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Historia Romana, Vol. II
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Historia Romana, Vol. II

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About this ebook

Costantino XI Paleologo. Basileus - Pitea. Il figlio degli oceani - Afranio Siagrio. L'ultima aquila

3 Romanzi in 1

Tre personaggi, tre storie perdute che testimoniano tempi oscuri e passati.
Costantino XI Paleologo, l'ultimo imperatore d'Oriente, chiamato a salvare
senza aiuti e risorse il suo fragile dominio dall'invasione Ottomana.
Pitea di Marsiglia, il geografo e navigatore che viaggiò solo per i mari del Nord,
tre secoli prima di Cristo, quand'ancora l'impero Romano non era che una vaga utopia.
Afranio Siagrio, lo strenuo difensore dell'ultimo brandello dell'impero Romano
d'Occidente, anche dopo la sua tragica caduta che segnò i natali del Medioevo.
Tre grandi del passato, ciascuno con la propria storia, le proprie vittorie e le proprie
disfatte, colpevolmente dimenticati e omessi dalla storia stessa a cui appartengono.
Tre volti che riprendono vita nel secondo volume di Historia Romana.

 
LanguageItaliano
Release dateSep 2, 2019
ISBN9788834179574
Historia Romana, Vol. II

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    Historia Romana, Vol. II - Patrizio Corda

    COSTANTINO XI PALEOLOGO. BASILEUS

    Patrizio Corda

    A Giulia

    I

    La colpa

    Varna, 10 Novembre 1444 d.C.

    Il fumo iniziò a dissolversi dopo ore passate a coprire il cielo, che solo allora iniziava a tingersi del rossore del tramonto imminente.

    La piana aveva perso le sue fattezze originarie. Era ora una distesa dai rilievi incerti, deturpata da sommità sorte improvvisamente in una giornata che era parsa durare in eterno.

    Ma non vi era nulla di naturale in quelle sagome che si confondevano nella penombra della sera.

    Erano corpi.

    Migliaia di corpi disseminati, ammassati gli uni sugli altri fino a formare cumuli alti quanto e più di un uomo. Le armature erano ammaccate, le vesti lacerate e le maglie di ferro ridotte a pezzi.

    Il sangue aveva annerito il terreno, rendendolo umido e fetido.

    Neanche i cavalli erano scampati all’eccidio. Alcuni di loro giacevano a terra esanimi, agonizzanti con le zampe spezzate, in supplice attesa di qualcuno che ponesse fine alle loro sofferenze.

    E sotto i loro possenti corpi che si contraevano per gli spasmi, altri uomini, ormai già consegnatisi alla pietà del Signore, morti schiacciati dai loro stessi compagni anziché dai nemici.

    Nemici dell’umanità e della Fede.

    Avevano riempito di colpo l’orizzonte, mostrando la vera dimensione della loro sterminata e invincibile armata.

    E avevano travolto l’esercito di Cristo, spazzandolo via con una forza che mai si era vista su un campo di battaglia.

    Il silenzio che permeava l’aria sembrava ancora portare le grida, i richiami, le preghiere e le urla di dolore dei Crociati, mentre le forze dell’Anticristo si abbattevano su di loro.

    Solo un leggero crepitio, appena udibile, sussurrava nella quiete.

    Un vessillo con una croce rossa su fondo bianco, come per magia ancora piantato al suolo, ardeva. Sembrava vegliare sulle migliaia di morti, su tutte quelle anime che erano salite al cielo nel disperato tentativo di impedire l’inevitabile, di arginare un potere oscuro che la follia di un solo uomo aveva deciso di scatenare.

    E quell’uomo, incredibilmente, era il capo della Chiesa.

    Nonostante le vittorie iniziali dei Crociati sull’esercito degli Ottomani, Papa Eugenio IV aveva ritenuto che ciò non potesse essere sufficiente. Era necessario schiacciare definitivamente la minaccia degli infedeli.

    Il Cristianesimo doveva prevalere.

    E non solo religiosamente, ma anche politicamente e militarmente. Di fatti, aveva deciso di imbarcarsi in quella spedizione, offrendo il suo appoggio e i suoi uomini, solo in cambio dell’unione delle Chiese d’Oriente e d’Occidente. Con ovvio giovamento da parte sua. Ma quando aveva intravisto la possibilità di estendere la sua influenza anche sui Balcani, non aveva resistito.

    I Crociati erano realmente parsi in grado di poter respingere gli Ottomani.

    A quel punto, Eugenio era stato come colto da una smania indegna eppure irresistibile anche per un uomo di Chiesa.

    La smania di avere sempre di più. Di dominare tutto e tutti.

    E così aveva unito in nome di Cristo una sequela incredibile di popoli, tra Ungheresi, Polacchi, Boemi, Serbi e Bizantini, che per primi erano minacciati dai nemici. Proprio l’impero d’Oriente gli aveva chiesto aiuto e uomini, coinvolgendolo in quella spedizione che era diventata l’ultima Crociata. Quella lega aveva marciato unita contro gli Ottomani, seppur in palese inferiorità numerica.

    E aveva vinto.

    Almeno all’inizio.

    Quando il comandante supremo di quell’esercito eterogeneo, l’ungherese Giovanni Hunyadi, gli aveva comunicato l’intenzione di arrestarsi per non compiere avventatezze, Eugenio s’era sentito andare a fuoco. Proprio sul più bello, quando era così vicino ad accarezzare quel potere terreno mai realmente raggiunto, gli veniva ordinato di fermarsi, di rinunciare a terre, possedimenti e onori per la timidezza in guerra di uomini meno nobili di lui.

    Il sultano degli Ottomani, Murad, scoraggiato dalle sconfitte patite aveva addirittura sottoscritto un trattato con cui s’impegnava a desistere da qualsiasi offensiva per dieci anni.

    Ma ad Eugenio non era bastato.

    Aveva perentoriamente comandato che si procedesse, per liberare i Balcani tutti dalla minaccia eretica, che architettava senz’altro un nuovo assalto dietro quel trattato firmato solo per prender tempo.

    Attonito, Hunyadi si era visto costretto ad accettare per evitare di perdere tutte le forze fornitegli dallo Stato Pontificio e dai suoi alleati, senza i quali gli sarebbero rimasti ben pochi effettivi.

    Quello scoramento si era propagato a macchia d’olio tra i soldati, che avevano perso così di coesione e fiducia.

    Dando il là al preludio di una catastrofe senza precedenti.

    Le forze Ottomane, davanti al rifiuto del Papa di continuare la tregua, si erano ricostituite e rinforzate. Quando si erano mostrate ai Crociati, erano apparse come una marea umana.

    Sessantamila uomini, contro appena i ventimila di Hunyadi.

    Era stata una carneficina.

    La rotta degli Ungheresi comandati dal re Sladislao, morto nello scontro, aveva avviato un massacro in cui i giannizzeri, i feroci soldati scelti di Murad, avevano mietuto migliaia di vittime. E ora le forze di Cristo, gli uomini che Eugenio aveva mandato a morire in nome di Dio, giacevano riversi in una piana, condannati ad esser dimenticati da tutti, i loro resti nient’altro che un lauto pasto per avvoltoi e animali selvatici di passaggio.

    Anime pie che avevano abbandonato i loro corpi già putrescenti.

    Lo stendardo crociato smise di ardere, ormai ridotto a uno straccio incenerito. Cadde a terra senza far rumore.

    Un lungo, sinistro soffio di vento spiazzò la piana.

    Non era più rimasto un solo soldato Cristiano in vita.

    La furia di Murad era stata incontenibile, e presto le sue mire si sarebbero spostate verso altri, più grandi obiettivi.

    Questo, mentre il solo colpevole di quel disastro che sarebbe passato alla storia officiava la santa messa a Roma.

    II

    L‘eletto

    Mistra, Marzo 1445 d.C.

    Al mio adorato figlio Costantino,

    saluti.

    Mio caro, ti scrivo questa lettera mentre le mie lacrime bagnano l’inchiostro. Piango, Costantino, perché mi vedo costretta a darti una triste notizia che mai avrei voluto portarti.

    Tuo fratello Giovanni, il nostro amato basileus, il nostro imperatore, è caduto vittima di un male sconosciuto che neppure i più eminenti medici che abbiamo potuto reclutare a corte riescono a comprendere. Egli è sempre più debole, e ciò che è peggio il suo stesso animo pare affievolirsi e perdere energie ogni istante che passa. Indubbiamente, grava sul suo ancora giovane spirito la frustrazione per non essere riuscito a risollevare le sorti di questo nostro mondo, come aveva auspicato agli albori del suo regno.

    Avrei tanto voluto che tu potessi prepararti, figlio mio.

    Ma le circostanze sono calamitose, e mi vedo spinta a cercare di avvisarti per tempo, pur sapendo bene che di tempo non ve ne è.

