Il faro delle tenebre
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Il faro delle tenebre - Alessandro Bozzi
Table of Contents
Alessandro Bozzi - Il faro delle tenebre
Alessandro Bozzi - Il faro delle tenebre
IL FARO DELLE TENEBRE
1. La luce tornerà.
2. Un amore inaspettato
3. Vita nuova
4. Leonardo
5. Un sogno infranto
6. Una misteriosa scomparsa
7. Il faro delle tenebre
8. Il lago dei ricordi
9. Un sogno barocco
10. Verità nascoste
11. Un bagno rigenerante
12. Un terrificante colpo di scena
13. Una confessione inattesa
14. Finalmente la luce
Postfazione di Oronzo Valletta
Ringraziamenti
Profilo biografico
Alessandro Bozzi - Il faro delle tenebre
© Musicaos Editore, 2019 Le Citrine, 5
Progetto grafico Bookground
Foto di copertina Kat Jayne / Carmela Di Nardo
Foto dell’autore Antonio Picci
I personaggi e i fatti descritti nel romanzo sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi riferimento ad avvenimenti e a persone reali è puramente casuale.
Musicaos Editore
Via Arciprete Roberto Napoli, 82
Neviano (Le) – tel. 0836.618.232
www.musicaos.org
info@musicaos.it
Isbn 978-88-94966-404
Alessandro Bozzi - Il faro delle tenebre
All’amore, faro di luce
che conduce il vascello
della mia vita in mare aperto,
tra nubi e tempeste,
verso un approdo sicuro.
IL FARO DELLE TENEBRE
1. La luce tornerà.
Salento, febbraio 2019
Udii il suono della sveglia e mi destai di soprassalto. Non che avessi interrotto un sonno profondo e sereno, dal momento che dormire bene, in quel periodo, rappresentava per me una vera e propria chimera. Da qualche tempo inoltre, approfittando di una fastidiosa quanto inattesa insonnia, ero solito alzarmi di buon mattino per una corsetta rigenerante, noncurante del freddo pungente tipico del mese di febbraio. Una corsa che, invero, giovava più alla mente che non al fisico.
La scomparsa improvvisa della mia più cara amica mi tormentava, da poco l’avevo piacevolmente ritrovata e da giorni non avevo più notizie di lei.
Mentre il sole iniziava a sorgere, dando luogo alla visione di un crogiolo di colori sempre più vividi e intensi, percorsi un tratto di strada costiera, parcheggiai la mia autovettura nei pressi della base della Marina militare e presi a correre sul tratto di litoranea che da Otranto conduceva al Capo di Leuca. Il luogo delle mie origini, tanto faticosamente ritrovate.
Mentre cercavo di distrarmi dal mio respiro affannato, mi rintanavo nei pensieri più reconditi e intimi. Ma per quanto cercassi di concentrarmi sull’incombente dell’udienza penale prevista in tarda mattinata o sul colloquio con il cliente petulante del pomeriggio, il pensiero tornava continuamente a Lei.
A Lei, ma soprattutto a quella sua ultima telefonata, così criptica ed enigmatica.
Mi aveva detto che voleva assolutamente parlarmi, per rivelarmi una verità taciuta per troppo tempo.
Perché era svanita nel nulla?
Perché non mi aveva più cercato dopo quella telefonata?
Ero confuso e preoccupato, ma ciò che mi aveva lasciato maggiormente sconcertato erano le sue ultime parole, pronunciate un istante prima di riattaccare.
Perdonami Raffaele.
Per quale motivo avrei dovuto perdonarla?
Non riuscivo a darmi pace, più ripercorrevo con la mente quelle parole, così concise ma idonee ad insinuare in me dubbi e paure, e più acceleravo la mia andatura.
Affaticato dalla corsa, decisi di fare una piccola sosta in un luogo dove non mi avventuravo da tempo, ma che suscitava sempre in me un fascino ed una suggestione indescrivibili.
Il faro di Punta Palascìa.
Dalla strada non era visibile e l’unico modo per individuarlo era prendere come riferimento la base militare della Marina, posta a poche centinaia di metri di distanza, dove avevo parcheggiato la mia autovettura.
Per raggiungere il faro bisognava percorrere un sentiero ripido e stretto attorniato da erba e pietre, a strapiombo sul mare.
