Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Lo scarabeo
Lo scarabeo
Lo scarabeo
Ebook391 pages5 hours

Lo scarabeo

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook


Robert Holt, affamato e senza soldi, sotto una pioggia battente, trova una casa vuota con una finestra aperta. Entra, per ripararsi, ma la casa non è vuota, e il misterioso occupante costringe il malcapitato a rubare in casa di Paul Lessingham, un noto politico.
Da qui inizia una vicenda in bilico tra incubo e follia, raccontata da quattro punti di vista diversi.
Lo scarabeo è un cult recuperato dal dimenticatoio: uscito nel 1897 in contemporanea con Dracula, fu il best seller di quell'anno superando il romanzo di Stoker.
LanguageItaliano
Release dateSep 14, 2019
ISBN9788899403782
Lo scarabeo
Author

Richard Marsh

Richard Marsh (1857–1915), born Richard Bernard Heldmann, was a prolific, bestselling author of fiction in the genres of horror, crime, and romance. Marsh began his career by writing adventure stories for magazines, later earning coeditorship of Union Jack magazine. The Beetle’s release in 1897 proved to be Marsh’s greatest commercial success, followed in 1900 by the publication of The Goddess: A Demon. Marsh went on to amass a bibliography of more than eighty books before his death.

Related to Lo scarabeo

Titles in the series (64)

View More

Related ebooks

Mystery For You

View More

Related articles

Reviews for Lo scarabeo

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Lo scarabeo - Richard Marsh

    LIBRO PRIMO

    LA CASA CON LA FINESTRA APERTA

    Il sorprendente racconto di Robert Holt

    I.

    Fuori

    «Non c’è posto! Siamo al completo!»

    L’uomo mi sbatté la porta in faccia.

    Era il colpo di grazia!

    Avere vagabondato per tutto il giorno alla ricerca di un lavoro; avere implorato un lavoro qualsiasi, sufficiente a sfamarmi; avere vagabondato e implorato invano… era già sgradevole. Ma, addolorato, depresso nella mente e nel corpo, esausto per la fame e la fatica, essere costretto a dimenticare il poco orgoglio rimasto e aver chiesto, da quel disperato mendicante senza soldi che ero, un alloggio per una notte all’ostello dei poveri, e averlo chiesto invano, era la cosa peggiore! Molto più grave. Era quanto di peggio mi potesse capitare.

    Rimasi immobile, fissando con sguardo attonito la porta che mi avevano appena sbattuto in faccia. Riuscivo a stento a credere che una cosa simile fosse possibile. Non avrei mai immaginato di diventare un barbone; ma, anche ammettendo di riuscire a concepire l’idea di esserlo, il fatto di venire rifiutato in un luogo abominevole come l’ostello dei poveri, significava aver raggiunto un livello di miseria che non avevo mai neppure sognato nei miei incubi peggiori.

    Mentre me ne stavo lì immobile, un uomo mi si avvicinò, uscendo dall’ombra della parete.

    «Non ti lascia entrare?»

    «Dice che è al completo».

    «È al completo, eh? È sempre così a Fulham: dicono sempre che non c’è posto. Vogliono mantenere basso il numero degli ospiti».

    Io guardai l’uomo; aveva la testa piegata in avanti e le mani affondate nelle tasche dei pantaloni che, come tutti gli altri vestiti, erano stracci. La sua voce era roca.

    «Intendi insinuare che mi hanno detto che non c’è posto e invece ce n’è… che non mi lasciano entrare anche se possono?»

    «È proprio così».

    «Ma non sono obbligati a farmi entrare se hanno posto?»

    «Ma certo che lo sono e, per Dio, se fossi in te li costringerei. Li costringerei!»

    Elencò una serie terribile di imprecazioni.

    «Ma cosa posso fare?»

    «Suona un’altra volta. Fagli capire che non ti lasci imbrogliare».

    Io esitai e poi, spinto da un impulso, suonai di nuovo il campanello. La porta si spalancò e l’uomo grinzoso, che aveva risposto anche prima alla mia chiamata, comparve sulla soglia. Anche lui era un ospite ma, se fosse stato il presidente della Società dei Guardiani, non avrebbe potuto guardarmi con maggiore sarcasmo.