    Ho sempre sostenuto che tu, tra tutti i miei figli, fossi quello più portato per il buon governo dopo il caro Giovanni.

    Egli ha fatto un buon lavoro, ed è amato e rispettato per la sua autorevolezza anche al di fuori di Costantinopoli.

    Ma sembra che il Signore abbia deciso che sia giunta l’ora di riaverlo con sé. Guardo i suoi occhi affranti, che hanno perso forza e vitalità, e non riesco a reggerli per più di pochi attimi.

    Mi si vela la vista per le lacrime a sapere che presto, dovrò dire addio a un altro dei miei amati figli. E sai bene, Costantino, quanti della prole mia e di vostro padre se ne siano andati prematuramente, come se la nostra nobile casata fosse caduta vittima di una maledizione irrevocabile.

    So che in Grecia, dove risiedi ora come despota di Morea, sei ben voluto e riverito in virtù della tua clemenza e del tuo carattere che ricordo affabile, moderato e vocato alla giustizia.

    Proprio per questo sono ad annunciarti che io, l’imperatrice dei Romei, Elena Dragases tua madre, ho intenzione di far sì che Giovanni ti designi come suo successore. Il basileus sa bene che la sua dipartita è vicina, e non avendo eredi sarà costretto ad eleggere a suo successore uno tra voi suoi fratelli.

    Non voglio che ciò che sto per dirti ti suoni malvagio e improprio di una madre, figlio mio, ma non posso nascondertelo.

    Guardati da coloro che condividono il tuo stesso sangue.

    Tuo fratello maggiore, Teodoro, benché si sia da tempo ritirato a vita privata non ha mai approvato il fatto che la Morea, uno degli ultimi possedimenti di questo nostro impero morente, sia andato in mano ai più giovani della famiglia.

    Non escludere la possibilità che, il giorno in cui Giovanni salirà al cielo, Teodoro possa tornare dal suo esilio autoinflitto reclamando ciò che gli spetta per diritto dinastico, ma non per capacità.

    So che il tuo cuore è ricolmo di bontà e innocenza, ma non può esservi spazio per queste quando le dinamiche del potere entrano in gioco. Accetta questo mio consiglio, che viene da decenni di esperienza maturata a corte.

    Anche l’altro tuo fratello Tommaso, con cui dividi il governo della Morea, che avete faticosamente riconquistato dando a Costantinopoli rinnovata potestà sulla Grecia, potrebbe rivelarsi un nemico una volta spirato Giovanni.

    Quanto più una persona ci è vicina, Costantino, tanto più viene a conoscere i nostri pregi e i nostri difetti, le nostre virtù e le nostre debolezze. Sii abile nel nascondere queste ultime, e nel renderti invulnerabile a qualsiasi trama e a qualsiasi maldicenza.

    La modestia che alberga in te senz’altro ti farà credere di non essere sufficientemente degno di salire sul trono di Costantinopoli, regnando così sull’Oriente. Non dubitare di te stesso.

    Avrei tanto desiderato per te un governo in tempi migliori.

    Ma come sai bene anche tu, viviamo in anni di disgrazia.

    Dopo la catastrofica Crociata in cui quasi tutte le forze Cristiane sono state distrutte, siamo circondati dalle orde degli Ottomani.

    Speravamo di risollevarci, grazie alla coalizione di eserciti che avevamo radunato in cambio dell’unificazione delle Chiese.

    Ma così non è stato.

    Non ti nego che spesso, alla notte, mi chiedo se ciò non sia una punizione per qualche atteggiamento di superbia che abbiamo tenuto in passato. Eppure, non riesco a darmi risposta.

    So solo che questo mondo in cui viviamo, figlio mio, è un continuo divenire, un fluire inarrestabile di eventi che si susseguono, e in cui noi, per quanti onori possiamo ottenere in terra, non siamo che insignificanti figure di passaggio.

    Tutto si muove, e tutto cambia.

    Anche ciò che sembra immutabile ed eterno.

    I popoli che un tempo vagavano raminghi per le terre più remote del mondo ora schiacciano noi, che un tempo dominavamo ovunque risplendesse il sole.

    Tutto può essere, e tutto può cambiare.

    Sia su grande scala, che su piccola scala, nelle nostre vite private.

    Per questo ti chiedo, figlio mio amato, di prepararti a ciò che sarà deciso per te. E a dimenticare il significato del legame di sangue.

    Una volta vestita la porpora, non avrai che nemici.

    E tutto l’onore del mondo.

    Spero di ricevere presto una tua lettera, e di poter leggere quelle parole illudendomi di udire la tua voce, che ricordo sempre dolce e gentile. Sappi che ti tengo sempre nei miei pensieri.

    Possa il Signore mantenerti in buona salute,

    Elena Dragases, Basilissa dei Romei

    III

    L’eredità di Teodosio

    Istmo di Corinto, 11 Dicembre 1446 d.C.

    «Sfranze…»

    Giorgio Sfranze rimase a osservare Costantino, il rampollo della casata dei Paleologi, mentre questi era seduto a terra, lo sguardo vuoto fisso su ciò che rimaneva delle imponenti mura di Hexamilion.

    Scosse il capo, celando il dispiacere dietro la folta barba ingiallita e il reticolo di rughe che gli solcavano il viso cereo e tirato, dandogli l’aspetto di un vecchio e non di un uomo di quarantacinque anni.

    Costantino XI, figlio di Manuele ed Elena Dragases e fratello del basileus Giovanni, gli parve un bambino alle prese con la prima, reale delusione della propria esistenza.

    Tanto gentile e mansueto nell’animo era quell’uomo poco più giovane di lui da sembrargli quasi incapace di comprendere la situazione stessa, che pareva veramente tragica.

    Il despota di Morea, l’ultimo reale possedimento dell’impero d’Oriente, sembrava non capacitarsi di come quelle mura monumentali, che si snodavano per sei miglia lungo tutto l’istmo di Corinto, potessero essere crollate.

    Erano state erette oltre mille anni prima dall’augusto Teodosio II, in un periodo in cui le minacce barbariche avevano reso necessaria la costruzione di una barriera che proteggesse l’intero Peloponneso. Erano sempre stato uno spettacolo unico da rimirare, così forti, ricche di storia e impenetrabili.

    Apparentemente, immortali.

    Ma poi, erano arrivati gli Ottomani. Come una punizione divina.

    Sfranze si passò una mano sulla barba senza dir nulla, posando l’altra sulla spalla di Costantino. Avrebbe avuto tutto per poter essere in futuro un grande imperatore: il fisico aitante, il bel volto dai tratti fini incorniciati da una barba castana curata e fluenti capelli tirati all’indietro, un’eleganza naturale e una mente brillante, coadiuvata da uno spirito puro e tendente in maniera innata alla giustizia e ai buoni sentimenti.

    Forse troppo.

    Ecco qual era il difetto del povero Costantino. Era troppo buono, troppo onesto, quasi cieco e incapace di razionalizzare la malvagità umana e le disgrazie che ne erano l’amaro frutto.

    Ecco perché giaceva a quel modo, dimentico della sua regalità e del suo ruolo, senza energie, capace solamente di fissare le macerie fumanti, quei blocchi un tempo insuperabili e ora distrutti, ridotti in migliaia di pezzi, e i corpi carbonizzati per effetto delle terribili cannonate degli Ottomani.

    Già ai tempi di suo padre Manuele i Turchi avevano violato quelle mura protettive, costringendo il reggente di Costantinopoli a vuotare le casse imperiali già allo stremo per ricostruirle. Costantino aveva deciso di dedicarsi anima e corpo nel continuare l’impresa del padre, riuscendo a trovare grazie al suo buon governo i fondi per riparare una volta ancora quello schermo che avrebbe protetto la Morea da qualsiasi insidia esterna.

    Ma non era valso a niente.

    Doveva essere anche quello, pensò Sfranze, a straziare l’animo di Costantino. La convinzione crescente che, per quanto si sforzasse, l’intera sua casata fosse destinata a soccombere, a vedere le proprie speranze costantemente ridotte in brandelli, sempre per mano delle armate del sultano Murad.

    Non dubitava che Costantino avesse un qualcosa nel suo carattere che lo rendesse ancora troppo fragile per regnare con pieni poteri.

    Ma non poteva neppure negare che la sequela di disastri e delusioni che aveva dovuto sopportare sino ad allora il suo buon amico avrebbe incrinato la fiducia e l’ottimismo di qualsiasi uomo.

    «Amico mio» disse a quel punto cingendolo paternamente.

    Costantino chinò il capo. Sul viso aveva un’espressione indefinita eppure inquietante, di chi è nel pieno di un vortice di pensieri tendenti all’autolesionismo e alla voglia di arrendersi.

