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Il bambino del mercoledì
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Il bambino del mercoledì

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Questa è la storia di Giò e di suo padre separato, che infiniti dolori inflisse a entrambi. Oltre a inestimabili gioie, che qualcuno tentò inutilmente di cancellare. Fu, senza dubbio, una guerra. Più esattamente, un percorso di guerra. Con molte trappole disseminate, che è meglio imparare a conoscere ed evitare. Qualcuno potrebbe anche interpretare questo romanzo come un “Manuale di sopravvivenza del Padre Separato”. Per altri assomiglia a un giallo. Poteva essere una storia come tante di separazione coniugale. Diversamente da tutte, fu particolarmente efferata, soprattutto il giorno in cui un bambino, legato a suo padre e ai propri diritti, si vide improvvisamente e senza ragione negata la possibilità della consueta visita settimanale. Assieme a tutto il resto. E si ritrovò a protestare, e piangere, e tra le lacrime urlare: “Ma domani è mercoledì”.
LanguageItaliano
Release dateDec 14, 2012
ISBN9788861555099
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    Il bambino del mercoledì - Gianluigi Schiavon

    padre

    Primo Capitolo

    L’ULTIMA UDIENZA

    Al secondo whisky il Signor B aveva già cantato Yesterday, in memoria del bei tempi. Al terzo, la nostalgia cedette il posto alla curiosità di sapere cosa diavolo stesse facendo in quel lurido piano-bar della Riviera. Si guardò intorno: davanti a sé, oltre il bordo del tavolino, l’enorme deretano fasciato di insufficiente tela bianca e appartenente a una sudamericana alta quanto il tavolino stesso e larga il doppio, ballonzolava al ritmo di un cha-cha-cha casereccio. Una bolgia: tette e culi in permesso d’uscita dalle più essenziali forme di pudore rimbalzavano davanti agli occhi appannati del Signor B, urtavano contro le sedie nell’angusto spazio sotto il palco, travolgevano bambini stravolti ed eccitati dall’ora tarda, intrappolavano negli angoli della sala anziani ballerini da moviola, rimasti incagliati nel ritmo della canzone precedente, e shakeravano i cocktail in bilico sui ripiani in finto marmo nell’inarrestabile ondeggiare di quel maremoto sonoro. Il Signor B mise in salvo il bicchiere di nuovo riempito dall’esperto cameriere: quarto whisky. Ed ebbe un soprassalto.

    Quanti anni hai? chiese un viso pesantemente truccato sopra un’abbronzatura decennale, apparso improvvisamente a 4 centimetri e mezzo dal suo orecchio sinistro. Era un volto di donna: né bella né brutta, a quanto poteva intuire il Signor B, né giovane né vecchia, per quel che riusciva a vedere nella semioscurità.

    48 rispose senza avere il tempo di studiare una strategia, che non fosse una piena sincerità coadiuvata dall’alcol.

    Ma come? fece quella con una pelle così liscia… eppure da laggiù io e le mie amiche non riuscivamo a capire. Colpa di queste tue tempie brizzolate....

    Al quinto whisky il Signor B. non stava più bevendo al suo tavolino. Ma a quello di tre quarantacinquenni-cinquantenni, come potè constatare con maggior precisione sotto una luce diversa in un angolo più appartato del piano-bar, bellocce e pienotte nei loro vestitini firmati, come stabilì fin da subito, signore-bene in fuga balneare dalla vicina metropoli-altrettanto-bene.

    È per via dei dispiaceri sentì dire da una voce che non riconobbe come sua.

    Come? chiesero le altre tre in coro.

    I capelli bianchi, intendo, i capelli brizzolati che mi sono venuti in questi ultimi quattro anni....

    Eh sì, lo stress, sì la vita nella grande città. Siamo scappate via giusto questo pomeriggio. Basta, ci siamo dette, chiudiamo la boutique e ce ne andiamo in vacanza. E tu, che lavoro fai?. Domandarono le tre di nuovo all’unisono. Nemmeno in questo caso il Signor B seppe mentire, anche se la sua risposta fu completamente fuori tono:

    Sono un Padre Separato.

    Affascinante!.

