le fissa la pelle scoperta. «Se mi avesse ascoltato…» Le lacrime affiorarono, ma lui le respinge con rabbia e un colpo di tosse. Mamma diceva sempre che lui era severo perché era cresciuto con i genitori lontani e aveva difficoltà a essere vicino.

    «Aiutami a metterla a posto» bofonchia.

    «Ma la polizia-»

    «La polizia non ha bisogno di trovarla con le gambe spalancate e il seno di fuori.» Mi interrompe prima che riprenda. «Arriveranno degli agenti fidati e sistemeranno tua madre. Farò quello che serve e lo farò bene. Chi ce l’ha tolta si farà male, te lo giuro.»

    Guardo lui, poi lei, interdetto.

    «Pensi di schiodarti da lì? Vuoi che un altro entri e la scopra in questo stato?» Allunga entrambe le braccia, sottolineando ogni spanna nuda di lei. È spaventoso il peso del biasimo nella domanda.

    «Perché le ha strappato i vestiti?» Che bisogno c’era? Lui stringeva una pistola, ormai aveva vinto.

    «Perché magari lei gliel’ha permesso. Chi che non può avere qualcosa, la distrugge. È gente che ama troppo sé stessa. Aiutami, la copriremo solo un po’.»

    Ha ragione, mi odierei se degli estranei la vedessero in quella posizione. Sono sul serio vicino a vomitare, ma riesco lo stesso a portarmi dall’altra parte del letto. Nello scostare le lenzuola, ci accorgiamo che perde del liquido latteo – perlaceo tra le gambe. Non saprei definirlo meglio. Papà scuote il capo con disgusto, quindi io distolgo gli occhi. Sentendomi colpevole per aver visto, non so perché. Il cuscino ha un foro nel mezzo. Mi ronzano le orecchie e martellano le tempie per quel buco in gola.

    «Basta così!» Esclama di slancio, quando persisto a singhiozzare e sfregare il polsino sotto il naso. «Dritto con la schiena. Gambe d’acciaio, cuore di diamante e nulla ti spezzerà.» È il suo mantra per me. «Non ho cresciuto un cavallo storpio.»

    Pretendo giustizia e la pretendo adesso, vorrei protestare, invece paura e lacrime mi annodano la lingua. Papà ruota intorno al letto e si piega sui calcagni. Mi stringe le guance umide tra le mani e mi scuote la testa. «Cosa penserebbe se ti sapesse tanto debole?»

    Lei non avrebbe problemi, è lui a non sopportarlo.

    Sono trascorse ore da quando l’abbiamo trovata, e alla fine la portano dabbasso.

    Papà ha mantenuto la promessa. Nessuno mi ha chiesto niente. Ho aiutato a pulire il sangue e sollevare il corpo freddo e rigido di mamma. Tiro su col naso quando fatico a trattenere le lacrime, per non assomigliare a un pappamolle sconfitto.

    Niente trombe degli angeli o tuoni in cielo, nessun trambusto di stoviglie in cucina, radio accesa a una stazione di musica anni settanta, pantofole che strisciano dietro la mia porta, voce sottile che mi domanda cosa preferisco per colazione. Niente labbra che schioccano sulla fronte per salutarmi o richiami burberi se freddo la cena per colpa del pallone. Quei rumori di routine echeggiano lo stesso nella testa.

    «Posso darti il cambio.» Una donna si intromette nei miei pensieri. Si offre di pulire gli schizzi sul pavimento. Parla di pallore e dita che mi tremano. Le fisso, me ne accorgo solo adesso. La ignoro e continuo in silenzio. Strofino col rimorso di non essermi svegliato. Perché sono stato in piedi fino a tardi? Perché non sono andato a letto quando me l’aveva ordinato? Perché le nostre porte erano chiuse? Perché non ho saputo prendermi cura di lei? È stata l’unica occasione di essere utile, la più importante della sua vita e ho fallito. Papà non mi ha più rivolto la parola e non lo biasimo. Avevo promesso di essere l’uomo di casa.

