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Un bar, una mucca, un cappotto: Guai ai popolo senza memoria
Un bar, una mucca, un cappotto: Guai ai popolo senza memoria
Un bar, una mucca, un cappotto: Guai ai popolo senza memoria
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Un bar, una mucca, un cappotto: Guai ai popolo senza memoria

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About this ebook

“Ereditiamo le paure dei nostri padri e non sappiamo riconoscere i pericoli dell’epoca che abitiamo”.
Così Lampo, il capostipite della genia Aba, ricapitola gli eventi del ‘900, che, con la Grande Guerra, hanno infranto la sua idealizzazione del progresso , poi, con la Seconda, hanno portato il dolore della perdita del figlio Cecu, deportato nella Primavera del 1944 e morto in un campo di sterminio nazista.
Giacomo, sindacalista delle Officine Breda, è arrestato e deportato nello stesso campo di sterminio, negli stessi giorni. Cecu e Giacomo sono cognati. Una delle tante coincidenze che rendono una storia vera in tutto simile a un romanzo.
Giacomo e Cecu sono anche i nonni di Fabio.
Una ricerca di Fabio, il nipote, che, nel ricomporre il passato, restituisce la dignità al trovatello Lampo schiudendo il mistero della sua ascendenza, attribuisce un nome ai responsabili dell’arresto del nonno, permette di rivivere i traumi dei genitori allora bambini. E volgendo lo sguardo al presente, riflette sulle insidie che ancora, con dinamiche simili, minacciano l’epoca che abitiamo.
LanguageItaliano
PublisherFABIO
Release dateAug 19, 2019
ISBN9788834168752
Un bar, una mucca, un cappotto: Guai ai popolo senza memoria

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    Un bar, una mucca, un cappotto - Paola Emaldi

    Emaldi Paola

    Un bar, una mucca, un cappotto

    Guai ai popoli senza memoria

    Copyright 2019

    Grafica di:

    CMD Production srl

    Via V.Michelassi 8/4

    50018 Scandicci (FI)

    In copertina:

    Guai ai popoli senza memoria

    Cit. ANED Firenze – Mauthausen KL

    UUID: 43344f58-bb76-11e9-8aae-1166c27e52f1

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Prefazione

    Intro

    LE ORIGINI INCERTE

    LA CASCINA, LA SEGHERIA, LA FABBRICA

    MARZO 1944, QUINDI APRILE

    IL CAMPO

    UN BAR, UN MUCCA, UN CAPPOTTO

    LA MACELLERIA E POI IL CALCIO, LA VITA

    Prefazione

    Un’opera letteraria che attinge a piene mani dai fatti della storia: se già il primo romanzo, ambientato nella Gerusalemme dei decenni precedenti la distruzione del 70 d. C. - Il mantello del sommo sacerdote (Ancora, 2010) - si caratterizzava per la ricostruzione di un preciso momento e ambiente storico, in questa nuova esperienza di scrittura di Paola Emaldi i documenti d’archivio e le testimonianze orali sono elemento imprescindibile della narrazione.

    Il nucleo originario di Un bar, una mucca, un cappotto è la ricerca febbrile che un amico dell’autrice, Fabio, ha intrapreso per fare chiarezza attorno ad una vicenda drammatica della propria famiglia: la deportazione, nell’aprile 1944, del nonno paterno Francesco Aba nel lager di Mauthausen, da cui non fece ritorno. I fatti più importanti si sono svolti in un paese della campagna del Sud Milano, oggi provincia di Lodi, indicato con la sola iniziale Salino

    Anche il nonno materno di Fabio, Giacomo Sanna, abitante a Monza e operaio alle Officine Breda di Sesto San Giovanni, a metà marzo 1944, era stato arrestato e deportato a Mauthausen.

    La scelta di alterare i cognomi dei protagonisti e di celare il nome del paese di Francesco Aba è motivata dalla necessità di tutelare la tranquillità di due persone anziane che delle vicende qui ricostruite sono state protagoniste e testimoni e vivono ancora nel paese. In casi come questo ritorna alla mente l’annotazione del Manzoni, che citava il manoscritto da cui fingeva avere attinto la storia di Renzo e Lucia: " Per degni rispetti, si tacer à li loro nomi, la parentela, et il medemo si far à de ’ luochi, solo indicando li Territorij generaliter. E concludeva con ironia che i nomi sono puri accidenti non sostanza" della narrazione.