    A Sfranze si strinse il cuore.

    Doveva tanto ai Paleologi e all’affetto di Costantino, che aveva sensibilmente favorito la sua ascesa arrivando a chiamarlo a sé in Morea, facendolo governatore. E in virtù del nobile sentimento che li legava, non avrebbe permesso che l’oblio, la depressione e l’apparente ineluttabilità dello sfacelo cui andava incontro il loro mondo avessero la meglio su di lui.

    Non poteva rassegnarsi all’idea che il suo amico e benefattore fosse un debole, un uomo incapace di rialzarsi e combattere.

    Troppe erano state le occasioni in cui aveva dimostrato di essere un uomo di un’intelligenza folgorante, capace anche di ardue decisioni e grandi sacrifici per il bene della collettività.

    Non poteva essersi sbagliato sul suo conto. E ciò non aveva nulla a che vedere col suo orgoglio personale.

    Si trattava di tener vivo l’ultimo, vero sovrano che avrebbe potuto risollevare le sorti di un impero un tempo vastissimo e florido, che si era nei secoli ridotto a poche terre, una delle quali appunto la Morea, illuminata dalla luce di Costantino.

    «Supereremo anche questa» gli sussurrò alle orecchie, rialzandolo di peso.

    Costantino tenne lo sguardo a terra, annuendo poco convinto.

    «Queste macerie non contano nulla. La materia si estingue. Ma la storia rimane. Un augusto ha eretto questa barriera. E a te spetta il compito, che questa esista ancora o meno, di portare avanti la sua opera. Per il bene di tutti noi».

    Gli splendidi occhi verdi di Costantino brillarono per un istante, facendo capire a Sfranze che quelle sue poche parole avevano avuto in minima parte l’effetto sperato.

    Gli parve quasi di percepire l’energia e il calore che questi riusciva ad emanare nei momenti di pieno entusiasmo. Sì, era riuscito a far tornare ad ardere il suo fuoco interiore.

    «Ancora una volta, non posso che arrendermi al tuo eloquio, Sfranze» sorrise mestamente. «Andiamo».

    E abbracciati in maniera quasi cameratesca, continuarono a camminare mentre il tramonto si spandeva nel cielo, occultando misericordioso quello spettacolo di morte e devastazione.

    IV

    Virtù

    Mistra, Marzo 1447 d.C.

    Pur essendo la primavera alle porte, era ancora pungente il freddo alle pendici del monte Taigeto. Si potevano ammirare le sue vette ancora bianche, la neve a gravare sui rami degli alberi che ne cingevano i fianchi. Costantino rimase per un po' a scrutarne le altezze poi si voltò, camminando blandamente sotto i porticati della sua residenza. Da questi, era possibile perdersi nell’immensità dell’orizzonte, col mar Mediterraneo che appariva come un’interminabile tavola piatta, di un azzurro profondo.

    Giunse fino al termine del camminamento, e restò in silenzio a contemplare il mare, adagiato contro una colonna.

    Sfranze gli si avvicinò, stringendosi nel mantello.

    «Sai che ti dico, Sfranze?» disse Costantino rompendo il silenzio. «Che tutto ciò fa parte di un disegno più grande di noi».

    «Non ti capisco» fece questi aggrottando le sopracciglia.

    Costantino sorrise senza malizia, ma con una punta di soddisfazione per aver realizzato qualcosa che sfuggisse al suo argutissimo amico e consigliere.

    «Pensaci bene. Da che gli Ottomani sono diventati una minaccia concreta, molto è cambiato attorno a noi. Non solo politicamente, ma anche spiritualmente. Non ti rendi conto che addirittura il Papa si è fatto corrompere dalla smania di potere?»

    Poi si voltò, vedendo che Sfranze non rispondeva.

    «Non c’è bisogno di essere diplomatici anche adesso, andiamo. Siamo solo noi due, ora. So che lo pensi. Abbiamo offerto anni or sono allo Stato Pontificio la possibilità di regnare sulle due Chiese unite, eliminando ogni disputa religiosa in cambio di un supporto militare. Eppure, pur avendo la pace a portata di mano, è stata l’avidità del Papa, il suo voler conquistare nuove terre che ha compromesso la Crociata. E se addirittura il capo della Chiesa ha uno spirito corrotto, significa che in definitiva la razza umana nella sua interezza è irrecuperabile».

    Sfranze si grattò il capo su cui rimanevano pochi, radi e lunghi capelli color paglia, e lo affiancò. Rimasero in silenzio per un poco, ad ammirare il mare calmo e placido, indifferente ai loro patemi.

    «Dev’esser questo. Gli Ottomani devono essere i messaggeri della fine dei tempi. Non c’è altra spiegazione. Guarda come hanno raso al suolo le mura di Hexamilion, riprendendosi tutta la Morea che avevamo conquistato al prezzo di vite umane e immani sacrifici!»

    «Non tutto è perduto…»

    Costantino si voltò di scatto, ma senza la forza di fulminare Sfranze con uno sguardo di rimprovero. Fu più come se lo implorasse tacitamente di argomentare quella sua frase così vacua.

    «Se ritieni sia così, perché allora io, Costantino Paleologo, figlio e fratello di imperatori, sono ora costretto a pagare un tributo a questi barbari incivili?» gli chiese, soffocando la rabbia.

    «Era la cosa migliore da fare, al momento».

    «Sono stanco di vivere attimo per attimo, Sfranze! Non posso sopportare una simile umiliazione, che getta nella vergogna anche il basileus mio fratello. Sono ormai convinto che regnare non sia cosa per me. Guardalo, il mio regno!» esclamò invitandolo a osservare le cittadine che erano sparpagliate al di sotto di quella loro terrazza naturale.

    «Solo sulla carta regno su questi luoghi! E il popolo lo sa! I Paleologi, i signori di Costantinopoli, ridotti a miseri tributari del sultano Murad! Costretti a pagare , a pagare per poter prolungare questa farsa di regno, e non essere scacciati!»

    Sfranze sospirò. Come tutti i talentuosi e gli illuminati, Costantino era vittima di un’atavica incostanza. Altalenava esaltazioni improvvise e coinvolgenti a lunghi, logoranti periodi di frustrazione, pericolosamente vicini all’autolesionismo.

    La pace in Morea aveva solo momentaneamente placato questa sua natura ondivaga, sintomo di una fragilità interiore che, come la storia insegnava, aveva spesso contraddistinto i giovani membri delle più grandi dinastie detentrici del potere assoluto.

    E in quel momento, il povero Costantino era pienamente vittima del lato peggiore di sé. Incapace di far altro se non attribuirsi le colpe di un qualcosa ben più grande di lui, senza razionalizzare gli eventi. Quasi felice di crogiolarsi nel disprezzo per sé stesso, per la sua inesperienza e la sua inadeguatezza.

    Come se da solo avesse potuto contrastare l’invincibile Murad, che aveva messo in ginocchio l’intero mondo Cristiano oltre ad avergli strappato la Morea, sulla quale aveva regnato.

    «Io ti conosco, Costantino. E lo sai. Non fosse vero, mai mi avresti concesso l’onore di esercitare sotto di te. Quindi ti dico, amico mio, che devi concederti non tanto il perdono, quanto il riposo. Intendo il riposo da questi pensieri che non corrispondono al vero, e certo non ti giovano. Per te parlano i fatti, e la vita che i cittadini di Morea han condotto sino a oggi».

    «Tu mi aduli» sorrise amaramente Costantino.

    «Non azzardarti mai a più dire una cosa simile» lo rimproverò senza cattiveria Sfranze. «Io ti sto accanto per i miei meriti, e non certo per piaggeria. Lasciami finire, ora. L’amore di cui i sudditi ti hanno omaggiato è lo stesso che ha onorato altri grandi del passato, che son passati alla storia per il loro buon cuore prima ancora che per la loro autorità. Non serve che ti faccia nomi. Ebbene, proprio questa innata bontà che possiedi non ti farà mai perdere l’appoggio del popolo, quale che sia la tua condizione. E se non ti riesce di aver fede nel Verbo viste le ignominie compiute dai ministri di Dio, abbi almeno fiducia in te. Perché solo così, credendo nel tuo operato e nell’affetto e nella lealtà che ti han tributato i tuoi sudditi potrai trovare la forza per risollevarti».

    Costantino lo guardò rinfrancato, un sorriso appena abbozzato a rilucere entro i contorni della folta barba.

    «Vorrei vedere in me le virtù che tanto vanti».

    «Ad ogni cosa il suo tempo» rispose pacato Sfranze, mettendosi a sedere.

    Rimasero nuovamente in silenzio, ciascuno immerso nelle proprie riflessioni, impegnati a scrutare oltre il mare come se aldilà di esso potessero esservi tracce di quel futuro che non riuscivano a scorgere.

