Racconti torinesi da leggere in tram
By Ezio Boero
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Persone, animali, fatti visti dai finestrini di un tram, dalla panchina di una fermata, dai gradoni dello stadio, dalle sedie di un cinema o di un concerto.
Impressi negli occhi, mentre la Città gira attorno coi suoi ritmi escludenti.
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Racconti torinesi da leggere in tram - Ezio Boero
cani
Introduzione
M’è venuta l’idea di questi racconti in giro per Torino.
Seduto sulla panchina di un giardinetto, sul sedile di ferro di una fermata del bus, su quello di legno di un vecchio tram, sulle gradinate dello stadio (quando non c’erano ancora i seggiolini di plastica).
Mentre la città girava attorno a me.
Ho preso spunto da quello che vedevo.
I personaggi sono inventati, le situazioni viste e possibili.
Un’umanità variegata e travagliata, che non ostenta un SUV, ma la propria difficoltà a vivere.
Che conserva una sua dignità e dovrebbe avere speranze di un mondo migliore.
Una bionda effervescente
cinema Vittoria
Entrò in sala che faceva un freddo boia.
Fuori trentacinque gradi, dentro dieci.
Tremò per lo sbalzo di temperatura e si mise a cercare il posto giusto.
Se ci fosse stato qualcuno avrebbe riso di lui per come tastava al buio le poltrone, per poi prudentemente sedersi al centro-destra della sala.
Quando la pellicola si fece più chiara (una bionda entrava radiosa nel Mar dei Carabi popolato da squali famelici per pubblicizzare una birra olandese) l’uomo si guardò attorno e s’accorse di essere solo.
Unico spettatore di un film forse poco attraente?
Il dubbio cominciò a tormentarlo, così come la preoccupazione (di segno opposto) di dove si sarebbe seduto un altro (un’altra) eventuale spettatore.
Ma la pubblicità finì, inutile com’era iniziata, ed apparvero le prime scene del film: una strada in mezzo ad una foresta, un bosco di betulle che saliva verso le punte innevate delle montagne, le cime rossastre dal tramonto e dalla composizione argillosa.
Un’auto correva lungo la strada, ed era subito America, quella che ci hanno fatto conoscere: lunghe strade deserte, malavitosi e donne fatali.
L’auto era una Pontiac del 1972, bianca ed azzurra.
Mentre sullo schermo si spiaccicavano come mosche i nomi dei protagonisti, l’auto trovò una piazzola con vista, un uomo discese e, senza guardarsi attorno, pisciò contro vento bagnandosi pure i pantaloni.
Fu subito ucciso.
Da una pallottola precisa come un battello postale norvegese.
Cadde in avanti lungo la rupe sfracellandosi cento metri più in basso.
Fu la donna, bionda come una norvegese di Bergen, che scese allora dalla Pontiac.
Si videro prima le gambe chilometriche, poi i capelli fluenti, poi la pistola (che opportunamente si sarebbe potuto definire ancora fumante).
L’arma raggiunse il suo proprietario in fondo al burrone, l’auto ripartì con uno stridìo di gomme, un avvoltoio che aveva seguito la scena cominciò a scendere in ampie volute concentriche.
A questo punto, i titoli di testa erano esauriti e lo spettatore sprofondò ancor di più nella poltrona cigolante, preparandosi ad assaporare il proseguimento della storia. Cominciando a congetturare su chi fosse l’ucciso, chi la donna, dove la scena.
La Pontiac correva troppo veloce per la ripida discesa lungo le betulle.
Quando uscì di strada, l’autoradio continuò a suonare Yesterday in versione dance fino a quando, il giorno appresso (lo si capiva dalla repentina apparizione, senza troppa gloria, di un coyote ululante alla luna) il poliziotto col ghigno beffardo strappò la portiera
squassata dall’urto e spense la radio che stava ancora suonando (era alimentata a pile?).
Suonava Satisfation in versione salsa.
Della donna nessuna traccia, né viva né morta.
Il sole picchiava forte, baluginava (sic) sulla lente dell’obiettivo della macchina da ripresa.
Picchiava forte pure la pallottola che trapassò il cuore del poliziotto.