    Ciò non toglie nulla alla veridicità dei fatti raccontati, documentati peraltro anche dalla riproduzione fotografica di una silloge di documenti d’archivio e dalla presenza dei nominativi di alcuni protagonisti nella bibliografia storica locale relativa alla deportazione. Anzi la circostanza dell’assenza di nomi autentici può essere assunta a significare che i meccanismi di questa storia, di cui Paola Emaldi ricompone con cura e abilità i frammenti, trascendono il caso particolare qui narrato per assurgere a un significato più generale: raccontano di un tempo - gli anni della dittatura fascista e della Repubblica di Salò - in cui nel nostro Paese le vite dei cittadini erano in balìa di chi aveva il potere, in cui si poteva essere arbitrariamente arrestati e finire in un lager la cui logica era di uccidere di lavoro e di stenti.

    Francesco infatti fu arrestato e deportato per un gesto irridente rivolto, sette mesi prima, alla fotografia capovolta di Mussolini, che il compaesano Angelo Vigorelli - pure lui arrestato e deportato - aveva appeso al suo trattore e la portava in giro per le strade del paese durante le manifestazioni di esultanza per la caduta del duce. Giacomo Sanna era stato arrestato e deportato perché partecipava ai grandi scioperi operai a Sesto S. Giovanni. Tutti e tre morirono a Mauthausen, nei sottocapi Gusen I e Gusen II, a pochi giorni di distanza: Giacomo il 1° febbraio 1945, Francesco il 4, Angelo il 6.

    Il respiro di questa storia è però molto più ampio rispetto al ventennio fascista. Fabio, con l’aiuto della zia Rosy, lucida testimone e virgiliana guida nell’esplorazione della mappa della costellazione familiare, spinge la ricerca archivistica fino al bisnonno Angelo, neonato consegnato alla ruota degli esposti dell’Ospedale Maggiore di Milano il 14 agosto 1865 e poi affidato a una famiglia del paese di Salino L’ipotesi è che Angelo fosse figlio di un nobile, avendo l’anonimo padre depositato presso un notaio milanese l’atto di donazione di una cascina e di una segheria di cui Angelo sarebbe entrato in possesso al compimento del ventunesimo anno. Con una dilatazione della storia lungo l’arco di un secolo la Emaldi ha quindi potuto dare espressione al suo estro narrativo, ricco di ambientazioni, di descrizioni liriche, di osservazione psicologica dei caratteri di molti personaggi di questa storia familiare. È noto che l’autore di un romanzo storico - come già da intuizione manzoniana - non stravolge e falsifica i fatti raccontati nei documenti, ma trasfonde in essi nuova vita con lo scandaglio di ciò su cui i documenti tacciono: pensieri e dialoghi, sentimenti, paure e dubbi, degli uomini e delle donne che ne sono stati protagonisti. A questo arricchimento vitale della storia la Emaldi si appassiona offrendoci una narrazione complessa, articolata, vivace.

    La scansione dei fatti documentati è intercalata dal ricorrente aggiornamento sulla caparbia ricerca storica condotta da Fabio da un archivio all’altro e sui commenti della zia Rosy, che si traducono in nuove piste di ricerca. Si coglie così la preziosità del dialogo - oggi sempre più raro - tra generazioni diverse, che aiuta a ricomporre frammenti di passato, a riscoprire le proprie radici, a decifrare il senso del proprio stare nel mondo.

    La parte più inedita del racconto riguarda la focalizzazione su uno dei responsabili della deportazione di Francesco. Sul suo essere sfuggito alla giustizia sommaria dei partigiani e alla giustizia istituzionale di una Corte d’Assise Straordinaria grazie all’amnistia del giugno 1946. Ma anche non viene taciuta l’insensibilità dei parenti più stretti nei confronti della vedova e dei figli del deportato, a dimostrazione che nella vita quotidiana convivono miseria e nobiltà, non sempre attribuibili ad una sola delle parti.