    Un vento gelido prese a soffiare, ululando per i porticati.

    E a Costantino parve che quel mare che iniziava ad gonfiarsi e ribollire, minacciando burrasca, fosse in tutto e per tutto identico al tormento che non sembrava voler smettere di agitare la sua fragile anima.

    V

    Fato immortale

    Costantinopoli, Ottobre 1447 d.C.

    Elena rimase immobile sull’uscio, gli occhi color acquamarina che brillavano di felicità e sorpresa. Giovanni, suo figlio e basileus del popolo d’Oriente, era in piedi sulle proprie gambe.

    Le dava la schiena, adagiato con fatica sul davanzale della finestra dal quale si potevano ammirare i giardini reali e le corti interne.

    Vestito solo di una tunica leggera, l’imperatore appariva dimesso, pallido, ben lontano dalla figura regale che aveva ammaliato, per intelligenza e gusto, tutti i popoli che l’avevano conosciuto.

    La luce del mattino lo avvolgeva di un’aura biancastra, lattiginosa eppure abbagliante, mentre continuava a indugiare con lo sguardo sulla sua capitale, ignaro della presenza della madre.

    Solo il tocco leggero delle sue dita diafane lo riscosse.

    «Madre» le sorrise. La sua barba sempre curata era ormai lunghissima, un groviglio di spessi crini castani. I capelli altrettanto lunghi, sporchi e inselvatichiti.

    Elena lo accolse tra le sue braccia, celando dietro al muro del suo silenzio lo sgomento per aver sentito le sue costole sporgenti.

    Lo aiutò con dolcezza a sedersi sul margine del letto.

    «Che gioia rivederti nuovamente in forze, figlio mio».

    Giovanni sorrise, annuendo quasi ironicamente.

    «Non mi sentivo così bene da tempo. Soprattutto, sono lucido e cosciente. Chissà quanto avrete penato per me».

    Senza dargli tempo di continuare, Elena lo baciò sulla fronte, abbracciandolo ancora e sedendogli accanto, accarezzandogli le mani. Gelide, ossute, a tratti tremanti.

    «Devi mangiare. È fondamentale perché ti riprenda».

    «In tutta onestà, non so quanto durerà questo momento lieto» la sorprese Giovanni con un sorriso malinconico. «Sono oggettivamente l’ombra dell’uomo che ero. Guarda» le disse indicandosi i piedi nudi, «il basileus dei Romei che cammina scalzo come un misero». Disse ciò con un tono ilare, ma anche amaro.

    «Anche se son parso a lungo in fin di vita» continuò rialzandosi a stento, e tornando alla finestra «ho pensato molto. Ho cercato risposte che purtroppo non ho trovato. Non mi è possibile, per quanto mi sforzi, capire dove io abbia sbagliato. E più il tempo che mi resta va esaurendosi, più cresce il rimpianto».

    Elena scosse il capo, sconsolata.

    Era proprio vero quel che le avevano detto. Il mal di vivere stava uccidendo suo figlio ancor prima che lo facesse la malattia.

    «Eppure, in cuor mio so di aver agito per bene. Ho licenziato tutti i mercenari dal nostro esercito, ho dato fondo alle casse imperiali per erigere fortificazioni e ho addirittura accettato di inginocchiarmi davanti al Papa come un mendicante, barattando l’unione delle Chiese con delle armate che potessero difenderci. Ma nulla di tutto ciò è servito. E sapere che tutti voi venite trascinati verso la fine assieme a me mi strazia».

    Rimase in silenzio, con lo sguardo perso nel vuoto. In controluce, la sua sagoma le apparve ancora più esile e stremata dal digiuno.

    Le gambe un tempo possenti, torniti fasci di muscoli erano ora più simili a quelle di un vecchio indigente. La pelle già cadente.

    «Non mi sono mai permessa di contraddirti, da quando salisti al trono» disse Elena abbracciandolo da dietro, «ma ora debbo farlo. È necessario che tu torni alla realtà, Giovanni. E per quanto alto sia l’onore che ti è stato concesso, devi capire che anche tu sei un essere umano. Hai dato tutto te stesso, ma come tutti quanti gli altri uomini non puoi che essere spettatore davanti a ciò che già è stato scritto nel firmamento. Noi possiamo cambiare solo in minima parte i piani del Signore. E tu hai fatto tutto il possibile. Se fine sarà, nulla potrà evitarla».

    Giovanni si voltò lentamente, rivolgendole uno sguardo terrorizzato e smarrito.

    «Dunque cos’altro posso fare?»

    Elena lo baciò sulla guancia, come se ai suoi occhi egli non apparisse più come un adulto, per giunta tra i più potenti del mondo, ma bensì come un bambino indifeso.

    «Tutto ciò che puoi fare è pregare per te e per noi, e augurarti che ci sia concessa l’opportunità di vedere quel cambiamento che fino ad ora non è giunto. Mi duole esser realista, Giovanni, ma sappi che è difficile che ciò accada. Eppure, non ci resta che sperare, tenere viva la speranza che qualcosa cambi, a prescindere da chi possa essere il fautore di una simile impresa».

    Giovanni sentì le gambe tremare, e arrancò fino a crollare in maniera pietosa sul letto.

    La vigoria di cui tanto si era stupito quel mattino iniziava già a venir meno. Guardò la madre quasi vergognandosi di sé.

    Elena gli si fece nuovamente incontro, fissandolo negli occhi.

    «Bisogna prepararsi, Giovanni».

    «Cosa intendi, madre?»

    Un lampo passò negli occhi dell’anziana ma ancora affascinante imperatrice madre.

    In alcuni momenti, era come se la sua inesauribile determinazione riuscisse a riportarla indietro nel tempo, facendola brillare come quando, giovane e bellissima principessa dei Serbi, si era seduta per la prima volta sul trono di Costantinopoli.

    «Quale che sia il tuo destino, è tua responsabilità fare in modo che la tua famiglia e il tuo popolo non restino soli. Io prego perché tu viva, perché troppi dei miei figli son già tornati a Dio. Ma se ciò non dovesse essere, sarà necessario che la nostra dinastia continui a essere il simbolo della speranza, del futuro».

    Giovanni sapeva già cosa intendesse la madre.

    Espirò pesantemente dalle narici, piantando i palmi nel morbido letto. Chiuse gli occhi per un istante, poi li riaprì.

    «Chi pensi sia dunque degno di ereditare il mio regno?»

    Elena gli prese la mano, accarezzandola dolcemente.

    «Questo te lo dirà il tuo cuore, figlio mio».

    In quel momento, Giovanni ritrovò il temperamento dei momenti migliori, e tornò improvvisamente il sovrano imperioso ch’era stato. Pur seduto e provato, emanò un’autorità immediata.

    « E io esigo di sapere cosa pensa la basilissa ».

    Un sorriso compiaciuto si disegnò sul volto smunto di Elena.

    «Penso quello che pensano tutti. Che ci sia una sola persona che possa regnare degnamente come tuo successore».

    La luce esterna li inondò, mostrando ad entrambi la chiarezza dei reciproci pensieri.

    Giovanni guardò a fondo negli occhi stupendi della madre.

    «Costantino».

    Elena gli strinse ambo le mani, e annuì gravemente.

    «Costantino».

    VI

    Esiliato

    Mesembria, Luglio 1448 d.C.

    Protetto dalle tenebre, Demetrio continuò a camminare a passo svelto tra le rovine. Incrociò improvvisamente un elemosinante che languiva accasciato contro un muro crollato e si tirò ancora più giù il cappuccio, temendo di essere scoperto.

    Quando fu al riparo da occhi indiscreti si liberò da quella copertura opprimente, liberando sotto la luce lunare la sua chioma di riccioli rossi. Si guardò attorno e non riuscì a trattenere un’imprecazione.

    Quei maledetti Ottomani stavano distruggendo qualsiasi cosa incontrassero sul loro cammino. Anche quelle terre prima floride e ricche di colori, a un passo dal mare, erano ormai un ammasso di macerie. E la colpa sarebbe ricaduta tutta su di lui.

    Da quanto tempo ormai era confinato lì?

    Quel titolo di consigliere in Bulgaria che la sua famiglia gli aveva conferito non gli bastava più. Era tutta una scusa per tenerlo lontano dal vero cuore pulsante dell’impero. Costantinopoli.

    Era lì il vero potere. Ed era tutto in mano a quel moribondo di Giovanni e a sua madre Elena.

    Maledizione, era suo figlio anche lui!

    Perché l’aveva spedito in quelle lande desolate?

    Cos’aveva che non andava?

    Tutti i suoi fratelli avevano goduto di incarichi più importanti di lui. Teodoro, anche se ora s’era ritirato, era stato despota di Morea in Grecia. Stessa sorte che ora toccava a Tommaso e Costantino, che per quanto ne sapeva sembrava essere proprio il prediletto di sua madre. Giovanni poi, continuava a sedere sul trono imperiale malgrado passasse le sue giornate a letto, a languire come una larva. Tutto fuorché un basileus .