    «Sei ancora qui? A che gioco stai giocando? Pensi che io non abbia niente di meglio da fare che stare qui a sentire quelli come te?»

    «Voglio entrare».

    «Ti ho detto che non puoi entrare!»

    «Voglio vedere un’autorità».

    «Ce l’hai davanti, un’autorità».

    «Voglio vedere qualcuno superiore a te; voglio il padrone».

    «Non vedrai il padrone!»

    L’uomo fece per chiudere la porta ma, preparato a una manovra del genere, misi il piede in modo da impedire alla porta di chiudersi e continuai a parlargli.

    «Sei sicuro che l’ospizio sia pieno?»

    «È al completo da due ore!»

    «Ma io cosa devo fare?»

    «Non lo so cosa devi fare!»

    «Dov’è l’ostello più vicino?»

    «A Kensington».

    All’improvviso l’uomo aprì la porta e, mentre mi rispondeva, allungò un braccio verso di me, spingendomi indietro. Prima che potessi riprendermi dalla sorpresa, chiuse la porta. L’uomo vestito di stracci aveva assistito a tutta la scena. Ora parlò.

    «Un bel tipo, vero?»

    «Ma è solo uno dei poveri ospitati. Ha l’autorità di agire come un ufficiale?»

    «Ti dico che alcuni dei poveri sono peggio dei guardiani, molto peggio! Pensano di essere a casa loro, ci puoi scommettere. Oh, è davvero un bel posto, eh?»

    Si interruppe. Io esitai. Da un po’ di tempo si sentiva la pioggia nell’aria. Ora cominciò a cadere una pioggerellina fine ma insistente. Ero davvero esasperato. Il mio compagno mi fissò con uno sguardo di stolida curiosità.

    «Non hai soldi?»

    «Nemmeno un centesimo».

    «Ti trovi spesso in queste condizioni?»

    «È la prima volta che chiedo asilo in un ospizio, ma sembra proprio che non ci riuscirò».

    «Credevo che fossi più in gamba; cosa farai ora?»

    «Quanto è lontano Kensington?»

    «Da qui? Circa cinque chilometri. Ma, se fossi in te, proverei a St. George».

    «Dove si trova?»

    «Sulla Fulham Road. Kensington è un posto piccolo, dove si sta bene ma è sempre al completo. Ci sono più opportunità a St. George».

    Io rimasi in silenzio. Ripensai alle parole dell’uomo, incerto in quale luogo fosse meglio provare. Poi lui parlò di nuovo.

    «Ho viaggiato attraverso Reading o… oggi, e ho camminato sempre a… a piedi e, mentre venivo ad Hammersmith, mi sono sentito male e ora sono davvero sconvolto! Questa è una… bella zona e vorrei che tutti qui andassero in fondo al mare, ci puoi scommettere. E ora non proseguirò oltre. Troverò un letto qui e non voglio sentire ragioni!»

    «Ma come ci riuscirai? Hai dei soldi?»

    «Se ho dei soldi? Mio Dio! Ho l’aria di avere dei soldi? Parlo come chi ha dei soldi? Non vedo una sterlina da molto tempo, forse da sei mesi».

    «E allora come otterrai un letto qui?»

    «Come lo otterrò? Ecco, in questo modo». Prese due pietre, una in ogni mano. Gettò la pietra nella sinistra contro il vetro sopra la porta dell’ostello. Il vetro si ruppe e anche la lampada. «Ecco come avrò un letto».

    La porta si aprì in tutta fretta. Comparve il grinzoso vecchio di prima. Gridando, sbirciò nelle tenebre.

    «Chi è stato?»

    «Io, capo. E, se vuoi, mi vedrai lanciare anche l’altra pietra. Potrai lustrarti gli occhi».

    E, prima che il vecchio potesse dire qualcosa, l’uomo lanciò l’altra pietra nel vetro. Capii che era meglio andarsene. L’uomo si stava procurando un letto per la notte a un prezzo che, pur nella mia tragica situazione, non ero disposto a pagare.