    Il sesto e ultimo whisky il Signor B se lo portò sul molo di fronte al piano-bar assieme al trio di coriste notturne.

    E lì, sullo sfondo del golfo, continuò la serata di cui non ricordò mai più nulla. Tranne l’occhio rimproverante di una luna piena, la stessa che suo figlio, il piccolo Giò, soleva ai bei tempi chiamare la Signora Luna.

    Si svegliò solo, disteso sul cemento della banchina, il bicchiere sottosopra, e lui che sommessamente canticchiava nella notte:

    Yesteerdaayyyy.

    Diventerà un alcolizzato. Lo diventano tutti.

    L’enorme avvocato, il primo di uno stock completo di dodici, aveva il tatto inversamente proporzionale allo stomaco prominente.

    Quando ci sono separazioni così continuò molti uomini, di solito, prima perdono la casa, quindi il lavoro e poi si mettono a bere. Ne ho visti tanti far quella fine. Ma non vide finire così il Signor B. Per due ragioni. Innanzitutto perché a quel primo appuntamento con il legale appesantito dall’adipe e dalla cialtroneria ne seguì un numero pari a zero assoluto, per espresso atto di volontà e d’orgoglio del cliente. E poi, seconda e definitiva motivazione, perché alcolizzato, alla faccia dell’avvocato grasso e di molti altri in questa storia, il Signor B non lo diventò mai. Solo quella sera, quattro anni dopo l’inizio di tutto, nel gran sommovimento di sederi, tra lune piene e signore di taglia similare, interrogativi risolti sulla sua capigliatura e altri più personali ancora inesplorati, si era lasciato andare. E, anche in questo caso, di ragioni ne poteva ben trovare.

    L’occasione era speciale: doveva prepararsi per l’ultima udienza, quella decisiva nella causa di separazione, iniziata sedici stagioni addietro. Per farlo gli era toccato rileggere, a ritroso e in ordine cronologico, ordinanze, documenti, prove testimoniali, perizie, relazioni dei servizi sociali, atti di precetto, ricorsi urgenti ex articolo 700…

    Scendo all’inferno e torno aveva detto a se stesso, caricando in macchina lo scatolone di documenti da studiare in un posto tranquillo.

    La risalita fu un po’ più difficoltosa del previsto.

    Porcaputtana, Giò, non possiamo continuare a vederci così.

    Non si dice porcaputtana, babbo.

    Hai ragione, porcatroia, ma questi qui ci stanno facendo impazzire.

    Chi sono questi qui, babbo?.

    Lorsignori, piccolo Giò: giudici, avvocati, dottori e dottoresse e soprattutto....

    Sì, ho capito… ma non ne parliamo più. Se no diventiamo tristi.

    Hai ragione, piccolo mio… Tu cosa suggerisci?.

    Ti dico una cosa, babbo. Facciamo come oggi: io ti dico al telefono dove mi portano e tu passi a vedermi, anche se tutti quelli lì non vogliono… ce ne freghiamo.

    Affare fatto, Giò… non si dice ce ne freghiamo… Però si fa. Il Signor B e il piccolo Giò, quarantun’anni meno del primo, più coraggio e determinazione in certe circostanze critiche, erano in guerra. Combattevano assieme, ma su un fronte scomodo: da ostaggi. C’era chi aveva deciso che da un certo momento in avanti si sarebbero potuti vedere solo in quelli che lorsignori chiamavano: incontri protetti. Il significato di quella formula il Signor B lo capì ben presto: era la fine delle gite domenicali, del rischiare la vita a quasi 50 anni sui megascivoli dei giardini pubblici, delle cene pantagrueliche al ristorante, del sugo casus belli sui pantaloni (La mamma diventerà una furia), della cacca improvvisa in corsia di sorpasso in autostrada quando l’orario di rientro fissato da ordinanza era scattato già al casello di entrata (Devo proprio farla, babbo, seguiva pit stop in autogrill, cambio-pannolino-lavaggio-mani-e-quant’altro in secondi 4 e mezzo, ripartenza a razzo). Ora basta, tutto finito: incontri protetti, visita padre-figlio solo ed esclusivamente presso la sede dei servizi sociali, un’ora alla settimana perché l’amministrazione non può concedere di più. Il senso della formula fu subito chiaro anche a Giò:

    NON VOGLIO ANDARE IN QUELLA STANZETTA. E non ci andarono mai perché il Signor B mandò a quel paese il giudice, il suo avvocato, in compagnia naturalmente della cosiddetta ‘controparte’ nella causa di separazione e dell’amministrazione tutta. Il senso della imprigionante formuletta, lorignori non lo chiarirono mai, se non con frasi del tipo: Lei Signor B è un ribelle, non può fare con suo figlio quel che le pare, lei si deve assoggettare alle regole, lei insomma si deve piegare (espressioni liberamente tratte dal frasario preferito di un’assistente sociale, anche lei giocoforza spedita a quel paese).

    Così il Signor B e il piccolo Giò entrarono in clandestinità. Il bambino, sussurrando nella cornetta, segnalava le sue prossime presenze sullo scenario cittadino (Domani, alle 5 c’è la recita a scuola, e buttava giù), il padre non rispondeva nulla (anche un Ci sarò avrebbe messo in preallarme le milizie familiari della controparte), ma poi improvvisamente compariva nel luogo giusto al momento giusto: il linguaggio in codice, fatto di sussurri e silenzi, funzionava egregiamente, a volte arricchito, a operazione compiuta, di infantile ironia (Ma come fai, babbo? Sei un mago, espressione liberamente tratta dal frasario del piccolo lestofante).

    Ora Giò e il Signor B erano nel cortile della scuola, terreno neutrale, l’amministrazione non poteva impedire pubbliche visite, non aveva leggi e codicilli che contemplassero l’evenienza. Giò vide suo padre entrare, fece un sorrisetto significativo e annunciò a pieni polmoni, cercando l’effetto:

    Bambini, c’è mio padre!.

    E l’ironia lasciò il posto all’orgoglio di figlio e a una lacrima repressa (del padre). Non si vedevano da due mesi, da quando erano entrate in vigore le nuove norme di (non) visita, ma i due ostaggi ce l’avevano fatta, scegliendo assieme il luogo di incontro, sul terreno di battaglia al confine della loro personalissima guerra. Ciò che seguì fu la discesa in campo delle truppe familiari della controparte, l’ex moglie, l’ex suocera, perfino l’ex cognata, accomunate dal sopracciglio destro levato in segno di incontrollabile disappunto e rossore delle guance a testimonianza di un rivolgimento biliare in corso. Circondarono il Signor B, durante la recita in classe si piazzarono alla distanza di un doppio decimetro dal nasino del bambino e da quello di suo padre, provocarono all’infinito (Dobbiamo controllare), cercarono la rissa in mezzo a duecento scolari con relative scorte familiari, volevano un appiglio, uno qualsiasi, una reazione, un vaffanculo, una smorfia, un dettaglio comunque negativo e attribuibile con certezza alla figura paterna da poter portare in trofeo a giudici, operatori sociali e quant’altri sodali. Non ci riuscirono: il Signor B c’era abituato, erano tre anni che andavano avanti così e lui aveva scelto una via gandhiana alla separazione coniugale (una volta lo disse anche a Giò: Sono come il Mahatma, mi stendo su binari, faccio resistenza passiva. Chi è il signor Matta?. Mahatma. Te lo spiego quando sei più grande. Ti do un consiglio: stai attento al treno, è pericoloso. Terrò presente).

    Poi le parenti materne cominciarono la partita a rugby. La palla era il piccolo Giò. Il Signor B si avvicinava e quelle circondavano il bimbo chiudendolo in un cerchio inespugnabile. Così credevano: il Signor B, sfruttando una potenza muscolare che non credeva di possedere, sporgeva le braccia e sollevandolo di peso estraeva il prigioniero dal nugolo di facce, gambe e pance. Poi lo teneva stretto fra le braccia e si allontanava in un angolo del cortile scolastico. Quelle dietro. Lanciando bacini. Cercando di attirarlo come nelle favole nere: Guarda che bella caramellaaaa. Cambio di braccia, da una ex all’altra, la già cognata passa alla già suocera che offre il servizio alla già moglie. Finché Giò non decise lui il da farsi: prese la rincorsa e rischiando l’osso del collo si buttò a corpo morto verso l’abbraccio del padre. Che non mancò la presa. Giò aveva il solito sorrisetto trionfante. Riuscirono così anche a parlare, in un momento di spossatezza delle giocatrici di rugby.