    Lui invece, che condivideva il loro stesso sangue, ed era alle prese con un governo minore ma falcidiato dalle incursioni Ottomane, sembrava destinato a non vedere mai la luce.

    Costretto a passare il resto dei suoi giorni nell’ombra, membro di secondo piano in una dinastia da sempre legata al potere.

    Si sedette su un masso, e contemplò i paraggi.

    Palazzi distrutti, detriti, cadaveri. Poco lontano dalla sua residenza, il quadro si faceva veramente tragico. Era anch’egli ostaggio degli Ottomani e delle loro razzie, per quanto s’illudesse dell’opposto.

    La sua pelle candida sembrò ancora più lucente nell’oscurità.

    Rimase chino su sé stesso a riflettere.

    In realtà, cos’avevano fatto di tanto importante i Paleologi per ritenere di dover ancora mantenere il potere?

    Gli sembrò pazzesco anche solo pensarlo, essendo parte di quella stirpe gloriosa. Ma la frustrazione, lo sapeva bene, era capace di portare il pensiero umano in territori nuovi, oscuri e sinistri.

    Da che aveva avuto il senno, suo padre, sua madre e i suoi fratelli gli erano parsi impotenti davanti al crescente strapotere di Murad.

    L’impero era diventato via via più risicato, angustiato dalla povertà di risorse e di idee mentre i Turchi si moltiplicavano, conquistavano terre a loro danno e li umiliavano in battaglia ad ogni occasione. Suo fratello Giovanni si era addirittura dovuto prostrare davanti al Papa, salvo ritrovarsi poi con mani e piedi legati, costretto a soggiacere alla sua volontà in cambio di truppe da schierare contro il nemico.

    E anche quella vergognosa umiliazione non era valsa a nulla.

    Gli Ottomani sembravano sul punto di far loro anche la Morea, in mano a quei fratelli, Tommaso e Costantino, ritenuti migliori di lui ma ugualmente incapaci di opporre alcuna resistenza.

    Sollevò il capo, perdendosi nell’oscurità.

    Ma a quel punto, chi aveva veramente ragione?

    Chi meritava realmente di dominare incontrastato su ciò che un tempo era stato dei Romani, e poi dei Romei loro discendenti?

    Chi era più adatto, più potente, benedetto dal cielo?

    Si chiese se a quel punto, dopo tutti quei fallimenti, non fossero loro ad essere dalla parte del torto. Era evidente come non apparissero più in grado di reggere quell’impero agonizzante.

    Murad era potente, ricchissimo, e militarmente non poteva essere sconfitto. L’ultima Crociata ne era la prova.

    La distruzione stessa che lo circondava ne era l’esempio.

    I Paleologi, che pur di restare al potere avevano mescolato il loro sangue a quello Slavo di sua madre, erano una dinastia morente.

    Era così. Il tempo ciclicamente faceva sì che nuove genti si avvicendassero, assurgendo alla gloria più alta per i loro meriti.

    E il tempo degli Ottomani sembrava ormai giunto.

    A meno che…

    A meno che non fosse stato l’ultimo dei Paleologi, il solo a non aver ancora regnato nel vero senso della parola, ad ergersi a baluardo della Cristianità e dell’impero, scacciando la prospettiva di un futuro fatto di oscurità e schiavitù.

    Forse era lui l’ultima speranza del loro mondo.

    Rise sommessamente, crogiolandosi in quella fantastica e affascinante ipotesi. Lui, Demetrio, finalmente insignito del massimo potere, vincitore della minaccia Ottomana.

    Sì, gli piaceva quell’idea.

    Era proprio degna di lui.

    Di lui solo, non di certo dei suoi fratelli che avevano solo collezionato disfatte infangando il nome della loro stirpe.

    Ma prima di arrivare ad ottenere ciò per cui sentiva di esser nato, doveva trovare un modo di sciogliere quelle catene, di liberarsi, di evadere da quella prigione dorata in cui volutamente l’avevano spedito. Doveva trovare un modo.

    Riprese a camminare, senza curarsi di celare quel suo volto principesco, raffinato, quasi femmineo che tutti conoscevano.

    Non aveva dubbi. Avrebbe trovato una soluzione.

    Era forte di un’incrollabile fiducia nei suoi mezzi. Altro segno distintivo di chi è destinato a grandi imprese.

    Avrebbe scalato la sua gerarchia familiare, e poi avrebbe risolto la guerra con Murad e i suoi Ottomani, passando alla storia.

    E questo, pensò con un ghigno sul volto, non necessariamente sconfiggendoli in battaglia e cancellandoli per sempre.

    VII

    La certezza di un futuro

    Costantinopoli, 25 Ottobre 1448 d.C.

    Elena guardò in preda all’agitazione il medico chino su Giovanni.

    Questi indugiò per attimi che le parvero interminabili, poi lentamente incrociò il suo sguardo. Scosse il capo.

    Non c’era più niente da fare.

    Il basileus era destinato a spegnersi di lì a poco, il suo respiro prossimo a disperdersi nel vento. Giaceva sul letto incosciente, emaciato, con la bocca spalancata e gli occhi chiusi. Chiunque non avesse posato l’orecchio sul suo torace ormai ossuto avrebbe creduto senza alcun dubbio che fosse già morto.

    L’imperatrice madre si morse il labbro inferiore. Era provata a sua volta dalle interminabili veglie, e non ricordava più l’ultima volta che aveva mangiato o si era guardata allo specchio.

    Con un cenno fulmineo della mano congedò il medico, al che rimase sola col figlio moribondo. Gli si avvicinò e posò la mano sulla sua fronte. La sentì gelida, asciutta.

    Si chiese se Giovanni potesse anche solo udire la sua voce.

    Non poteva cedere al dolore lei, una madre che aveva già perso per malattia diversi figli. Quelle tragedie avevano avuto su di lei un effetto quasi disumanizzante. Forse era per quello che riusciva a mantenere la razionalità e la convinzione di cosa fosse prioritario.

    L’elezione del nuovo reggente di Costantinopoli.

    Come se l’avesse letta nel pensiero, Giovanni mosse lentamente la mano destra, cercando le sue dita.

    «Madre…»

    Elena si avventò su di lui, baciandolo e accarezzandolo.

    «Madre mia…non c’è più tempo…è la mia fine, la fine di tutto» rantolò Giovanni, prima di pronunciare una serie di parole sconnesse con la bocca piena di saliva.

    Lei si allontanò da lui impercettibilmente.

    Il figlio ormai aveva perso il senno. Maledisse sé stessa per aver atteso troppo a lungo, credendo che la malattia gli desse tregua.

    Non sarebbe riuscita a fargli vergare di proprio pugno l’elezione per Costantino, l’unico degno di succedergli. Era stata una stupida.

    Ora non poteva veramente allontanarsi da lui.

    Chiunque, approfittando della sua infermità mentale, avrebbe potuto estorcergli qualsiasi concessione, condannando la dinastia e forse addirittura spodestandola.

    Non l’avrebbe permesso. I Paleologi dovevano regnare.

    «So cosa pensi…» sussurrò Giovanni, il petto scosso dagli spasmi.

    «Io non penso a niente, figlio mio, se non alla tua salute».

    «Io…io sono finito. Morirò. Ma ho avuto tempo di pensare a cosa ci dicemmo tempo fa. Non potevo andarmene sapendo di lasciare la mia famiglia circondata di gente avida, pronta a tutto per accaparrarsi il potere. Non…non potevo».

    Forse c’era un’occasione. Un’ultima, imperdibile occasione.

    «Cos’è accaduto che non so, figlio mio?»

    Un sorriso quasi beffardo apparve sul volto sciupato di Giovanni.

    «So bene quanto tu tenga a Costantino e alla sua nomina. Anche io sono…d’accordo». Si fermò per prendere fiato. «Tra i miei fratelli, è il più equilibrato e saggio. Tommaso è fedele alla corona, ma manca ancora di personalità. Teodoro ormai, non ne vuole più sapere del potere. E Demetrio…»

    «…Demetrio è diverso » disse Elena.

    Giovanni aprì appena gli occhi, ridotti a due fessure cispose.

    «Demetrio è malvagio. È…disposto a qualsiasi cosa».

    Elena non poté far altro che dargli ragione. Era vero. Proprio per quello l’avevano spedito in Bulgaria di comune accordo. E ora, sarebbe tornato alla carica reclamando il titolo più alto.

    «Per questo ho…ho deciso di eleggere Costantino. La nomina è custodita da uomini a me fedeli, nelle mie stanze private. Nessuno…nessuno può accedervi. Ho dato ordine di inviarla a Costantino, quando…quando io non ci sarò più».