    Quando me ne andai, due o tre persone erano comparse sulla scena e l’uomo vestito di stracci stava rivolgendo loro parole che lasciavano ben poco spazio all’immaginazione. Mi allontanai senza essere notato. Avevo fatto pochi passi quando cominciai a pensare che forse avrei dovuto tentare anch’io la fortuna, spaccando un vetro. E, a dire la verità, inciampai più di una volta mentre tornavo sui miei passi.

    Non avrei potuto scegliere una notte peggiore per una passeggiata. La pioggia era fitta come la nebbia e non solo mi aveva infradiciato fino alla pelle, ma rendeva anche difficoltoso vedere davanti a me, in qualsiasi direzione. Il quartiere era male illuminato. Ero uno straniero in quelle strade. Ero arrivato a Hammersmith come ultima risorsa. Avevo cercato un lavoro che mi aiutasse a tenere uniti il mio corpo e la mia anima in tutte le zone di Londra finché era rimasto solo il quartiere di Hammersmith. Ma a Hammersmith perfino l’ostello mi aveva rifiutato!

    Allontanandomi dalla porta dell’inospitale ostello, mi ero incamminato verso sinistra e, in quel momento, mi ero rallegrato della direzione presa. Ora invece, con il buio e la pioggia, la località che mi ero prefissato come meta sembrava irraggiungibile. Sembrava che mi fossi lasciato dietro le spalle tutta la civiltà. La strada non era asfaltata ed era piena di buche. Le case erano poche e molto distanziate. E le abitazioni che trovai sul cammino sembravano, in quella scarsa luce, piccoli cottage sull’orlo della fatiscenza.

    Non potrei dire con esattezza dove mi trovavo. Avevo solo una vaga idea che, se avessi continuato a camminare dritto, mi sarei trovato nelle vicinanze di Walham Green. Non sapevo quanto avrei potuto andare avanti. Non c’era in giro nemmeno un’anima alla quale rivolgere una domanda. Che zona desolata!

    Immagino che fosse tra le undici e mezzanotte. Non avevo rinunciato a chiedere un lavoro fino all’ora di chiusura dei negozi e a Hammersmith quella sera i negozianti non avevano chiuso presto. Poi avevo vagabondato senza una meta, disperato, chiedendomi cosa potessi fare.

    Avevo cercato alloggio e una cena gratuita all’ospizio solo perché avevo paura che, se avessi trascorso una notte all’aperto senza mangiare, la mattina dopo sarei stato distrutto e non avrei avuto nessuna possibilità di trovare lavoro. Era stata anche la fame a trascinarmi verso la porta dell’ostello dei poveri. Era mercoledì. Da domenica notte le mie labbra non avevano sfiorato nulla che non fosse l’acqua delle fontanelle comunali, se si eccettua una crosta di pane che mi aveva dato un uomo che stava accasciato ai piedi di un albero a Holland Park. Stavo girovagando da tre giorni. Sentivo che, se non avessi mangiato qualcosa, la mattina dopo avrei avuto un collasso… che sarebbe arrivata la fine. E tuttavia, in quello strano e inospitale posto, a quell’ora di notte, dove avrei potuto trovare da mangiare? E come?

    Non so quanto camminai. A ogni metro che percorrevo, i piedi mi facevano sempre più male. Ero stanco morto, esausto, sia nel corpo che nell’anima. Non avevo più forze né coraggio. E la fame che mi attanagliava le viscere sembrava gridare dentro di me. Mi appoggiai a un palo, tremante. Se la morte mi avesse colto in quel momento in fretta, senza dolore, l’avrei considerata un’amica. Era insopportabile quell’agonia!

    Mi ci vollero cinque minuti per riprendermi e riuscire a staccarmi dalla palizzata per ricominciare a camminare. Continuai a percorrere, traballando, la strada dissestata. Una volta, come se fossi ubriaco, persi l’equilibrio e mi ritrovai per terra, sulle ginocchia. Ero in uno stato tale che, per qualche secondo, rimasi immobile in quella posizione, con la mezza intenzione di lasciarmi andare e di mettermi nelle mani di Dio. Avevo davanti una lunga notte, che terminava nell’eternità.

