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L'amore cattivo
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L'amore cattivo

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About this ebook

Un’antica ferita, la paura, il bisogno d’amore. Nora è una donna in fuga: dalla famiglia, dal suo paese di provincia, da Bologna dopo gli studi. Approda a Milano dove si sforza di dare senso alla sua vita. Ha un lavoro che ama nel campo pubblicitario e delle amiche fidate, ma è sola, spaesata, disturbata da un passato pesante. Violenze, rabbia, urla, litigi, solitudine. Vive in difesa, sentendo sempre di non essere abbastanza. Si mimetizza, osserva la vita attorno senza viverla davvero. Anche per questo le è difficile aprirsi all’amore e fidarsi di un uomo.
Ma un giorno, in una libreria in stazione Centrale, accade. L’illusione di un amore possibile, di una felicità a portata di mano. Incontra Alessandro, colto, raffinato, sensibile. Alessandro le fa cadere ogni difesa, e Nora sente forse per la prima volta il calore che può dare una relazione intensa, emozionante, inaspettata. Si fida da subito. Si illude. Ben presto però Alessandro inizia a mostrare lati nascosti della sua personalità: è possessivo, geloso, manipolatore, maniaco del controllo e violento. Nora ricade nel baratro della violenza, soprattutto psicologica, e tra resistenze antiche e fragilità emotiva tenta di reagire e non sottomettersi, si ribella a questo “amore cattivo”.
Viviamo con lei il tormento, la paura, l’indecisione, i ripensamenti, i meccanismi mentali che si azionano di fronte ai ricatti emotivi, al controllo possessivo, ai sentimenti contrastanti, alla difficoltà di svincolarsi da un’illusione d’amore.
Un libro doloroso e intenso, un viaggio all’interno del cuore e nella mente di una donna che sa riconoscere che l’amore spesso può essere qualcosa di tutt’altro che buono.
LanguageItaliano
Release dateSep 1, 2015
ISBN9788861556157
L'amore cattivo

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    L'amore cattivo - Francesca Mazzucato

    Francesca Mazzucato

    L’amore

    cattivo

    prefazione di Camilla Ghedini

    Collana Riflessi del presente n. 14

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

    info@giraldieditore.it

    www.giraldieditore.it

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    ISBN 9788861556157

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2015

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.

    Sarò una stella come le altre

    perché non c’è stella che s’inabissi

    ognuno rimane lungo il cielo

    lungo il lago ghiacciato

    ed io sono quel punto che rimane là,

    tra il cielo e la terra,

    sono il tu dove passa la mia anima

    perché tutto è fermo,

    i paesi che sfociano in vallate

    e non c’è morte, una soltanto,

    che si distingua dalla vita.

    Roberto Carifi

    Aprile è il più crudele dei mesi, genera

    lillà da terra morta, confondendo

    memoria e desiderio, risvegliando

    le radici sopite con la pioggia della primavera.

    L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse.