    Detto ciò, strinse con forza insospettabile per le sue condizioni le mani della madre, prima di cadere nuovamente in uno stato incosciente, con il capo reclinato su una spalla.

    Era vero ciò che suo figlio le aveva appena detto?

    Le sue pressioni avevano alla fine sortito l’effetto sperato?

    Elena coprì col lenzuolo Giovanni, e rimase a osservarlo mentre questi giaceva inerte, ma ancora vivo. Chissà per quanto.

    E se quelle parole non fossero state altro che il frutto delle allucinazioni di un uomo ormai fuori di sé?

    Non poteva sopportare quella sensazione di incertezza.

    Giovanni era stato un sovrano brillante, dalla mente finissima, ma purtroppo la malattia l’aveva reso inaffidabile. Alternava momenti di razionalità ad altri di pura follia.

    Proprio per questo, non se ne poteva fidare del tutto.

    Uscì silenziosamente, mostrandosi quanto più contrita possibile, scivolando per i corridoi che portavano alle stanze del basileus .

    Nessuno dei cortigiani o delle guardie che incrociò ebbe l’ardore di chiederle dove fosse diretta, né di impedirle di accedervi.

    Si trovò davanti alla porta d’ingresso degli appartamenti imperiali, sorvegliata da due colossali soldati armati di spada e lancia.

    I due, senza far parola, annuirono e portandosi la mano destra al cuore si fecero da parte, lasciando che entrasse.

    Una volta che la porta fu chiusa dietro di sé Elena cercò di abituarsi all’oscurità, squarciata soltanto dalle deboli fiamme di poche candele accese.

    Si diresse spedita verso lo scrittoio di Giovanni.

    Se veramente quella nomina autografa esisteva, lei l’avrebbe trovata. E a quel punto avrebbe capito se ciò che il figlio le aveva detto era vero, se realmente Costantino sarebbe stato il nuovo basileus dei Romei.

    E se ciò non lo fosse stato, avrebbe fatto in modo che lo diventasse. Con buona pace di Giovanni, che oramai era il passato.

    Era giunto il tempo che fosse lei a decidere del futuro dell’impero.

    E in situazioni del genere, la sicurezza non era mai troppa.

    VIII

    Basileus

    Mistra, Novembre 1448 d.C.

    Costantino continuò a fissare la missiva, pur avendola già letta più e più volte, fino a che gli sembrò che quelle parole avessero perso di senso. Poi alzò il capo, fissando Sfranze con gli occhi sgranati.

    «Ti pare possibile?» gli chiese mostrandogli il foglio.

    «Certamente è possibile. Reale, non saprei dire».

    Tutto ciò che Costantino riuscì a fare fu scuotere il capo, passandosi le mani sul volto con forza, come se cercasse di risvegliarsi da quella situazione paradossale.

    Non era certo la nomina a basileus a stupirlo. La predilezione di sua madre gli era nota. Per quanto stesse andando male il suo regno in Morea, con gli Ottomani che continuavano ad annettersi terre e chiedevano tributi sempre più esosi, sapeva di esser più portato dei suoi fratelli. Indubbiamente non abbastanza per reggere Costantinopoli, ma comunque più degli altri pretendenti.

    Erano quelle parole che aveva letto che l’avevano scosso.

    Non avrebbe mai pensato che Giovanni, l’equilibrato e diplomatico Giovanni, si sarebbe potuto sbilanciare tanto nel dare il proprio giudizio al riguardo. E non tanto su di lui, sul quale si era soffermato relativamente poco, ma su Teodoro, Tommaso e Demetrio. Aveva letto sbalordito aggettivi come pavido e lezioso per il primo, acerbo per il secondo e addirittura indegno di alcuna fiducia per il terzo.

    Sapeva che suo fratello era malato da tempo, ma non avrebbe mai creduto che nei suoi ultimi istanti di vita, questi avrebbe riservato parole tanto aspre per la sua stessa famiglia.

    Sin dalla prima lettura, però, aveva avuto un sospetto.

    Che quella lettera, per quanto scritta con la calligrafia di Giovanni, non recasse i veri pensieri del suo defunto fratello.

    Avrebbe voluto sapere cosa pensava Sfranze in merito.

    Ma sapeva che si sarebbe dovuto accontentare di quanto gli aveva appena detto. Il suo consigliere però gli si fece più vicino, chiedendo col palmo della mano aperto di poter leggere a sua volta.

    Costantino gli porse la lettera, e Sfranze spese alcuni minuti in religioso silenzio ad esaminarla, fermandosi solo per attorcigliarsi la folta barba con indice e pollice uniti. Dopodiché, gliela rese.

    «Credo che i tuoi dubbi possano essere fondati, Costantino. Ma anche se, supponiamo, sia stata la basilissa a scrivere queste dure parole, cambierebbe qualcosa?»

    Davanti al silenzio del suo interlocutore, Sfranze assunse un’espressione quasi ironica, inarcando un sopracciglio.

    «Andiamo, Costantino».

    «Io…credo di no» fu costretto a confessare quest’ultimo.

    «Appunto. È abbastanza evidente come tutti gli altri pretendenti al trono siano assai meno abili di te. Certo, la nostra imperatrice madre, che Dio la preservi, avrebbe potuto contenersi, ma d’altronde rischiava ben poco firmandosi come Giovanni. Ma ha detto il vero. Che giovamento avrebbe l’impero nel vedere sul trono uno di quei tre nobili tuoi fratelli?»

    Costantino scosse il capo, come smarrito.

    «Ragioniamoci su. Teodoro non regge altro che non sia la sua dimora da anni. Il suo tempo è ormai passato, e troppo è cambiato nel frattempo. Tommaso dipende ancora del tutto da te. Dividendovi la Morea, si sperava che maturasse. Invece fa riferimento a te per ogni cosa, anche se è fedele alla dinastia. E Demetrio…c’è un qualcosa in lui che suggerisce di tenerlo il più lontano possibile dalla capitale. Non trovi?»

    Ormai spalle al muro, Costantino non poté che annuire.

    «Sento che vuoi dire qualcosa, ma l’imbarazzo ti blocca. Se lo vorrai, per me sarai sempre un caro amico e benefattore, prima che il basileus cui devo fedeltà assoluta. Puoi parlare, con me».

    Il sorriso di Sfranze ricordò a Costantino come, dietro la sua figura di rigoroso e inflessibile burocrate, vi fosse un animo incline al più nobile e prezioso dei sentimenti umani.

    Decise dunque di aprirsi del tutto.

    «Riconosco l’inadeguatezza dei miei fratelli, per quanto mi dispiaccia. Ma della mia, di inadeguatezza, che debbo farne?»

    Sfranze si mise a sedere, sospirando stancamente.

    «La tua inadeguatezza esiste solo dentro di te, Costantino» disse fissandolo dritto negli occhi. «Non hai nulla che possa far credere che tu sia destinato essere un imperatore imbelle».

    «Veramente lo credi?» chiese Costantino, guardandolo di sottecchi.

    «Certamente. Quel che provi può essere facilmente scambiato per paura, e può indubbiamente scaraventarti in un baratro di insicurezze e giudizi impietosi su te stesso. Ma in verità, lascia che ti dica che quel che ti fa sentire così è semplice incredulità. Un’incredulità che scaturisce dal tuo essere umile oltre ogni umana concezione, specialmente dato il tuo lignaggio».

    «Continua».

    «Tutti i grandi, nel momento in cui il loro destino si palesa, vacillano. Ma non perché convinti di non essere all’altezza. Bensì, perché la loro innata umiltà e modestia impedisce loro di azzardarsi in slanci che potrebbero compromettere tutto. Tu credi che i tuoi sentimenti ti siano nemici e ti impediscano di esprimerti al massimo delle tue potenzialità. Ma in realtà ti stanno proteggendo dal bruciarti prima ancora di poter assurgere a ciò per cui sei nato. Ciò che solo tu meriti».

    Detto ciò, Sfranze rimase a mani giunte, comodamente seduto, a guardare Costantino.

    Lo vide annuire, abbozzare un sorriso, riflettere profondamente.

    E capì che forse, era finalmente riuscito a fargli prendere definitivamente coscienza di sé, e di ciò che avrebbe potuto fare se avesse deciso finalmente di credere in sé stesso.

    Se lo augurò di cuore, per il bene dell’impero e di tutti loro.

    IX

    A tempo debito

    Edirne, Dicembre 1448 d.C.

    Preferiva non portarli quei maledetti sandali, Maometto. A lui piaceva ancora girare scalzo, come se fosse ancora un bambino, esule dalle regole e invisibile agli occhi, purtroppo per lui onnipresenti, degli uomini fidati di suo padre. Il sultano Murad.