    Dopo essermi rimesso in piedi, riuscii ad avanzare per circa duecento metri lungo la strada; solo il Cielo sa che mi sembravano duecento chilometri! Poi venni colto da un malore causato senza dubbio dalla mancanza di cibo. Disperato, mi appoggiai a un muro sulla strada. Senza di esso sarei caduto come un mucchio di stracci. L’attacco sembrò durare per ore, anche se immagino che fu questione di pochi secondi. Quando ripresi conoscenza, era come se avessi dormito. Il dolore era lancinante. Esclamai ad alta voce: «Cosa non farei per una fetta di pane!»

    Mi guardai intorno, in una sorta di frenesia. In quel momento, per la prima volta, mi resi conto che dietro di me c’era una casa. Non era grande. Era una delle cosiddette ville che in questi anni sorgono come funghi in ogni quartiere di Londra e che vengono affittate da venticinque a quaranta sterline all’anno. Era una villetta monofamiliare. Da ciò che potevo vedere in quella luce scarsa, non c’erano altre costruzioni per venti o trenta metri. Al piano superiore c’erano tre finestre con le persiane chiuse. La porta d’ingresso si trovava sulla destra. Si entrava da un piccolo cancello del giardino.

    La casa era così vicino alla strada che, appoggiandomi al cancello, quasi toccavo le finestre del piano terra. Erano due. Una di queste aveva la cerniera di apertura nella parte inferiore e il vetro era sollevato di qualche centimetro.

    II.

    Dentro

    Presi nota e, per così dire, fotografai con la mente ogni dettaglio della casa, avvertendo una sorta di percezione extrasensoriale. Per un momento, la vista mi si annebbiò e non vidi nulla. Poi invece misi a fuoco ogni cosa, con una chiarezza sorprendente.

    Prima di tutto, la finestra aperta. La fissai, rendendomi conto che mi mancava il respiro. Era così vicina; così a portata di mano! Dovevo solo allungare il braccio per toccarla. E, una volta infilata la mano, almeno quella sarebbe stata risparmiata dalla pioggia incessante. Come pioveva! I miei abiti leggeri erano fradici di pioggia ed ero bagnato fino alla pelle. Battevo i denti e l’umidità mi stava sciogliendo le ossa!

    E l’interno di quella casa doveva essere così caldo, così asciutto!

    Non c’era un’anima in giro. Non si vedevano esseri umani. Rimasi in ascolto. Non sentivo alcun suono. Ero solo in balìa di quella notte inclemente. Di tutte le creature di Dio, ero l’unico che non aveva trovato rifugio dalle cascate che Lui aveva precipitato dal cielo. Nessuno poteva vedermi; nessuno si interessava a me. Non dovevo temere in questo senso.

    Forse la casa era vuota; anzi, era probabile. Era mio dovere bussare alla porta, svegliare gli abitanti della casa e richiamare la loro attenzione sulla loro imprudenza. La loro minima ricompensa sarebbe stata comunque un sollievo per me. Ma se la casa era vuota, a cosa sarebbe servito bussare? Avrei fatto rumore inutile, forse avrei svegliato i vicini. Oppure, se anche la casa fosse stata abitata, quella gente avrebbe potuto anche non ricompensare il mio gesto. Avevo imparato a mie spese l’ingratitudine altrui. Avrei potuto chiudere quella finestra, quella finestra invitante, tentatrice, così utile, senza ottenere nulla e sarei rimasto ancora senza soldi, disperato, affamato, al freddo e alla pioggia. In quella situazione mi sarei detto, ma troppo tardi, che mi ero comportato da stupido. E avrei avuto ragione. Davvero ragione!