    Parlottii dietro porte socchiuse, passi frettolosi su e giù per le scale, il fragore dei bicchieri in cucina. Questi rumori sono reali, li distinguo. Papà ha ripopolato casa, eppure sembra di trovarsi in quella di un’altra famiglia. I rumori di mamma erano diversi, la successione è confusa. Prima il frigo e dopo il tostapane, e nessuno ha ancora acceso la radio.

    Uno infila la testa nella stanza, però non mostro di fregarmene qualcosa o di riconoscerlo. Facce vaghe, velate dai miei occhi lucidi. Se anche mi rivolgessero la parola, avrei le orecchie ovattate, disperse in una tempesta personale.

    Non mi affaccio alla finestra per seguire il carro funebre attraversare il quartiere. Lo scorgo bene nella mia testa, e comunque non riesco a muovermi. Rabbia e rammarico mi hanno irrigidito i muscoli. Inizio con un respiro profondo che rimanda su la bile. La macchia a forma di navicella somiglia a un mappamondo qui per terra, ma il risultato è lo stesso: non balzerò mai più sul letto. Poco importa se era in quel punto preciso che lei mi leggeva le favole della buona notte. L’immagine della salma è troppo forte.

    Non so quanto resisterò a starmene seduto sul pavimento davanti alle lenzuola gocciolanti il mio stesso sangue. Come riesce il corpo di una persona a contenerne tanto?

    Alzo il sedere al suono della voce del signor Mitchel giù in strada. Neanche sapevo di riconoscerla, invece da quando papà mi ha messo in guardia, ho questo super potere.

    Salta in macchina, però non mette in moto. La scorgo oscillare, come se dentro ci fosse un alieno che lo sta divorando. Spero che lo faccia. Spero che muoia. Mi sporgo, ma non capisco che combina. Aspetto di vedere le budella esplodere sui finestrini come nei film, invece non succede. Le lacrime che trattengo, il signor Mitchel le deve pagare con un dolore cento volte peggiore. Se io piango, lui griderà. Se io grido, lui si slogherà la mascella.

    Il sole ha superato i tetti delle ville di fronte. Non ho voglia di andare a scuola. Corro per un corridoio obliquo che non sapevo di avere, spalanco la porta più pesante al mondo e rigetto convulsamente nel water. Con i capelli sudati a pizzicarmi gli occhi, ripenso alla mamma e all’uomo che ci ha distrutto la vita. Ho un sapore aspro sulla lingua e un odore nauseante sotto il naso. Premo la fronte madida sul bordo della tazza, quindi siedo sul pavimento con le gambe aperte. La stanza ha smesso di girare e il sedere poggia su un parquet orizzontale, non più obliquo. Restano le ginocchia molli e un retrogusto acido in bocca.

    Pulito il mento, spio oltre le spalle. Non so quanto a lungo mantengo la posizione. Ho le gambe tanto intrecciate da perderne la sensibilità. Non guardo niente, eppure distinguo ogni cosa. Distinguo il signor Mitchel, le macchie di sangue allargarsi sulla sottana di mamma. Strizzo gli occhi e respingo le lacrime. Se è stato davvero lui, non merita di vivere e da questo punto di vista assomiglio a papà. Sarò debole ed emotivo come mamma, però il rancore mi impedisce di fingere indifferenza. Credo di avere prosciugato lo stomaco, invece rigetto ancora e con la testa sempre più nella tazza. Cosa piango a fare? Tanto se faccio una scenata, lei mica resuscita.

    «Ragazzo.»

    Sollevo la testa sul nonno. Entra senza attendere un saluto. Lo fisso aprire la finestra, recuperare lo sgabello sotto il lavabo e sedersi con un sospiro che gli gonfia le guance flosce. Le gambe del seggiolino si piegano in tre parentesi tonde. Non reggeranno il peso. Dalla tasca interna del gilet recupera un pacchetto di sigarette. Studio con attenzione ogni gesto, da sempre ammaliato dai suoi modi di fare.