    Continuò a girare a testa alta, riempiendo i suoi profondi occhi verdi della bellezza dei giardini che rendevano il palazzo di suo padre ancora più maestoso.

    Inspirò profondamente, chiudendo gli occhi e cercando la calma, la serenità che sentiva perduta da tempo ormai immemore.

    Poi si accorse.

    Erano lì. Ancora, nonostante li avesse già ammoniti.

    Si voltò di scatto, con sguardo feroce.

    «Seguitemi ancora e vi sventrerò con le mie stesse mani».

    Parole ancora più dure e terribili di quanto già fossero, se si pensava che venivano pronunciate da un ragazzo di appena sedici anni, ancora esile, dal viso per niente inasprito dalla vita.

    E proprio per quello, per quella sua innata raffinatezza, che si rispecchiava anche nel volto delicato, nel naso sottile e nei fluenti capelli corvini raccolti in una coda, quella minaccia sapeva ancor più di reale promessa di morte.

    Gli anziani cortigiani di Murad, attoniti, si dileguarono in un istante, sgattaiolando per i viali costeggiati da piante d’agrumi.

    Maometto strinse i pugni, reprimendo l’ira.

    Era stanco.

    Terribilmente stanco.

    Poteva capire che il padre, all’alba di una campagna che avrebbe potuto cambiare le sorti del loro impero, volesse accertarsi che il suo figlio ed erede crescesse come si spettava senza incappare negli errori che costellavano talvolta il percorso dei giovani nobili.

    Non gliene poteva fare una colpa, anche se spesso il suo sguardo di supponenza lo irritava. Forse, aveva pensato, invidiava il suo fisico scattante e atletico, ora che l’età l’aveva reso un uomo pingue, stempiato e dalla barba deturpata di chiazze senza peli.

    Ma lui era il sultano, e il suo volere era legge.

    Ciò che veramente non riusciva a sopportare era quell’atmosfera che trasudava falsità attorno a lui. Aldilà dei compiti che suo padre affidava loro, sentiva che tutta la corte di Edirne gli era avversa.

    E sapeva bene il perché.

    Anni prima Murad aveva deciso di abdicare, soddisfatto per le conquiste ottenute e desideroso di godersi la sua vecchiaia.

    Aveva così deciso di passare il testimone a lui, appena dodicenne.

    Ma Maometto, dopo poco tempo, non se l’era più sentita. Sapeva che la loro cultura imponeva agli uomini, specie in una dinastia tanto potente, di accettare grandi responsabilità precocemente. Ma lui voleva vivere, essere ancora bambino, vivere la sua infanzia prima che il mondo reale lo traesse a sé, strappandogli dal petto la spensieratezza e la voglia di esser libero da ansie e problemi.

    E quando aveva trovato il coraggio di far conoscere al padre quella sua decisione, riaffidandogli il governo poco prima dell’ultima, decisiva Crociata, aveva nitidamente percepito lo sdegno di coloro i quali sino a pochi mesi prima lo osannavano.

    Un disprezzo silenzioso, fatto di inchini smodati, sorrisi di circostanza e di una servilità ancora più spudorata. Tutti sintomi, come aveva avuto modo di studiare, di una possibile congiura ai suoi danni nel futuro.

    Murad aveva accettato senza troppo fastidio quella sua richiesta.

    Forse aveva capito che non era ancora il caso di far gravare sulle spalle di un ragazzino il destino di un impero. Ma Maometto, tramite le poche spie delle quali poteva fidarsi, era venuto a conoscenza dei veri umori della corte.

    Persino dell’harem di suo padre.

    Lo avevano chiamato pavido, incapace, effemminato. Qualcuno aveva addirittura osato insinuare che il suo comportamento fosse riconducibile a una causa molto più semplice.

    Egli non era vero figlio di suo padre.

    Un’accusa gravissima, non solo volta a lui ma anche al sultano stesso e alle sue consorti, che avrebbe potuto scuotere come un terremoto l’impero Ottomano.

    Da lì, Maometto aveva deciso quale strategia attuare.

    Erano suoi servi? Tali si ritenevano in sua presenza? Ebbene, li avrebbe trattati come tali, anzi peggio, come bestie. Come i cani che erano. Non avrebbe frenato più la lingua, così come loro non avevano fatto con lui, senza mostrare un minimo di comprensione per quello che ai tempi non era che un bambino cui stava venendo sottratto il diritto a un’infanzia serena.

    Non gli importava di chi fosse figlio.

    Quella posizione ormai era sua, e tale sarebbe rimasta. Non a caso, nel suo breve periodo al trono, aveva messo in atto la legge del fratricidio, eliminando Ahmed, il suo fratello ancora neonato.

    Che fosse un bastardo o meno, avrebbero dovuto accettarlo.

    E ingoiare quel boccone, che sarebbe stato ancora più amaro quando sarebbe salito definitivamente al trono.

    Li odiava tutti.

    Eppure avrebbe dovuto passare il resto della sua vita fra loro.

    Quale scherzo del destino!

    Rientro con passo blando verso la sua residenza, un edificio dalle forme morbide e tondeggianti, dipinto interamente di bianco, la cui anticamera era un porticato con pavimenti in marmo verde.

    Presto la sorte gli sarebbe stata favorevole.

    E tutti quei volti invisibili, quegli sguardi che parevano arrivare ovunque, quelle bocche velenose quanto inudibili, avrebbero dovuto sottostare al suo incontestabile volere.

    Sempre che non volessero disubbidirgli.

    Al costo delle loro vite.

    X

    Il piano

    Dintoni di Corinto, Febbraio 1449 d.C.

    Demetrio, senza alcun preavviso, rifilò uno schiaffo terribile alla ragazza che si stava ancora agitando sopra di lui benché il rapporto si fosse già consumato. La poveretta, appena adolescente, cadde malamente a terra tenendosi il naso sanguinante.

    «E adesso sparisci dalla mia vista» le disse gelido.

    La ragazza si ricoprì alla meglio e scese dalla carrozza.

    Una volta solo, Demetrio si distese un poco con gli occhi chiusi, allargando braccia e gambe. Sorrise.

    Si sentiva invincibile. Finalmente era arrivato il momento che aveva aspettato per anni.

    Dopo aver atteso oltre ogni limite possibile, finalmente sua madre s’era decisa. Davanti alle irrecuperabili condizioni di salute di Giovanni, non aveva potuto far altro.

    E poco importava se a Costantinopoli sarebbe finito suo fratello Costantino, come tutti d’altronde avevano pronosticato.

    Lui, il reietto, quello che più di tutti aveva dovuto attendere in silenzio per il suo momento di gloria, a breve sarebbe diventato despota di Morea, raccogliendo l’eredità del fratello e avendo l’onore di governare su quella estrema porzione della Grecia.

    Il primo, fondamentale passo verso la sua ascesa.

    Certo, c’erano delle incognite.

    Si alzò svogliatamente, e ancora nudo andò a versarsi del vino.

    La Morea era tutto fuorché dominio imperiale, oramai.

    Gli Ottomani, da quando avevano distrutto le mura di Hexamilion, si erano presi quelle terre costringendo Costantino e il fratello Tommaso a sottostare al loro volere, pagando umilianti tributi.

    Tommaso.

    Avrebbe dovuto dividere presto quel titolo con lui.

    Non dubitava di riuscire a prevalere sul fratello, fedele alla dinastia e al volere della madre. Fin troppo.

    Egli era esageratamente mansueto e gentile, e non c’era possibilità che gli si rivoltasse contro. Avrebbe fatto come gli diceva.

    Doveva solo portare ancora un poco di pazienza.

    Quando era stato convocato per essere informato di quell’elezione non ci aveva voluto credere. Solo dopo che i fratelli gliel’avevano comunicato di persona ogni suo dubbio era svanito.

    Si versò un’altra coppa, che bevve in un solo sorso.

    Quell’occasione meritava di essere festeggiata a dovere.

    Gli aveva fatto strano vedere Costantino, prossimo ad essere il basileus , così serio e distaccato. Fosse stato lui a ricoprire quella carica non avrebbe saputo trattenere la gioia, la voglia di sbattere in faccia a tutti la sua fortuna e la sua superiorità.

    Poco male.

    Presto o tardi, ci sarebbe arrivato pure lui.

    Costantino, più che un freddo calcolatore, gli era sembrato stupidamente incapace di realizzare quali incredibili possibilità stessero per aprirsi davanti a lui, per quanto in degrado fosse quel che rimaneva del loro impero.

    E proprio per quello, non lo temeva. Credeva che alla lunga si sarebbe fatto fuori da solo, insufficientemente preparato davanti alle trame che da secoli contraddistinguevano la corte di Costantinopoli. Lui sì, che avrebbe saputo come muoversi.