Mare che, in quel punto, era di un blu cristallino e intenso a tal punto da offrire un contrasto cromatico netto e marcato con il bianco della roccia.
All’imbocco del primo tornante del sentiero sterrato, iniziava finalmente ad intravedersi il faro, che si stagliava bianco ed imponente in una distesa di blu marino che si estendeva a perdita d’occhio.
L’ultima volta che avevo visto il faro di Capo d’Otranto era stata in occasione dell’Alba dei Popoli, la mattina di Capodanno, quando quel luogo magico era stato preso d’assalto da centinaia di persone,
richiamate dallo spettacolo suggestivo offerto dal primo sole del nuovo anno che sorgeva nel punto più orientale dell’intera penisola italica.
Rivederlo in quel frangente, così deserto e silente, accresceva di più il mio senso di malinconia e, forse, di nostalgia.
In quelle settimane, infatti, gli equilibri della mia vita avevano iniziato a vacillare e, proprio quando sembrava che ogni tassello fosse finalmente incastonato al posto giusto, quella telefonata e i dubbi cui
aveva dato adito avevano sparigliato le carte in tavola. La mia preoccupazione si era riverberata, anche sulla professione e, peggio, sulla vita privata.
Raggiunsi il faro, salii le scale che conducevano nel punto più alto fino al quale era possibile accedere, costeggiando un piccolo ristorantino, dotato di grandi finestre che davano sul mare, chiuso per la
stagione invernale.
Mi fermai nello spiazzo, posto proprio sotto la torre che culminava con le ampie vetrate dalle quali si vedeva nitidamente la lanterna.
Quanto avrei voluto aver accesso alla parte apicale del faro, magari in una notte buia e tempestosa, per poter assistere estasiato allo spettacolo emozionante di questa luce che irradia le tenebre e
guida la rotta dei naviganti.
Il faro, come del resto il mare, evocava in me un’incommensurabile sensazione di quiete e pace, nella quale ero solito rintanarmi quando il frastuono della quotidianità iniziava ad opprimermi.
E quella mattina, l’unico rumore che si poteva udire in quel contesto così laconico e silente, era lu rusciu de lu mare.
Il fruscìo del mare.
Inebriato da quella agognata sensazione di tranquillità, mi abbandonai ad un viaggio nello spazio e nel tempo, vagando per le lande più remote dei miei ricordi.
Ripensai al mio passato, a chi aveva ispirato la mia crescita e non c’era più, a chi mi aveva restituito la mia dimensione di avvocato irreprensibile e dedito alla strenua lotta per la difesa dei diritti del
cittadino, e a chi avrei desiderato nascesse per regalarmi la gioia della paternità. Il desiderio di avere un figlio accresceva in me giorno dopo giorno.
Un pensiero inimmaginabile sino a pochi mesi prima, quando ero logorato da un passato che mi spaventava, tanto da esorcizzarlo in ogni modo e fugare ogni possibilità di affrontarlo.
La perdita dei miei genitori, ad esempio, fu un trauma sopito per anni, che solo grazie ad Aurora e al Salento ero riuscito ad elaborare definitivamente.
Fu allora che capii che il passato non si può né dimenticare né rinnegare, perché vive in ognuno di noi, come un compagno di viaggio fidato e silente che ci accompagna, giorno dopo giorno, in ogni
nostra singola azione.
Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.
Quella frase l’avevo letta, quasi per caso, nel libro più vecchio, usurato ed impolverato della biblioteca civica, Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald.
Pensai, in quel preciso istante, che quella citazione fotografasse compiutamente la mia situazione.
La barca della mia vita, peraltro, era perennemente contro corrente e faticavo sempre più ad afferrarne saldamente i remi.
Guardai l’orologio e scoprii che si erano fatte già le nove del mattino.
Ero talmente preso dalle mie elucubrazioni che non mi ero accorto che avevo trascorso più di un’ora seduto sotto il faro.
L’udienza a Lecce era fissata appena per le 12 e, considerate le proverbiali lungaggini della routine in Tribunale, sapevo di aver a disposizione ancora qualche ora.
Tuttavia, ero atteso da diversi impegni in studio, su tutti la preparazione di una discussione per un processo delicato ed emotivamente estenuante che mi attendeva di lì a qualche giorno.