    T.S Eliot

    Devota come ramo

    curvato da molte nevi

    allegra come falò

    per colline d’oblio,

    su acutissime làmine

    in bianca maglia d’ortiche,

    ti insegnerò, mia anima,

    questo passo d’addio…

    Cristina Campo

    Prefazione

    Finalmente un libro in cui il sentimento universale, l’amore, viene trattato al femminile attraverso una categoria tanto semplice e infantile quanto autentica, la cattiveria. Quella usata dai bambini per capire e giudicare il mondo: «Mamma il mio amico è buono, mamma il mio amico è cattivo». Dove nell’aggettivo cattivo c’è tutto ciò che attiene all’istinto: la diffidenza, la paura, il buio, il freddo, l’ansia, la perdita di controllo, il bisogno di rivedere la luce e trovare la mano del genitore cui aggrapparsi. La stessa luce che da adulti equivale al bisogno di vivere l’amore in una completezza che forse non esiste. E allora si cede, si deroga, si rinuncia ogni giorno a pezzetti di sogno pur di dividere la propria vita con qualcuno, pur di avere l’illusione di essere una coppia che, chissà perché, nell’immaginario collettivo equivale alla perfezione, quando più spesso è solo l’incontro tra solitudini e frustrazioni in un tentativo maldestro e malsano di incastro. E così, nella ricerca della stabilità, ci si avvicina al precipizio. E così, l’aggettivo cattivo assume l’accezione di ambiguo, perverso, ossessivo, maledetto, violento, criminale. Con un ritmo incalzante, Mazzucato ci trasporta nel disagio e nella disumanità. Non solo dentro la testa e il cuore dei protagonisti, ma dentro le nostre stesse viscere.

    Mazzucato mette in stretta relazione l’età adulta con l’infanzia, palesando – seppur non dichiarandola e lasciandola all’intuizione e alla sensibilità del lettore – una verità sacrosanta: se non ti sei sentita amata dalla mamma, non ti sentirai mai veramente amata da nessuno; se non ti sei sentita bella per la mamma, non ti sentirai mai abbastanza bella per nessuno; se non ti sei sentita abbastanza per fare felice la mamma, allora non potrai mai rendere felice nessuno; se la mamma è stata cattiva, allora non potrai mai riconoscere davvero la cattiveria degli altri, perché in qualche modo ti sembrerà normale, giusta, addirittura – purtroppo – meritata.

    Questo romanzo ci porta oltre l’amore, ci riporta al suo inizio, là dove tutto nasce, in un rincorrersi di mai che si cristallizzano in sempre. Ci fa capire che se ci imbattiamo nell’amore cattivo, è perché nell’età che dovrebbe essere dell’incanto qualche ingranaggio emotivo è saltato. Certo, non bisogna generalizzare, perché si può essere figlie amatissime e cadere nelle grinfie di un dannato. Così come si può essere figli educatissimi e trasformarsi in dannati. Però è vero che la cronaca, quando ci consegna fatti oggi derubricati alla voce femminicidio, si concentra sulla coppia, un tempo forte e invidiabile e poi all’improvviso... Basta ascoltare le interviste fatte ai vicini di casa, che paiono sempre gli stessi e ripetono frasi retoriche e standard, del tipo «chi l’avrebbe mai detto, erano così affiatati, qualche litigio, come tutti». Il fatto è che la verità di un amore cattivo non va cercata solo lì, alla fine, all’epilogo, qualunque esso sia. Va indagata prima, al tempo in cui si è formata la nostra personalità, quando la realtà si divide in due principali categorie: buono e cattivo. Che poi, da grandi, si articolano in giusto e ingiusto. E allora, l’amore cattivo è anche profondamente ingiusto.

    Camilla Ghedini

    UNO

    E accade all’improvviso, tutto insieme, la serranda del garage che si alza, il fremito, il sussulto, non c’è tempo per pensare troppo. Non c’è tempo per niente, l’erosione dei minuti è scandita dai passi composti e ritmici, dalla sua pelle che, nell’attesa, diventa rossa d’apprensione, imperlata di un sudore gelato.

    Deve sistemare i cuscini sul divano, ordine perfetto, colori in gradazione, la bottiglia per l’aperitivo, il ghiaccio già pronto, i libri d’architettura uno sopra l’altro, l’ultimo aperto, le luci abbassate, la musica, il volto mansueto, le mani ferme, non una traccia di polvere, nessuna sbavatura, andrà bene, ripete, andrà tutto benissimo.

    L’amore feroce, quello delle bestie selvagge.

    Che scortica, taglia, incide.

    Quello storto, che diventa crimine.

    L’aveva conosciuto troppo presto.

    Le era rimasto addosso come un’ustione.

    Nora appoggiò il naso al vetro della finestra come faceva da bambina e nell’alone disegnò una stella e una ballerina triste.

    L’interno di un carillon antico.