    Perché da sempre aveva dovuto sgomitare per emergere, attendere in silenzio il suo turno, incassare continue umiliazioni e rimboccarsi le maniche, sempre dietro ai fratelli.

    Ma tutto ciò stava per cambiare.

    Rigirò la coppa ormai vuota, poi la posò sul tavolo.

    In sé, la Morea ormai non era gran cosa.

    I sudditi erano vessati dalle tasse, e versavano in miseria.

    Gli Ottomani se ne erano annessi quasi la totalità.

    Ma la posizione di quella appendice della Grecia, tra le terre di Murad e quanto restava alla sua famiglia, era preziosissima.

    Gli era chiaro che, per sopravvivere, avrebbe dovuto esser più scaltro degli altri, intuire anzitempo i cambiamenti.

    Non aveva senso prestare fedeltà a una dinastia, se questa era irrimediabilmente destinata a scomparire per sempre.

    L’importante era rimanere a galla.

    Come aveva sempre fatto.

    E dalla Morea, avrebbe potuto captare tutto ciò che avveniva presso entrambi gli schieramenti, restare informato, stabilire relazioni utili a mantenersi sempre nelle grazie di chi stava prevalendo in quello scontro che aveva tutta l’aria di poter decidere le nuove sorti del loro mondo.

    Quelle stesse informazioni, poi, avrebbe potuto usarle a suo favore, rinsaldando la sua posizione in base alle circostanze.

    Poteva risultare utile a tutti, in quel nuovo ruolo che avrebbe ricoperto.

    La sua famiglia l’avrebbe tenuto in maggior considerazione, e anche Murad avrebbe dovuto iniziare ad interfacciarsi con lui.

    Non aveva che da guadagnarci.

    Si distese nuovamente, rotolandosi tra le morbide lenzuola ancora calde e impregnate del profumo della giovanissima prostituta di cui aveva goduto sino a pochi minuti prima.

    Sentì i muscoli rilassarsi, e l’adrenalina placarsi lentamente.

    Si fece cullare dal sonno che incombeva su di lui, ebbro non solo di vino ma anche di esaltazione.

    L’ora della sua rivalsa era prossima a giungere.

    Con essa, sarebbe iniziata la sua inarrestabile scalata al potere.

    E il modo in sarebbe arrivato ad ottenerlo, in quel momento, gli parve l’ultimo dei suoi problemi.

    XI

    Essere degni

    Mar di Marmara, 11 Marzo 1449 d.C.

    La vedeva, finalmente.

    Costantinopoli.

    Era lì, meravigliosa, illuminata dal sole della sera che la faceva sembrare una città appartenente a un altro mondo, ricoperta d’oro, bellissima nonostante le nuvole gonfie di pioggia che la circondavano. Anche il cielo, con quelle tinte così inusuali, sembrava volersi inchinare al suo arrivo, salutare il suo avvento come basileus dell’antico e glorioso impero d’Oriente.

    Costantino rimase così, issato sul parapetto della nave, senza più curarsi del tumultuoso rollio causato dalle onde che andavano gonfiandosi. Non gli importava. Quella visione lo stava ripagando di tutte le notti insonni che aveva trascorso da quando sua madre gli aveva fatto pervenire la conferma ufficiale della sua nomina.

    Tanto era cambiato, da allora.

    Ma le cose importanti, quelle sulle quali aveva bisogno di far affidamento, erano rimaste le stesse. L’amore di Elena, l’affetto fraterno di Tommaso e la solida amicizia con Sfranze, che lo stava seguendo anche in quella nuova avventura.

    E soprattutto, il legame che lo legava indissolubilmente alla gente.

    Si era quasi commosso, quando a Mistra aveva indetto la cerimonia per la sua incoronazione. Ne sarebbe seguita un’altra a Costantinopoli, certo, ma gli premeva particolarmente accommiatarsi dai suoi ex sudditi come meritavano. La Morea non era più una terra fiorente e appacificata. La lasciava come feudo in mano agli Ottomani, solo formalmente ancora sotto i Paleologi.

    Eppure, il popolo gli aveva tributato ovazioni, commosso quanto e più di lui e orgoglioso della sua ascesa.

    Aveva deciso allora di pagare di tasca propria per tutto, compresi spettacoli e banchetti che potessero almeno in parte allietare tutte quelle persone che pur versando in condizioni disperate avevano deciso di radunarsi per mostrargli la loro sincera gratitudine.

    Anche le truppe non erano state da meno, inneggiando decine di volte al suo nome. Non si era potuto esimere, a quel punto, da attingere alla sua pur risicata fortuna personale per elargire dei piccoli donativi a tutti quanti. Nel profondo del suo cuore, aveva sentito di doverlo fare. Stando a quanto gli avevano detto sua madre e anche Sfranze, a Costantinopoli non avrebbe mai visto simili manifestazioni d’affetto. Tanto valeva abbandonarsi ai sentimenti fino a quando gli sarebbe stato possibile.

    Mancava poco, oramai.

    Il porto di Teodosio era vicino. Lo aspettava la città più bella del mondo, neanche più seconda a Roma madre dei popoli. E poco contava se ciò che l’Oriente era stato un tempo si era dissolto, spazzato via dalle invasioni barbariche e poi da quella, terribilmente attuale, degli Ottomani.

    Quant’era bella, la Città Santa.

    Si portò una mano al cuore, come a salutare a sua volta quella visione meravigliosa. E improvvisamente, sentì l’orgoglio mischiarsi alla paura, al timore di non potercela fare.

    Gli ritornò alla mente un fatto accaduto durante la sua marcia trionfale a Mistra. Si era imbattuto, casualmente, in una figura che non accennava a cedere il passo al suo corteo. Le guardie avevano subito mosso per spostarla con la forza, ma si erano presto bloccate. Quella sagoma altri non era che una piccola bambina cieca, che stava chiedendo l’elemosina e che non si era affatto accorta di chi fosse a pochi passi da lei.

    Col cuore gonfio di compassione, Costantino l’aveva abbracciata, mentre questa rabbrividiva per l’emozione di conferire con il futuro basileus . Aveva deciso di donare del denaro anche a lei, e si era raccomandato con uno dei suoi segretari che si provvedesse a darle una sistemazione dignitosa. Ma anziché sentirsi sollevato e in pace con sé stesso, si era improvvisamente scoperto a immedesimarsi proprio nella piccola sventurata.

    Si era sentito cieco, proprio come lei.

    Del tutto incapace di vedere. E non ciò che concretamente lo circondava, ma bensì il suo futuro.

    Cosa sarebbe accaduto, di lì in poi?

    Quali prove avrebbe dovuto sostenere?

    Forse il popolo non l’avrebbe accolto né accettato.

    E la corte reale, era veramente così torbida e piena di insidie?

    Non si sentiva abbastanza pronto per tutto ciò.

    Posò lo sguardo sulle acque tumultuose e ribollenti che lambivano lo scafo della nave. Le vide oscure, pericolose, impenetrabili.

    Proprio come immaginava il suo avvenire.

    Era il paradosso della gloria, capace di elevare gli uomini ad altezze inimmaginabili, mantenendoli comunque sempre a un passo dal baratro più profondo.

    Non era uno stolto, né tantomeno un visionario. Sapeva bene che saliva al potere nel peggior momento possibile, con l’impero ormai ridotto praticamente alla sola Costantinopoli, circondato dai nemici e privo di risorse o appoggi di qualsiasi sorta.

    E proprio questa sua razionalità nel capire la situazione lo faceva piombare sempre più sovente nell’agitazione.

    Era terrorizzato dall’idea di non essere all’altezza.

    Si era consumato a furia di pensarci, di riflettere sulle sue debolezze ed ipotizzare scenari via via sempre più nefasti.

    Sollevò nuovamente il capo.

    No, non ci si poteva avvelenare con pensieri tanto negativi, quando si era così fortunati da poter godere di quello spettacolo divino, con le mura, i palazzi altissimi, le cupole che rilucevano al tramonto.

    Ci sarebbe stato tempo per gli affanni.

    Gonfiò il petto e inspirò la freschissima aria di mare.

    Si sentì subito meglio.

    Era a Costantinopoli.

    La sua nuova dimora, in quello che ora era il suo impero.

    Che fosse il Signore a decidere della sua dignità, e ad assisterlo se mai l’avesse ritenuto davvero meritevole di regnare su quello che un tempo era stato il più grande dominio al mondo.

    XII

    Speranza

    Costantinopoli, 12 Marzo 1449 d.C.

    Sfranze arretrò di qualche passo, per godersi meglio la scena.

    Il Foro Occidentale era gremito di persone, sebbene la carestia avesse ridotto notevolmente il numero degli abitanti e molti di essi fossero emigrati, cercando fortuna altrove.

    I ramoscelli d’ulivo venivano agitati senza

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