Una di quelle storie che apprendi sui giornali o in qualche servizio televisivo, di quei reati che pensi possano esistere solo sui codici affastellati negli scaffali dello studio.
Ma ciò che era accaduto a Leila, una fanciulla egiziana di soli 13 anni, costituiva una drammatica e macabra realtà.
La povera adolescente era vittima di uno dei reati più aberranti e crudeli nei quali mi fossi imbattuto nella mia breve carriera: l’art. 583 bis del codice penale.
Mutilazioni genitali femminili.
Una pratica tristemente radicata nel continente africano che, a seguito del flusso migratorio, aveva varcato i confini dei paesi europei.
A rendere la vicenda di Leila ancora più agghiacciante, come se non bastasse, era il fatto che gli imputati in quel processo fossero il padre e la nonna della bambina, i quali per tutto il procedimento avevano giustificato il loro comportamento in quanto, a loro dire, legittimato da credenze culturali e religiose.
Secondo loro, infatti, la libertà di professare il proprio culto e le tradizioni radicate nel loro paese d’origine, l’Egitto, giustificava l’aver praticato una delle più gravi violazioni della femminilità: la clitoridectomia.
Alla povera Leila, infatti, era stato rimosso il clitoride, con modalità rudimentali e prive delle benché minime cautele igienico-sanitarie, causandole plurime infezioni, oltre ad una grave emorragia e numerose fratture su braccia e gambe, che si era procurata nel tentativo, risultato vano, di divincolarsi da quella violenza disumana.
Le avevano tolto per sempre il sogno di diventare donna, di provare piacere e, forse, le lesioni riportate nell’area vaginale avrebbero compromesso anche la possibilità di avere una gravidanza regolare o, peggio, l’avrebbero resa sterile.
Quando esaminai la sua cartella clinica e vidi le foto del povero corpicino di Leila, martoriato dalle ferite e dalle ecchimosi, ci misi parecchio prima di poter continuare a prendere visione del fascicolo.
Ma quelle foto non erano nulla in confronto al viso spento e ricolmo di vergogna e paura della piccola Leila, che avevo incontrato quando mi era stato affidato il suo caso.
Mi ero ripromesso che le avrei assicurato un risarcimento faraonico.
Non potevo restituirle la parte più intima della sua femminilità, ma avrei fatto tutto il possibile per far tornare il sorriso in quel suo visino, provato da un dolore troppo grande per la sua età.
In occasione di una delle sue visite in studio in compagnia della mamma, estranea ai fatti e separata ormai da due anni dal marito, la ragazzina mi aveva confidato che uno dei suoi sogni più grandi era quello di salpare in mare aperto con una barca, bella spaziosa, con una cameretta da letto tutta sua.
Se quel processo fosse terminato con l’epilogo che auspicavo, forse quel suo sogno si sarebbe potuto avverare.
L’abbrivio di quel processo imminente mi fece realizzare che era giunto il momento di abbandonare quel luogo così pregno di magia ed incanto per fare ritorno alle mie sudate carte processuali
.
Per qualche istante, la difesa di Leila mi aveva distolto dall’angosciante pensiero di Lei.
Non sapevo, in realtà, che di lì a qualche istante Lei sarebbe ritornata, gettandomi in un abisso di dubbi, paure, rimorsi.
Feci per incamminarmi lungo il sentiero roccioso che, ripidamente, mi avrebbe ricondotto alla base della Marina Militare, dove avevo lasciato la mia auto.
Ad un tratto, però, fui attratto da qualcosa che sporgeva tra gli scogli, proprio dietro il faro, in un punto che si poteva scorgere soltanto nei pressi della torre e che, pertanto, non era facilmente visibile né dalla strada costiera né dallo sterrato.
Sembravano delle scarpe da ginnastica, o qualcosa del genere.
Lì per lì non ci feci molto caso, potevano essere cadute a qualche turista che si era avvicinato troppo al faro e che non era riuscito a recuperarle, in quanto si trattava di un punto piuttosto ripido e scosceso della costa, a strapiombo sul mare.
Poi, però, l’istinto mi spinse ad osservare con maggior attenzione e mi accorsi che non v’era soltanto una