    Quelli con musica e movimento. Meccanismi perfetti, così diversi dalla vita.

    Che si inceppa in un istante, si scombina.

    I carillon funzionano sempre. Li rompe solo l’incuria.

    La neve si era affacciata durante la notte stendendo un velo bianco sui tetti. Si era alzata a guardarla due volte, svegliandosi di soprassalto.

    Creature leggerissime danzavano sulla città addormentata, illuminate dai lampioni e dai fanali delle macchine.

    Aveva pensato di mettersi a cucinare. Preparare una torta. Portarla al lavoro al mattino, sorprendere i colleghi. Le piaceva cucinare di notte. Scombinare la cucina, domare l’insonnia creando. Un suggerimento della zia Eloisa, tanti anni prima. Talmente tanti da non metterli a fuoco. Ma il consiglio era giusto. Muovi le mani se sei agitata. Crea, se non dormi, non perdere tempo.

    Dormire era difficile con il tempo cambiato, l’atmosfera gelida intorno. Bianco il cielo e il paesaggio. Cucinare serviva a rilassarsi. Lasciarsi andare agli impasti. Raccogliere grumi e rimasugli. Ma le mancavano ingredienti importanti, così era tornata a dormire. A provare, girandosi da ogni lato, bevendo ogni tanto un sorso d’acqua. C’erano notti che non miglioravano. Arrivavano tutti i ricordi, con la neve e l’infanzia, con la gola secca e gli occhi umidi, con quella sinfonia struggente che sentiva avvolgerla quando la sua mente tornava alla ragazzina che era stata.

    Magra, fragile, maltrattata. In bilico. Intrappolata in una storia non sua. Maltrattata nel corpo, in quell’estraneo invadente.

    La neve di Milano aveva una consistenza tutta speciale, lei ne ricordava una diversa. Da piccola l’aspettava insieme ai suoi compagni di scuola, ci giocavano fino a congelarsi le mani. Dietro di loro lasciavano interi mondi di pupazzi bianchi e fortini plasmati da chi aveva i guanti più resistenti. La neve disponeva alla creazione. Adesso era al lavoro ma si distraeva con niente in quei giorni di freddo e ricordi. C’erano finestre troppo grandi, ed era ancora tutto bianco. Fu inevitabile pensare ai genitori lontani e al paese soffocante dove era cresciuta che le riapparve davanti all’improvviso: rivide ogni angolo in sequenza, come un film troppo lento. Le case color ocra, la strada principale, gli anziani sulla panchina, la drogheria delle meraviglie, le corse, la fatica dei doposcuola, la chiesa, lo spaccio, la loro villetta.

    La casa di Eloisa, le paste della domenica, le more. Morse l’unghia del pollice destro con lo stomaco ribaltato e la nausea mischiata alla paura.

    – Dove vai oggi?

    – A fare i compiti da Claudia. Mi vieni a prendere mamma?

    – Figurati. Ho l’emicrania. Vai e lasciami perdere. Se ti sporchi, laverai a mano i tuoi vestiti appena tornata.

    – Ma...

    – E verrò personalmente a controllare che tu ti faccia una doccia. Con quella Claudia ti riduci in modo indecente. Vattene ora.

    Le voltò la schiena con la sua compostezza tragica. Quella schiena magra e dritta. Proporzionata e feroce, che si squarciava in sussulti nei momenti più neri. Si allontanò senza aggiungere altro.

    E lei se ne andò correndo, già in fuga. Si rivide, nitida, ferita, troppo giovane e fragile.

    Il film continuò, la parata di carnevale, la piscina, la squadra di pallavolo, i cesti della contadina, il cloro, gli occhi rossi, la ferrovia abbandonata, i silenzi del padre, le fughe, la bicicletta, le urla della sorella, i rifugi d’emergenza, i rimpianti. La morale comune, i soprammobili della vicina, lei che si nascondeva nella stanza segreta. La doccia senza chiave, lo smarrimento. E poi c’era la zia Eloisa. Che era speciale. Per fortuna che c’era.