    Il processo di elaborazione di questo dramma familiare, attraverso la narrazione equilibrata di Paola Emaldi, viene ad assumere una funzione catartica di decantazione della tensione spasmodica di Fabio nella ricerca della verità: la consapevolezza che rabbia e risentimento avvelenano l’anima, che la memoria delle ferite non deve farci ripiegare su noi stessi o peggio disporci a infliggere ferite, bensì - come ha scritto Italo Calvino in Il sentiero dei nidi di ragno - deve servire a liberare noi, a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia. Rabbia, risentimento, odio dilagano nel nostro tempo, ma non prevarranno se sapremo osare pensieri inediti, parole altre, azioni rigeneranti.

    Ercole Ongaro

    direttore Istituto lodigiano per la storia della

    Resistenza e dell’età contemporanea

    A Francesco e Giacomo

    A tutti i Resistenti

    Intro

    Salino, campagna del Sud Milano, 15 Marzo 1944

    La strada che conduce a Salino attraversa il fiume; dopo il ponte a doppia arcata si fa elegante viale alberato, quindi si divide: a destra porta alla chiesa e al castello, che si affacciano sulla medesima piazza, a sinistra conduce alla cascina. Entrambe le diramazioni proseguono dopo aver curvato a no vanta gradi, in due strade parallele che abbracciano quella manciata di case allineate lungo le due vie del centro.

    Provenendo dal bosco di Muntaropi, dalla parte opposta del paese rispetto al ponte e alla cascina, Adriano aveva percorso correndo i due chilometri di cui conosceva ogni metro, evitando le buche, schivando le chiome che ostacolano il passaggio; Scheggia, il suo cane, correva accanto a lui.

    Nella foga non udiva il rumore dei ramoscelli secchi che si spezzavano sotto i suoi piedi, né quello dei ciottoli che si urtavano tra loro. Sentiva solo il rimbombo prodotto dall’aria che, dal naso, entrava nella testa, raccogliendo la paura dietro agli occhi per depositarla nella gola.

    Non si era fermato a prendere fiato, mai, nemmeno una volta, e le sue gambe di vispo undicenne non lo avevano tradito.

    «Adriano, vai assieme a tuo papà al bosco» gli aveva ordinato sua madre, perché quel giorno Cecu non sarebbe dovuto uscire di casa e Carolina non era tranquilla.

    «Mamma, mamma!» gridò quando fu sul portone della cascina.

    Seduto sulla panca sotto la finestra al tiepido sole di Marzo, il vecchio Angelo strizzò le palpebre e si alzò, sollevando la fatica degli anni per raggiungere il nipote che l’aveva oltrepassato, precedendolo e subito scomparendo dietro la porta di casa.

    Sentì le sue grida risuonare aguzze nella stanza, come una raffica di spilli, coprire il rumore di sedie che si spostano, cadono:

    «L’hanno preso, mamma, l’hanno preso! Lo portano via, in prigione!».

    E subito, mentre Angelo era in procinto di entrare, la nuora varcò la soglia, investendolo: parole non comprese, eruttate come un gemito indistinto, lo lasciarono interdetto.

    Il vecchio Angelo entrò in casa: «Adriano! Adriano!» chiamò rivolto al ragazzino, immobile accanto al grande tavolo centrale, gli occhi sbarrati, il fiato accorciato dall’affanno e dalla pena.

    «Il papà, il papà…» balbettava ancora, la luce degli occhi annegata nell’onda che la sommergeva, le labbra livide sotto gote sbiancate, quando il vecchio Angelo allungò le braccia magre e riuscì appena a trattenere la caduta del corpicino inerme.

    Carolina si fece il segno della croce, inforcò la bicicletta e pedalò spedita sulla strada principale, tagliò per la via Diaz e attraversò il paese uscendo in direzione dei boschi, fino a Muntaropi. Non fece caso alle comari che la salutavano lungo il tragitto. Il cuore pulsava dietro le tempie e la velocità bruciava nelle gambe.