    «Non dirlo a tuo padre.» Agita il fiammifero sino a spegnerlo ed espelle tanto fumo dal naso da coprirgli la faccia. Assomiglia a una locomotiva tutte le volte. Mi rannicchio sotto la finestra. La puzza mi dà il voltastomaco, ma lo tengo per me. Preferirei che lui restasse.

    «Sono arrivato appena ho saputo.» Non mi abbraccia come ci si aspetterebbe in situazioni del genere. È un tipo che prova impaccio davanti a certe effusioni. Al compleanno ti scompiglia i capelli o stringe la mano. Prima di andare a dormire ti saluta con un cenno del capo. A Natale ti allunga un regalo che ha impacchettato con le sue dita tozze. Carezze, pizzicotti sulle guance non sono il suo stile.

    Il carattere forte, in compenso, si è rivelato utile. Nonno Stevens è partito dal nulla e ha fatto i soldi. Era un vecchio lupo di mare e ritirandosi dal lavoro, è tornato a esserlo. Vendeva il suo pesce al mercato, poi si è aperto una pescheria e distribuiva nei ristoranti, poi un vero supermercato del pesce. Da lì a esportarlo all’estero il passo è stato breve. Papà raccontava che stava via anche sei mesi senza vedere la terra ferma, solo il pesce sotto i piedi e il sole sulla testa. Tutti lo conoscevano, tutti compravano da lui, tutti acclamavano: questo è il pesce di Stevens. A papà ha sempre puzzato il pesce. L’ha nutrito per una vita e ora non lo vuole manco in cartolina. Ha preso i soldi del nonno e ha costruito la sua azienda. Siamo andati a pesca una volta, non ho preso neanche un’acciuga, però mi affascinava ascoltarlo raccontare dei tempi andati. Forse colorava le sue avventure. Non credo che sia davvero salpato con i pirati o abbia incontrato la Regina d’Inghilterra.

    Mi abbraccia in quel modo tutto suo, fatto di occhi vitrei circondati da rughe e pensieri pesanti. Sono felice che non chieda come stia, perché al momento non ho un’unica parola per spiegarlo.

    «Hanno chiuso la bara. Per un po’ ci sarà soltanto un via vai di estranei per te. Andiamocene in barca. Solo un paio d’ore.»

    «Io passo. Preferisco non lasciarlo solo.»

    Scuote la mano davanti al naso e sono incerto se stia scacciando il fumo o la risposta. «I funerali sono faccende da adulti. Andiamocene a sentire il mare. Quando torni lui sarà qui.»

    «Intendi guardare, nonno?» È proprio vecchio. Inspira di colpo con un rumore disgustoso. Sembra quasi di vedere il catarro gorgogliargli in gola, in un’aria da hai-udito-le-mie-parole-e-sono-sacrosante. -Non-sono-rimbambito.

    «Il mare ha una voce. E quando è in tempesta, ha un urlo immenso.» Allarga le braccia sopra la testa per simulare la vastità del suono. «Dal bagno di casa non ti parla, devi andarci di persona.» Ha un modo tutto suo di aiutare le persone a stare meglio. Non ti dà bevande calde, pacche sulle spalle, parole di conforto. Con lui funzionano i metodi alternativi.

    «Cosa dice?»

    Si protende con i gomiti sulle ginocchia scricchiolanti. Le iridi di un azzurro inglese sfavillano. «Ha un messaggio per ognuno di noi.»

    «A te cos’ha detto?»

    «Non si rivela. È un segreto e i segreti non si spifferano, ricordalo. Liberati delle persone che lo fanno.»

    «Perché dovrei ascoltare quello che ha da dirmi?» Che mi frega, poi. Io vivo in città, la spiaggia è a ore da qui.

    Ricevo uno scappellotto sulla testa per la risposta e cenere sulla spalla. «Perché dopo saprai cosa fare per superare il dolore della vita.»