    – Cosa fai?

    La madre dietro di lei che apriva la credenza. Il rimmel sbavato, il viso simile a una maschera, lo sguardo drammatico.

    – Volevo cu... cucinare qualcosa. Posso? Stavo cercando gli ingredienti.

    – Va bene, fa pure. Io vado in camera mia. Non so se verrò a cena. Devo dormire, nessuno riesce a capire quanto bisogno ho di riposare.

    – Ci saranno il papà e Annalisa. A loro farà piacere che io prepari.

    – Non lo so, non posso occuparmene, fai quello che ti pare, basta che non ci sia troppa confusione, ricordatelo.

    – Certo, mamma.

    Di solito scendeva anche lei sul tardi. Le veniva fame, sbatteva la porta, scendeva rumorosamente, con vestaglia e camicia, ciabatte rosa col tacco alto, ridicola e drammatica.

    Una farsa di madre.

    Una comparsa patetica.

    Mangiava silenziosa, con le lacrime che le solcavano il viso sfatto, masticando con metodo. Nessuno le parlava, poteva arrivare la crisi, la furia, la recriminazione. Si preferiva evitare in silenzio. Circumnavigare il disagio. Lasciarlo accucciato nell’angolo.

    Milano, pomeriggio. L’interno dell’ufficio è color crema con macchie di grigio. Illusioni di efficienza. Milano, quasi sera. All’interno gli ultimi. Fuori, la vita che cambia verso, colori e bioritmo. A guardarlo, il palazzo, ci si perde, lo si dimentica, si mimetizza con altra architettura periferica pretenziosa. Un edificio con singolari balconi riflettenti e vetri a specchio, come tanti. La singolarità a Milano è un’idea.

    Nora prese l’ennesimo caffè. Lasciò che le nuvole del crepuscolo viola portassero via tutti i ricordi. Contò fino a tre. Piccoli rituali per mantenere il controllo.

    – Mi prepara quei documenti di cui le ho parlato stamattina? – domandò alla giovane stagista nella hall che aveva raggiunto senza distogliere lo sguardo dalla vetrata.

    – Certamente, glieli porto subito.

    Quella città era stata approdo e riparo e adesso splendeva, intensa, fredda, singolare. Faceva foto ogni volta che poteva. Inquadrava piegandosi le cose più strane. Era attratta dall’obliquo, nei panorami.

    La grande città non aveva morali preconfezionate, costrette o imposte. La grande città lasciava scorrere le giornate nella ricerca di senso di chi l’abitava per amore, per scelta, fuga o esilio.

    C’era riuscita. Aveva costruito la sua vita altrove.

    Porta lontano la tua fierezza, lontano da dove non ha casa, le diceva la zia. Le aveva dato ascolto in parte, le tracce della fierezza di cui Eloisa parlava in lei erano piccoli embrioni. Minuscoli bozzoli. A volte morivano.

    Ritornò verso il suo ufficio. I fantasmi si allontanarono. Non poteva succederle niente, era lontana. A Milano, al lavoro, quello che vedeva appoggiandosi al vetro era un altrove dove abitava da tanto, solo suo, quei fermo immagine erano sovrapposizioni del passato.

    Chiuse gli occhi e li riaprì. Cercava di non rientrare a casa spesso. Sua madre l’aspettava e insisteva tanto, suo padre e sua sorella avevano voglia di vederla, ma era sempre Clara che la cercava con telefonate veloci, sms lapidari o messaggi in segreteria che cercavano di far leva sul suo senso di colpa e le sue mancanze. Lei rappresentava l’errore, non era mai adeguata. La sofferenza della madre si riversava su di lei a cicli, ondate di rabbia che accentuavano il peso della colpa che già provava.

    – Non pensi a noi?

    – Mamma, non è questo il problema.