    Sporgendomi sul muretto basso, vidi che potevo infilare la mano in casa con molta facilità. Com’era caldo l’interno della casa! Potevo sentire la differenza di temperatura sulla punta delle dita. Con calma andai verso destra, lungo il muretto. Una sola persona poteva stare tra la finestra e il muro. Il terreno sembrava asfaltato. Chinandomi, guardai dall’apertura. Non riuscii a vedere nulla. All’interno era molto buio. La persiana era socchiusa. Sembrava incredibile che qualcuno si trovasse in casa e che se ne fosse andato a letto lasciando la persiana aperta e la finestra sollevata. Tesi l’orecchio. Che silenzio! Senza dubbio la casa era vuota.

    Decisi di sollevare il vetro di un paio di centimetri, per guardare meglio all’interno.

    Se mi avesse visto qualcuno, avrei potuto descrivere la situazione reale, spiegando che intendevo dare l’allarme agli abitanti della casa.

    Dovevo solo muovermi con cautela. Con un tempo così umido era probabile che il legno della finestra scricchiolasse.

    Invece non lo fece. Si alzò senza il minimo rumore, come se fosse stato appena oliato. La silenziosità con cui scorreva la finestra mi spinse ad alzarla più di quello che avevo deciso all’inizio. A dire la verità, la sollevai completamente. Neppure uno scricchiolio mi tradì. Poi, sporgendomi dal davanzale, infilai la testa e il busto all’interno. Non accadde nulla. Non vedevo niente. Nulla.

    Per quel che vedevo la stanza era vuota e non ammobiliata. A dire la verità, cominciai a pensare a questa opportunità. Forse ero capitato in una casa disabitata. Nel buio, non vidi nulla che potesse suggerire il contrario. Cosa dovevo fare?

    Ebbene, se la casa era vuota, la mia intrusione in cerca di riparo non avrebbe forse avuto una giustificazione morale, se non legale? Chi, con un cuore che gli batteva in petto, avrebbe potuto negarmi un rifugio? Nemmeno il padrone di casa più puntiglioso. Sollevandomi con l’aiuto della persiana, infilai una gamba nella casa.

    In quel momento mi resi conto che la stanza, in ogni caso, non era priva di mobili. Sul pavimento c’era un tappeto. Ai vecchi tempi anche i miei piedi avevano comminato sui tappeti. Li conoscevo bene ma non avevo mai calpestato un tappeto più soffice di questo. Perfino in quel momento mi ricordai del terreno di Richmond Park. Per i miei poveri piedi distrutti era un lusso sfrenato dopo quella strada fangosa e piena di buche. Ora che mi ero accertato del fatto che la stanza non era priva di mobilio, dovevo scappare? O dovevo continuare nella mia ricerca? Mi colse un insano desiderio di spogliarmi e di accasciarmi su quel morbido tappeto, per dormire. Ma avevo fame… una fame tremenda. Non potevo resistere ancora senza mangiare!

    Feci un paio di passi avanti, con le braccia tese per paura di inciampare in qualche oggetto invisibile al buio. Dopo aver fatto tre o quattro passi in questo modo, senza incontrare nemmeno un ostacolo, anzi, senza incontrare nulla, cominciai a desiderare di non aver mai trovato quella casa, di averla oltrepassata senza vedere quella finestra, di essere al sicuro all’esterno. All’improvviso mi resi conto che nella stanza c’era qualcosa. Nessun elemento concreto mi dava questa sensazione. Forse le mie facoltà erano particolarmente eccitate ma, all’improvviso, mi resi conto che c’era qualcosa. E inoltre provavo l’orrenda sensazione di essere visto, anche se non potevo scorgere niente; mi sembrava che ogni mio movimento fosse spiato.

    Non potevo dire di cosa si trattasse; non potevo nemmeno immaginarlo. Era come se qualche rotella del mio ingranaggio mentale fosse stata colta da una paralisi improvvisa. Questo linguaggio può sembrare infantile, ma ero davvero sbalordito, angosciato. Inoltre ero fisicamente esausto. In quel momento, senza il minimo avvertimento, provai una sensazione curiosa, che non avevo mai provato prima e che mi auguro di non sperimentare mai più nella mia vita: una sensazione di panico. Ricordo di essere rimasto inchiodato nel punto in cui mi trovavo, senza osare muovermi, temendo perfino di respirare. Sentivo che la presenza in quella stanza era in qualche modo strana e malvagia.