La solita pattuglia vagante, come vàgano sempre nei film americani le pattuglie della polizia, lo trovò seminudo il giorno dopo (senza una nuova apparizione del coyote ululante alla luna. Forse era stato licenziato per scarso rendimento).
L’auto con la stella e la sirena sul tetto non c’era più.
Lo spettatore sorrise compiaciuto: era l’unico a sapere come fossero andate le cose.
Una cittadina del Nevada, le poche case di legno raggruppate sulla Main Street spazzata dal vento.
Un cespuglio secco rotolava fin di fronte alla porta della drogheria, dove la donna (che già ne aveva due, e chissà quanti altri in precedenza, sulla coscienza; sempre che ne aveva una, sotto la camicetta rossa) stava provando un paio di jeans strettissimi per lei.
Il commesso quindicenne con le efelidi guardava la scena attraverso il vetro inclinato sopra il bancone e rideva per gli sforzi della norvegese di entrare in una misura più piccola del necessario.
Quando lei uscì dallo sgabuzzino-spogliatoio, zeppo di Life degli anni ’50 e di attaccapanni morti, il commesso sorrideva ancora. Prese i soldi e li infilò nella cassa che tintinnò per un minuto filato.
Lo spettatore stava compiacendosi del fatto che almeno questa volta ne aveva graziato uno, ma poco dopo la cassa tintinnò ancora, per vuotarsi subito di tutti i biglietti. Salvo un biglietto da cinque dollari consunto che andò volteggiando a posarsi sul corpo del commesso caduto dietro al bancone.
-Cazzo!- esclamò lo spettatore tirandosi i baffi brizzolati.
Sullo schermo scorrevano asfalto rovente, nuvole polverose, grossi camion lindi come un bucato steso al sole, lucertole trepidanti in attesa dei figli che per tornare da scuola dovevano attraversare l’interstatale.
Il cartello stradale diceva NORD e, dall’altro lato, SUD. Ed era tutto detto.
Fotografava il paesaggio. Anzi il mondo.
Stavolta l’automobile era una Chevrolet del ’75, decappottabile. Decappottata sui suoi capelli biondi al vento.
Lei ascoltava musica da surf dei Beach Boys. Sullo sfondo l’oceano blu carezzava la spiaggia bianca infestata di bagnanti ipervitaminizzati.
Ora la scena si svolgeva in un quartiere di una grande città. Dato che non c’erano su e giù e nemmeno il ponte di Brooklyn, era sicuramente Los Angeles.
Dato che i film americani si svolgono tutti o New York, a San Francisco o a Los Angeles.
Il resto è un buco nero.
Le case nascondevano il sole del tramonto. Non alte non belle quasi non abitate, tanto erano cadenti, caduche come le cose della vita, in attesa che tutti gli abitanti fossero sfrattati, per rivivere, le case, di nuovo come grattacieli o come supermercati.
Una di queste aspettava lei. Nel salotto, stravaccato su una poltrona, un uomo sui quarant’anni portava con nonchalance un bel buco sulla fronte.
La donna valutò il momento del decesso ad una dozzina d’ore prima.
Non inspiegabile, il decesso, visto non solo il succitato buco in fronte, ma anche il disordine nella stanza.
Come se ci fosse passato il settimo cavalleggeri a passo di carica.
Lei si diresse sicura verso il lavandino che mai aveva conosciuto il detergente giusto e raccolse la busta nascosta tra i tubi di scarico.
Non si voltò più uscendo, quasi non volesse finire come la moglie di Lot.
-Madonna!- pensò tra sé e sé lo spettatore.
Guardò l’orologio che non aveva e dedusse che era già passata buona buona una mezz’oretta di film senza che lui fosse riuscito a capire niente.
La sceneggiatura conduceva ora la donna al Porto delle Nebbie, il solito esterno-notte di tutti i film d’azione (meglio, di reazione).
La nebbia era così fitta che l’avresti potuta perforare col Black & Decker.
Da essa potevano sbucare in ogni istante, in ogni momento, tipi alla Marlowe con la sigaretta spenta penzolante dalle labbra,