    – Non provi a metterti nei panni di tua madre?

    Il padre non la chiamava quasi mai, era cortese quelle poche volte che si vedevano, quando decideva che doveva assolutamente andare, che poteva reggere la finzione per un paio d’ore.

    A casa scambiavano parole di cortesia e si perdevano in discorsi neutri e inutili. Nessun argomento vero, nessuna emozione.

    Sospirò. Negli ultimi tempi aveva sempre declinato. A volte c’erano impedimenti reali, altre volte li inventava cercando di risultare credibile, tanto Clara non avrebbe mai cercato di andare in profondità. Si sarebbe limitata a un po’ di sarcasmo mostrando il suo profondo disappunto scegliendo le parole più dure. Fredde, offensive. Non ci vuoi bene, non ti manchiamo, sei distante, ingrata, come vuoi. Come preferisci. Non era questione di preferenze. Le mancavano, in fondo, in un certo modo, erano sempre con lei. Avrebbe voluto aggiustare le cose. Spiegarsi, magari. Ma era troppo tardi, o non c’era tempo, e quegli inviti non erano adatti. Avevano precise liturgie impossibili da scalfire.

    Le mancava la zia Eloisa. Mancava solo a lei. Non era nemmeno una vera zia. Era una di quelle parentele spurie e indefinibili. Si diceva zia, ma forse era una seconda cugina, o la zia del padre. Magari non c’era un vero legame di sangue ma non importava. Non era mai andata a fondo.

    Eloisa era unica. Più vicina di tutti. C’era lei e poi il resto: quegli inviti ricorrenti, senza senso. Senza verità. Occasioni false, stomachevoli finzioni di un’armonia mai esistita, torture mascherate, esibizioni fasulle che nascondevano risentimento e silenzi. Veniva travolta dai soliti conflitti, dai rancori. La rabbia ribolliva, gorgogliava, scivolava fuori e la bruciava. Rientrava con ustioni, lava bollente su tutte le cicatrici antiche e anche su quella fragilissima pelle nuova che si era formata con fatica. Ogni volta una nuova guerra cominciava silenziosa ma era pronta a trasformarsi in un conflitto aperto. Per sopravvivere doveva controbattere, arrabbiarsi, spiegarsi, ma aveva deciso di non farsi schiacciare mai più, la sua salute e la sua tranquillità erano più importanti. La sua vita non aveva bisogno di scuse e giustificazioni.

    Non andare.

    Amarli a distanza, perché li amava tutti.

    Amarli di quel suo amore, silenzioso.

    Non farsi catturare, illudendosi.

    Non andava mai meglio.

    Li pensava senza rancore. C’era solo la paura.

    Una paura fedele, docile come un cucciolo, una paura che le somigliava.

    All’inizio aveva tentato, più di una volta. Ricomporre, ritessere, riportare l’orologio indietro. Avvolgere la moviola. Ma la madre e il padre si strappavano la pelle fra rimproveri e sensi di colpa, poi interveniva la sorella e peggiorava tutto. Preferiva evitare, no, non vengo, non posso.

    Usava quei fragili no dietro i quali si nascondeva. Si sentiva sradicata, certo. A volte era piacevole, altre meno. Non aveva un compagno da tempo. Era spesso sola nei fine settimana. A Milano faceva una vita abbastanza ritirata, e sapeva che anche questo era fonte di preoccupazione per i suoi, non per premura ma per le convenzioni. Alla sua età l’avrebbero voluta già sposata e con figli come la sorella Annalisa, e non perdevano occasione per farglielo pesare ma Nora sapeva bene che era un semplice pretesto. Se avesse avuto marito e figli, ci sarebbero stati altri modi per farla sentire fuori posto.

    Si morsicò la pelle di un altro dito. La scusa del lavoro andava bene, la tirava fuori in automatico ogni volta che l’idea di tornare a casa la terrorizzava ancora prima di essersi

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