    Non so quanto rimasi lì, impietrito, ma sicuramente fu un periodo piuttosto lungo. Pian piano, visto che non si muoveva niente, non si sentiva né vedeva nulla e non accadeva nulla, con uno sforzo mi feci coraggio. Sapevo di essermi comportato da vigliacco. Mi sforzai di chiedere a me stesso di cosa avessi paura. Tremavo per via della mia immaginazione. Cosa poteva esserci nella stanza che mi aveva permesso di insinuarsi dalla finestra senza opporre resistenza? Chiunque fosse, doveva essere ancora più codardo di me, visto che mi aveva permesso di entrare in casa. Visto che avevo avuto la possibilità di entrare, avrei certo avuto anche quella di uscire: e ora provavo un desiderio di uscire maggiore di quello di entrare.

    Dovetti esercitare una grossa pressione su me stesso per raccogliere il coraggio sufficiente per voltare la testa; ma in quello stesso momento fui costretto a girarla di nuovo. Non avrei potuto dire perché avevo agito così, ma ero stato costretto. Il cuore mi batteva forte: potevo sentirlo galoppare. Tremavo al punto che quasi non riuscivo a stare in piedi. Ero sovrastato da un’onda di terrore. Fissai di fronte a me con gli occhi pieni di un frenetico e assurdo panico. Tesi le orecchie tanto da sentirmele quasi doloranti.

    Qualcosa si mosse. Qualcosa che provocò un rumore così leggero che nessuno, a parte me, avrebbe potuto sentirlo. Ma io lo percepii. Stavo guardando nella direzione dalla quale era arrivato il rumore e in quel momento vidi di fronte a me due luci. Non c’erano un attimo prima, avrei potuto giurarlo. Ma ora erano lì. Due occhi. Dissi a me stesso che erano occhi. Avevo sentito dire che le pupille dei gatti luccicano al buio, anche se non le avevo mai viste e tentai di convincermi che dovevano trattarsi degli occhi di un gatto, che ciò che avevo di fronte a me era semplicemente un gatto. Ma sapevo che non era così. Sentivo che erano occhi ma che non si trattava di un gatto. Non sapevo a chi appartenevano… e non osavo pensarci.

    Si mossero… verso di me. La creatura alla quale appartenevano quegli occhi si avvicinò. Il mio desiderio di fuggire era tanto forte che avrei preferito morire piuttosto che restare lì immobile. E tuttavia non riuscivo a controllare il mio corpo. Era come se le mie membra non mi appartenessero più. Gli occhi continuavano ad avvicinarsi… silenziosi. All’inizio erano a pochi centimetri da terra ma poi, all’improvviso, si sentì uno strano rumore come se un corpo che strisciava si fosse schiantato contro il pavimento. Gli occhi svanirono per riapparire qualche secondo più tardi a un’altezza maggiore dal pavimento. E ripresero ad avvicinarsi.

    Sembrava che quella creatura, di qualsiasi cosa si trattasse, fosse piccola. Non posso dire perché non obbedii all’istinto che mi spingeva a fuggire. Io credo però che lo stress e le privazioni alle quali ero stato sottoposto di recente, e che ancora dovevo sopportare, avessero molto a che fare con la mia condotta in quel momento e con il mio comportamento successivo. In condizioni normali, io credo di possedere il coraggio di qualsiasi altro uomo e una solida capacità di decisione; ma quando un uomo è stato trascinato nella Valle dell’Umiliazione e si è bagnato molte volte nelle acque dell’Amarezza e delle Privazioni, diventa capace di azioni che in altri momenti sarebbero per lui inconcepibili. Io lo so per esperienza personale.