    Giò, appena possibile voglio andare dal giudice. Voglio dirgli che questa storia deve finire, che dobbiamo ricominciare a vederci come una volta… Liberi.

    Sì, ma non andare dalla stessa giudicessa della mamma....

    Vedrò cosa posso fare....

    Te lo dico: non andarci da quella, fa sempre quello che vuole la mamma. Lo sai anche tu....

    È vero, l’abbiamo capito in due. E allora?

    "Non lo so, babbo. Comunque devi andare là e dire tante volte, mi sa che lo devi proprio urlare:

    VOGLIO VEDERE MIO FIGLIO, VOGLIO VEDERE MIO FIGLIO, VOGLIO VEDERE MIO FIGLIO, VOGLIO VEDERE MIO FIGLIO…".

    Signor B, a cosa sta pensando?

    Il Signor B ristette: l’udienza era già iniziata e lui non se n’era accorto. Aveva la testa altrove: ancora nel cortile di quella scuola, anche se ormai era passato più di un anno, e troppe ne erano successe nel frattempo.

    Signor B, insomma, vuol degnarci di un po’ di attenzione? Dopotutto questa udienza l’ha chiesta lei. Ha qualcosa da dichiarare?.

    Sì, signor giudice: VOGLIO VEDERE MIO FIGLIO, VO-GLIO VEDERE MIO FIGLIO, VOGLIO…

    Alt, basta così. Come si permette? Lei è in un tribunale, se lo ricordi bene.

    Il giudice che il Signor B si trovava ora di fronte era il quarto della serie. L’avvicendamento di toghe diverse durante una causa di separazione, gli avevano spiegato un paio di giorni prima in cancelleria civile, era un fatto normale, quasi la prassi in queste aule, sa, anche i tribunali soffrono di carenza di personale, la giustizia italiana è quella che è, a volte ha tempi lunghi, ovvio che un magistrato può nel frattempo cambiare ruolo, città, perfino mestiere. Comunque tutto poi va a posto… È normale….

    Normale un cazzo, aveva pensato il Signor B, innervosendosi nel vedere come quell’impertubabile segretaria cercasse di propinargli la storiella della giustizia lenta, ma inesorabile nella sua funzionalità: di normale nella mia storia non c’è proprio un accidente, e qui non si tratta di avvicendamento di toghe ma di fuga bell’e buona dalla proprie responsabilità, glielo voglio proprio dire, assieme a tutto il resto, a questo nuovo giudice.

    Il quarto giudice della serie, ora davanti al Signor B, era un uomo. Dopo, in ordine cronologico, un altro uomo (figura evanescecente: fece una sola udienza) e due donne (udienze, in totale, quattordici. Risultato cumulativo: un’ulcera). E ora ecco di nuovo un uomo, meno male, forse è un buon segno, aveva pensato subito, nel vederlo, il Signor B che stava cominciando a sviluppare una misoginia giudiziario-amministrativa, dopo quattro anni di frequentazione di giudici-donne, consulentidonne, psicologi-donne, cancellieri-donne: pareva che l’universo separazioni coniugali fosse appannaggio esclusivo della galassia femminile. Per forza le ex mogli la spuntano sempre in queste cause, si era convinto il Signor B, cresciuto ed educato secondo paradigmi più liberali, ma ora convertito al principio del d’ora in poi dico e penso esattamente quell’ostia che voglio.

    D’altra parte, lo sapeva altrettanto bene, la sua distinzione sessista dei professionisti del settore naufragrava se ripensava alla schiera dei suoi avvocati. Quello che ora aveva di fianco era il numero dodici. Prima di lui si era servito di una serie di legali assortiti per sesso e convincimenti: imponenti principi del foro, centenarie regine del tribunale, ex femministe e sfegatati maschilisti, femministe di ritorno e maschilisti pentiti. Tutto inutile, visti i risultati. Li accomunava un dettaglio per nulla trascurabile: a nome

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