    Al bosco trovò Guglielmo e San Pèder, i suoi cognati, circondati da un capannello di gente. L’autocarro se n’era appena andato. Nella confusione non si capiva per quale destinazione.

    «Chi erano?».

    «Lui, coi suoi sgherri».

    «C’era il figlio di Giovanni».

    «E il postino».

    «Il marito della perpetua».

    «Ah, buono quello!».

    «C’era anche il genero del calzolaio».

    «Lo portano a San Vittore» asseriva qualcuno.

    «Lo consegnano ai Tedeschi» presentiva un altro.

    San Pèder, la mano in tasca che sgranava la corona, boccheggiava in punta di labbra l’unico rimedio al male.

    «Non scherziamo, non ci sono capi d’accusa, gli danno una lavata di capo e lo rilasciano» minimizzò Guglielmo.

    «Carolina, vieni, su, appoggiati a me», aggiunse cingendole le spalle.

    Fecero qualche passo in direzione della strada, poi Guglielmo si fermò, ricordando i suoi doveri, e, rivolgendosi ai boscaioli rimasti sul posto, ordinò loro:

    «Tutti a casa, andate, tornate a casa!».

    Nessuno si mosse.

    Nessuno di loro conosceva le parole adatte, poiché mai avevano sentito raccontare dalle loro donne di una circostanza analoga, non essendo accaduto nulla di paragonabile in precedenza, perciò rimasero in silenzio.

    Uno dei boscaioli, dopo essersi guardato intorno, depose infine gli attrezzi sul carro. In silenzio, gli altri lo imitarono: San Pèder, infatti, non avrebbe dato ordini.

    Il Comune di Salino ricorda

    i suoi morti

    per causa di guerra:

    Aba Francesco

    Agnelli Vittorio

    Gorla Amedeo

    - La lapide li commemora assieme, fratelli.

    -E gli altri due, zia Rosy, erano suoi compagni? Erano assieme al nonno Francesco quando è stato arrestato?

    - Me se ricòrdi no, Fabio, mi spiace, è passato tanto tempo. Ma me par de no. Tuo padre sì, se lo ricorderebbe, aveva undici anni allora ed era presente quando il papà fu arrestato.

    -Avevano preso il nonno assieme a un amico, questo mi raccontava Adriano, sebbene, come sai, detestasse parlarne. E ra forse Amedeo Gorla? Vittorio Agnelli?

    -No, macché, il suo amico era Angelo, Angelo Vigorelli, vün che gèva la cascina e i campi a Salino; di questi due qui non mi ricordo proprio, me spìaŝ.

    Rimane assorta, lo sguardo introiettato nel passato, poi aggiunge:

    - È stata dura, alla fine della guerra, rimettersi in piedi. La nonna Carolina la gh’ha mantegnüd col bar, poiché gli zii l’han lasciata föra dalla segheria e dal commercio del legname, con una mucca, ma ha dovuto rimborsare il cappotto.

    - Quale cappotto?

    -Il cappotto che Guglielmo aveva prestato al nonno.

    -E la mucca?

    -Era una bestia di Giuseppe.

    Salino, campagna del Sud Milano, Aprile 1972

    Rosy aveva una cassettina di legno, di quelle in cui si confezionano i vini pregiati, dove aveva riposto le cose più care. Non c’era un posto completamente suo in casa, la cucina era il forte inespugnabile della nonna Rosina, il soggiorno era il dominio di Fabio, ed ora anche del piccolo Diego, così la conservava sotto al letto. Qualche volta, prima di coricarsi, l’apriva, faceva passare le carte tra le mani, guardava le fotografie che ritraevano suo padre. Le carezzava col pollice, come a trasmettere un saluto affettuoso.

    Il papà era l’uomo più affascinante che avesse mai conosciuto. Si vedeva lo sguardo, acuto, in quei ritratti. E il portamento. Non aveva trovato in nessun uomo qualcosa di paragonabile. Non lo avrebbe trovato più, ne era convinta.

    Si metteva comodamente distesa sotto le coperte e, ad una ad una, apriva le lettere ingiallite dal tempo, quelle trasmesse dal carcere a sua mamma Carolina, le leggeva, le consumava.

    Non vi era un cenno

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