    Gli occhi continuavano ad avanzare verso di me e, muovendosi, ondeggiavano, come se la creatura a cui appartenevano camminasse irregolarmente. Nulla potrebbe superare il terrore che provai mentre aspettavo che mi raggiungessero, forse tranne la mia incapacità di fuggire. Mai, nemmeno per un istante, vidi la creatura eppure non avrei chiuso gli occhi per tutto l’oro del mondo! Quando gli occhi mi si avvicinarono dovetti abbassare lo sguardo al livello dei miei piedi. Alla fine gli occhi raggiunsero i miei piedi, ma non si fermarono. All’improvviso sentii che qualcosa mi saliva sullo stivale e, con un senso di orrore paralizzante e di nausea, mi resi conto che la creatura aveva cominciato ad arrampicarsi sulle mie gambe, a salire sul mio corpo! Perfino allora non sapevo cosa fosse; saliva su di me con estrema facilità, come se fossi stato sdraiato e non in piedi. Era una specie di gigantesco ragno: il ragno degli incubi, la mostruosa proiezione di una visione terrificante. Con quelle che dovevano proprio essere mostruose zampe di ragno, premeva sui vestiti. Doveva averne un numero incredibile: sentivo la pressione di ciascuna di queste zampe. Mi stringevano piano e poi più forte, come se la creatura allentasse ogni tanto la pressione.

    Saliva sempre più su! Ormai era ai miei fianchi e stava strisciando verso il mio stomaco. L’impotenza con la quale sopportavo questa profanazione del mio corpo non era che l’aspetto più insignificante della mia agonia; la mia impotenza era quella che a volte si sperimenta nei peggiori incubi. Mi rendevo conto che se solo mi fossi dato un’energica scrollata, la creatura sarebbe caduta a terra. Ma non riuscivo a comandare un solo muscolo.

    Mentre la creatura saliva, i suoi occhi si trasformarono in due lampade, emettendo dei raggi. Grazie a questa luce cominciai a intravedere il profilo del corpo della creatura. Era più grosso di quello che avevo immaginato. Sembrava fosforescente o comunque di uno strano colore giallo che luccicava nel buio. Anche allora non seppi dire cosa fosse con esattezza ma doveva appartenere alla famiglia degli aracnidi ed era una specie terrificante perché non avevo mai né letto né sentito di un esemplare del genere. Era così pesante che mi chiesi come poteva assicurarsi la presa con una pressione tanto leggera. Si aiutava con una sostanza adesiva all’estremità delle zampe, ne ero sicuro perché le sentivo appiccicose. Il peso della creatura aumentava man mano che il ragno saliva; e puzzava! Mi ero già reso conto che l’animale emanava uno spiacevole e fetido odore; quando si avvicinò al mio viso divenne tanto forte da essere insopportabile.

    Era sul mio petto. Mi resi conto di uno strano movimento ondulatorio: l’animale si gonfiava ogni volta che respirava. Le sue zampe posteriori toccarono la pelle nuda del mio collo. Potrò mai dimenticare quella sensazione? Ancora adesso la sogno spesso. Dopo aver aderito alla mia pelle con le zampe anteriori, sollevò quelle posteriori. Mi scivolò intorno al collo, con disgustosa lentezza, muovendosi di un millimetro al secondo. Il suo peso mi costrinse a tendere i muscoli. Poi la creatura mi raggiunse il mento, mi toccò le labbra; io ero ancora fermo, vittima di questo incubo mentre il mostro mi avvolgeva il volto con il suo corpo gelatinoso, enorme, maleodorante, con le sue innumerevoli zampe. L’orrore mi fece impazzire. Mi scrollai come un uomo scosso da un attacco di febbre. Mi staccai la creatura di dosso. Crollò a terra. Gridando come un folle, mi voltai e corsi verso la finestra. Ma inciampai contro qualcosa e caddi sul pavimento.

    Mi rialzai più in fretta che potei per riprendere la mia corsa; pioggia o non pioggia, dovevo uscire da quella casa! Avevo già la mano sul davanzale della finestra e un attimo dopo sarei uscito e, pur esausto e affamato, nessuno mi avrebbe più fermato, quando qualcuno dietro di me accese un fiammifero.

    III.

    L’uomo nel letto

    La luce improvvisa che seguì era inaspettata. Mi sbalordì, causandomi uno shock improvviso dal quale mi stavo appena riprendendo quando una voce esclamò: «Sta’ fermo!»