    Concetti troppo astratti e filosofici per me. Gli rispondo che lo farò, solo per tenerlo buono e perché la smetta di insistere. Non ho voglia di sorbirmi ore di macchina sotto il sole per vedere qualcosa che ho già visto: una serie ininterrotta di piccole onde che mi bagnano i piedi e si ritirano.

    «Prima di conoscere tua nonna il mio mondo iniziava e finiva sulla barca. Avevo la mia canna, la mia rete, una moglie a casa, un bambino che trangugiava biberon a base di merluzzo.» Fissa la sigaretta nelle dita mentre racconta. Il fumo sale e si disperde sul soffitto. «Poi lei è morta e quello stesso giorno lo sai cos’ho fatto?»

    Io non l’ho mai conosciuta. Se ne è andata quando papà aveva la mia età, ma ho visto una fotografia sulla barca del nonno. Ricordo la lunga treccia chiara in un’istantanea in bianco e nero.

    «C’erano i parenti in casa, tutti lì a piangere insieme, a stringere mani e portare da mangiare. Sono stato a posto per settimane, ma non è questo che volevo dirti.» Squadra ancora prima la cicca e dopo me. «Li ho abbandonati lì. Nessuno si è accorto di niente, avevano mio figlio da coccolare. Io sono sceso in spiaggia e ho ascoltato il grido gigantesco dell’oceano. Il giorno dopo la nostra vita è cambiata.» Si picchietta la tempia col dito nodoso. «Perché qui dentro è cambiato.»

    Si diventa pazzi? «L’ultima volta che siamo andati in barca, il mare non mi ha urlato niente.»

    Annuisce nel modo di chi la sa lunga. «Perché non avevi domande.»

    Ha una replica per tutto e non so se mi sta imbrogliando per staccarmi dal water. Mi sembra una buffonata.

    Dopo quella mattina orrenda sono iniziati i miei attacchi d’ira. A casa e a scuola credevano di consolarmi ripetendo che il dolore sarebbe passato, quasi il tempo fosse un elisir per la felicità.

    La verità era che la rabbia si anneriva quanto più il corpo di mia madre si decomponeva. Riflettevo sull’offerta del nonno. Non l’ho mai accompagnato in barca.

    Mi ero promesso di organizzarla tutti e tre, invece lui ci ha preceduti . È andato avanti, ha spiegato papà. Quando abbiamo raggiunto la costa a nord, ne abbiamo disperso le ceneri in mare, secondo le sue ultime volontà.

    Sono trascorsi anni e non è cambiato nulla. I sogni restano agitati e svegliarsi non migliora l’umore. È evidente che il lutto sia una ferita aperta.

    Mi accorgo che la vita è un’incognita. È incostante. Un giorno ti sorride, ti dà dei genitori fantastici, i giocattoli pubblicizzati in TV, il cane più tosto, i biglietti gratis al luna park. Poi capisci che sta sogghignando al maremoto alle tue spalle. Finché non ti è addosso, neanche lo percepisci. Non importa il modo in cui lo chiami, se sfiga, pubertà o karma. Se ha deciso di spezzarti, non esiste modo di impedirglielo. Puoi pregare, resistere, aspettare che la tempesta passi. Se non ne esci a brandelli, hai l’occasione di correre più veloce la prossima volta.

    Tu non ti aiuti di certo, perché nei periodi peggiori, rievochi le sensazioni migliori al mondo e l’umore cola a picco.

    E quando va bene?

    Quando l’universo gira secondo i tuoi desideri, sei un dio e la vita è meravigliosa. Vale la pena di essere vissuta. Aneli un’altra ora con una ragazza, esisti per il semplice fatto di avere uno scopo, di crederti invincibile. Ti riscatterai per ciò che ti ha strappato e saprai di riuscirci. Instauri un rapporto di amore e odio con l’esistenza.

    Non dimenticherò quello che è successo in quella stanza, così come le sensazioni che ne sono esplose.