    C’era un tono in quella voce che non saprei descrivere. Non solo un’intonazione di comando, ma qualcosa di malvagio, di strano. Era un po’ gutturale ma non avrei potuto dire dove si trovasse l’uomo che aveva parlato. Non avevo dubbi che fosse uno straniero. Era la voce più sgradevole che avessi mai sentito e mi fece un effetto davvero spiacevole; quando la voce mi ordinò di restare fermo, io obbedii. Era come se non potessi fare niente altro.

    «Voltati!»

    Io mi girai, meccanicamente, come un automa. Questa impotenza era davvero l’aspetto più angoscioso e avvilente della situazione. Lo sapevo bene. Me ne risentii con rabbia segreta. Ma in quella stanza, a quella presenza, io ero come un invertebrato.

    Quando mi voltai, mi trovai di fronte un uomo che giaceva in un letto. Sopra il letto c’era una mensola, dov’era posata una lampada che emanava la luce più vivida che avessi mai visto. Mi avvinse gli occhi abbagliandomi, tanto che per qualche secondo non vidi più nulla. Non posso dire che la mia vista tornò normale durante l’intero colloquio che seguì; la luce accecante mi faceva ballare delle ombre davanti agli occhi che oscuravano la mia vista. Tuttavia, dopo un po’, vidi qualcosa. Ma avrei tanto preferito rimanere abbagliato.

    Una creatura giaceva davanti a me, sul letto. Non riuscii subito a stabilire se fosse un uomo o una donna. All’inizio dubitai perfino che si trattasse di un essere umano. Ma poi mi resi conto che era un uomo, per la semplice ragione che una creatura simile non poteva essere di sesso femminile. Aveva le lenzuola fino alle spalle e solo la testa era visibile. Era sdraiato sul fianco sinistro. La testa era appoggiata sulla mano destra. Era immobile e mi fissava come se mi stesse leggendo nel più profondo dell’anima. Anzi, credo davvero che riuscisse a leggermi nel pensiero. Non riuscivo nemmeno a immaginare la sua età; né immaginavo che si potesse diventare tanto vecchi. Se mi avesse dichiarato di vivere da secoli, io sarei stato costretto ad ammettere che, per lo meno, ne aveva l’aspetto. E tuttavia mi resi conto che probabilmente quell’uomo non era molto più vecchio di me. C’era una vitalità sorprendente nei suoi occhi. Era come se fosse stato colpito da una terribile malattia che lo aveva reso terribilmente brutto.

    Non aveva né barba né capelli e la pelle, color zafferano, era piena di rughe. Il cranio, e, credo anche l’intero scheletro, erano così piccoli da ricordare la sgradevole immagine di un animale. In compenso il naso era molto grosso; le sue dimensioni erano così stravaganti e la sua forma così peculiare che ricordava il becco di un animale da preda. Il viso, così sgradevole, aveva una strana caratteristica: sembrava tagliato appena sotto la bocca. La bocca, con le labbra grosse, era appena sotto il naso e pareva non esserci mento. Questa deformità, perché l’assenza del mento può essere descritta con questa parola, dava a quel viso un aspetto non umano. E anche gli occhi. Infatti gli occhi di quell’uomo erano così particolari che sembrava che sul suo viso ci fossero solo quelli.

    Occupavano letteralmente la parte superiore della testa, una testa molto piccola, divisa da un naso tagliente. Erano molto lunghi e sembravano due finestre dalle quali emanava un bagliore interno. Assomigliavano alle luci di un faro. Non potevo evitarli ma quando li incontrai mi sembrò di precipitare nel vuoto. Mai prima di allora mi ero reso conto di cosa significasse il potere degli occhi. Mi tenevano incatenato, ero incapace di parlare. Sentivo che avrebbero potuto costringermi a fare ciò che volevano. E così fu. Lo sguardo era immobile perché, come un uccello, l’uomo non socchiudeva mai le palpebre. Avrebbe potuto continuare a guardarmi per ore, senza mai chiudere gli occhi.

    Fu lui a rompere

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1