    Sono seduto scomposto sul pavimento freddo e la vita è lì fuori che mi aspetta. Non ha il canto di una sirena, tutt’altro. Il suo è un latrato agghiacciante. Morde la carne, spezza le ossa. Ho smesso di distinguere il giorno dalla notte. Esiste solo una lampadina appesa al soffitto ed è la luce del riscatto. Il resto del mondo sono fauci aperte, un risucchio nell’oscurità.

    Una perdita tenue della corrente nella stanza e una scossa leggera nelle fondamenta. I peli sulla nuca si rizzano e sollevo lo sguardo verso l’unico lume.

    Dovrei pentirmi, almeno fingere di salvare l’anima, ma è tardi. La creatura lì fuori è nera e sta occupando sempre più spazio nella mia testa. Zittisce gli altri, zittisce i ripensamenti che potrei formulare. Distribuisce rancore e sangue a ogni lembo di pelle.

    Con il cuore pesante mi tiro in piedi e apro la finestra. Il verso mi investe con una folata calda. Il respiro esanime di qualcuno che sta per morire. Affida il mio nome al vento. Mi invoca.

    Alan. Alan.

    3.

    ALAN

    «Alan, dove ti sei cacciato?» Jimmy tempesta di calci e manate ogni porta del bagno. Interrompe i miei pensieri filosofici sulla vita.

    «Aaaaalaaaan.»

    Mi scova tra la parete dell’ultimo cubicolo e la finestra, il solo angolo dove fumare senza temere l’allarme anti-incendio. Lo ignoro e continuo a inspirare, finché non mi strattona per la felpa. Urto con i fianchi sul lavandino e mi cade la canna a terra. La pesto e sbuffo l’ultima nuvola di fumo dabbasso.

    «Ti nascondevi per la vergogna? Ormai Franzis l’ha raccontato a tutti.»

    Sciacquo le mani col pretesto di tenermi occupato. L’inchiostro non è venuto via dalle dita. Ho falsificato la firma del medico per saltare educazione fisica. Evito aerobica, una lezione da femminucce, e me ne ritrovo una in bagno.

    «Ehi! Disadattato, sto parlando con te.»

    Non ho la testa a posto per rispondergli. Di solito la canna scioglie la lingua, invece a me annebbia il cervello. La bocca è impastata, le braccia sono molli. Litigare richiede troppe energie. Con il palmo bagnato porto indietro i capelli e mi specchio. Sembra che ci abbia passato sopra il gel.

    «Hai finito di vantarti con le ragazze.»

    Ecco che ci risiamo. Insisterà finché non gli chiederò di più, ma non ho alcuna intenzione di indagare. I pettegolezzi di questo schifo di istituto li lascio alle femmine.

    «L’intera scuola sa che hai il pisello piccolo.»

    Boiata del giorno.

    «Alla tua Franzis piaceva succhiarmelo», confesso al mio riflesso. Gratto il mento fingendo di rifletterci. «Ora che ci penso, persino tua sorella mi ha pregato di incularla stamattina. Si vede che ho l’attrezzo bello grosso, invece. È questa la voce che corre», concludo strizzandomi il pacco davanti a lui.

    Quanto può essere preso, da non accorgersi che lei lo sta usando? Se fossi abbastanza altruista da dispensare consigli, gli suggerirei di divertirsi finché può, scaricarla e cercarsene un’altra.

    Parte un gancio destro che mi centra in faccia. Mi sveglia prima ancora che percepisca il gusto metallico sul labbro. Ci strofino il dorso della mano e tiro su col naso. Pessima mossa. Un grumo mi chiude la gola e sputo saliva e sangue nel lavandino. Lo contemplo confuso.

    «Mi hai picchiato, perché la tua ragazza ha goduto per la prima volta nella vita? Sii comprensivo» lo sfotto. «Sta con te, non ha molto con cui divertirsi.»

    «Baciami il culo, Alan!»

    «Me lo chiedeva anche lei.» Sorrido beato, con i pugni nelle tasche dei jeans. Per adesso è meglio tenerli buoni.

    «Basta! Frena la lingua, stai oltrepassando il limite.»

    «Posso romperti il culo quando voglio, perciò frena la tua.»

    Questa volta sono sveglio e lo schivo. Mi scanso all’ultimo, perciò sbatte contro il lavandino dov’ero finito io. A un nulla dallo specchio. È stato sufficiente subire inerme un singolo schiaffo, per rendergli facile l’attacco successivo.

    «Ha detto che l’hai costretta» mi accusa, livido in viso.

    Gratto la testa, le immagini di noi due offuscate dall’erba. Franzis non è stata granché, perciò ricordo poco, figuriamoci i discorsi. La campanella suona la fine della ricreazione.

    «Non so perché ce l’hai con me. Se la ripassa mezza scuola. Vuoi anche tu mezz’ora con la tua ragazza? Sborsa un centone e alzerà la gonna.»

    Jimmy e io non siamo neanche nella stessa classe. Faccio per tornare in aula, quando lui mi sorprende alle spalle. La sua sfortuna è stata trovarsi davanti lo specchio, quindi di rientrare nella mia vista periferica. Schivo l’affondo e mi preparo a colpirlo sotto il mento. Le sue parole mi pietrificano.

    «No, quella che alzava la gonna era tua madre.»

    Avrei dovuto dirgli che non ero in vena di una rissa, che ero stato spedito dal Preside per aver fatto girare in classe il disegno di sua moglie inginocchiata sotto la cattedra e il corpo docenti in fila per un lavoretto di bocca. Di dover tornare a piedi in una casa di tre stanze e con le finestre sfasciate, perché è scaduto l’abbonamento per l’autobus e non ho altri soldi. Di essermi strappato i jeans per scappare dal cane del vicino che si apposta dietro la porta per mordermi il culo. Con la scomparsa di mamma, papà è diventato un fantasma. Il crollo della mia famiglia è stato una catastrofe, però è la mia catastrofe e gli altri non devono riderci dietro o dimostrare pietà. Avrei concluso in fretta con la fantomatica frase: è la vita. Ma lui ha trascinato la donna sbagliata nel litigio.

    «Perché fai quella faccia sorpresa?»

    Lei che non avrebbe voluto vedermi fare a botte.

    «In città tutti sapevano quanto si divertisse.»

    Il gancio nello stomaco gli cancella il sogghigno. Il secondo gli dipinge una smorfia di dolore e il terzo gli cambia i connotati. L’adrenalina mi spinge al massimo. Non sento niente, se non onnipotenza ed elettricità in corpo. Potrei pestarlo sino al giudizio universale. Una rabbia istintiva sbuca dai meandri più oscuri e sembra inesauribile.

    Quando la mente torna nel bagno della scuola, sono sporto dalla finestra. Jimmy tre piani in basso, scomposto e in una pozza di sangue che si allarga a poco a poco. Scavo nella memoria e non ricordo di averlo sentito urlare. Mi massaggio i bicipiti aspettando il dolore per lo sforzo di aver scaraventato un corpo di sotto.

    Ancora niente.

    Contemplo le mani che l’hanno spinto. Sono le stesse di sempre. Lavo il viso disorientato il più in fretta possibile, con gesti nervosi. Schizzo acqua ovunque. Ingoio la bile, sforzandomi di orientarmi. Sudo come un animale e sarà difficile fingere calma senza una canna in circolo.

    Il disprezzo resta, in compagnia del fastidio e di una ribellione interiore. Credevo di averlo superato. Sono trascorsi tanti anni, eppure il senso di colpa non mi abbandona. È infilato tra le vertebre, annodato nello stomaco.

    Levati dalle palle, che non respiro!

    Esco dal bagno, mantengo l’attenzione a terra e le nocche scorticate nelle tasche per l’intero

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