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Umanità perduta
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Umanità perduta

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Cosa può esserci in comune tra una ragazzina, un ex detenuto e una madre?

“Umanità perduta” mette in scena tre personaggi che, in un momento della loro vita, hanno perso la loro umanità agli occhi della società. Tre personaggi, tre storie parallele, un’unica storia. Un primo romanzo noir.

Estratto

Era sempre la stessa storia. «Non sei qui per pensare» le ripeteva l'uomo, «sei qui per fare quello che ti dico io». La prima volta era su un'altra spiaggia che assomigliava a questa. Aveva portato con lei un'altra ragazzina, più giovane di lei, per fare merenda nel furgone parcheggiato vicino al molo. L'uomo, dentro il suo veicolo,  aveva sorriso quando le due ragazzine si erano avvicinate. «Ma sono scemo?» Aveva detto mentre scendeva dal furgone «i biscotti sono rimasti nel bagagliaio». «Vai avanti tu» le aveva ordinato duramente. Aveva aperto il baule e vi aveva spinto dentro l'altra ragazzina, che si era messa a urlare a squarciagola quando il bagagliaio venne brutalmente chiuso. Poi, il furgone era partito ad alta velocità e avevano viaggiato a rotta di collo per ore. Esausta, la ragazzina aveva finito per addormentarsi con il viso incollato al finestrino. Quello che era successo dopo, non se lo ricordava più molto bene.

LanguageItaliano
PublisherKarine Vivier
Release dateJul 19, 2019
ISBN9781547595754
Umanità perduta

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    Umanità perduta - Karine Vivier

    Umanità perduta

    Karine Vivier

    ∞∞∞

    ––––––––

    La ragazzina aveva l’acqua fino a metà coscia. Con gli occhi socchiusi, si abbandonò alla carezza delle onde che si agitavano dolcemente sulle sue gambe. Le grida e le risate degli altri bambini che sguazzavano nell'acqua con spensieratezza le arrivavano come un mormorio indistinto. La ragazzina era stata una di loro, ma in un passato che sembrava molto lontano adesso. Era quando papà era ancora vivo. Papà. Quanto tempo era passato da quando era salito in cielo? Non si ricordava più. Aveva perso la cognizione del tempo da quando non andava più a scuola. Adesso i giorni erano tutti uguali. Spalancò gli occhi in un ultimo tentativo di ricordarlo. Suo papà. Grande e forte. Bastava guardare con quanta leggerezza la sollevasse. Cercò di ricordare il colore dei suoi occhi, ma l'immagine svanì. Fissò un punto al largo e alla ragazza sembrò che se fosse riuscita a raggiungerlo, la memoria le sarebbe tornata come per magia. Avanzò ancora un po' nell'acqua. Il mare la chiamava. Voleva immergersi ancora di più finché le onde non l’avessero avvolta completamente, quando una mano si posò brutalmente sulla sua spalla.

    «Cazzo, cosa stai facendo? Ti sto chiamando da un'ora. Finiremo per farci beccare con le tue cazzate». Con gli occhi accecati dal sole, la ragazza rispose: «Voglio imparare a nuotare». Le arrivò uno schiaffo. «Non ti ho portato qui perché tu possa spassartela, eh? Non hai proprio niente nella testa. Cos'altro potresti fare se sapessi nuotare? Non abbiamo tempo da perdere. Ci sono persone importanti che contano su di me, testa di rapa. Hai capito?» borbottò l’uomo, dandole una pacca sulla testa. «Vai a lavorare, scansafatiche. Vedi quel biondino seduto da solo laggiù? Vai a giocare con lui. Sai cosa devi fare. Io vado a sedermi sulle scale vicino al molo. E sbrigati, soprattutto, che ho un appuntamento alle sei in punto, stasera».

    La ragazzina obbedì all'uomo e andò a sedersi vicino al bambino. Aveva forse quattro anni. Tutto si ripeteva come sempre. Cominciò meccanicamente la conversazione: «Ciao, posso giocare con te? Come ti chiami?» «Paul» rispose il bambino.

    Capelli color miele incorniciavano un viso dagli occhi verdi. I suoi tratti erano così delicati che, con i capelli più lunghi, avrebbe potuto essere scambiato per una bambina.

    «Tu sai costruire dei tunnel per le auto?» chiese il bambino. «Sei solo qui?» chiese la ragazza mentre si guardava intorno come aveva imparato a fare. «No, sono con mia nonna». «Dov'è tua nonna?» Il bambino indicò una donna anziana assorta nella lettura di un libro. Era seduta a una distanza di circa tre metri, calcolò mentalmente la ragazza. Era piuttosto corpulenta, non doveva muoversi molto agevolmente. Probabilmente l’uomo l’aveva notato. La ragazza infilò le mani nella sabbia per scavare una fossa. Gli occhi del bambino cominciarono a brillare e sorrise: «Mi costruirai un tunnel?» «Sì» rispose la ragazza. «Sono fortunato, sei gentile».

    La ragazzina cominciò a costruire dei tunnel mentre il bambino faceva andare sistematicamente le sue macchinine nella sabbia imitando il rombo di un motore. Il bambino la guardava con gratitudine, ma la ragazzina teneva la testa ostinatamente bassa. Nonostante la distanza tra loro, sentì l'impazienza e la rabbia dell'uomo che stava aspettando vicino al molo. Alzò lo sguardo verso il bambino e improvvisamente gli chiese: «Hai fame? Vuoi la merenda?» «Sì, volentieri. Sei davvero molto gentile» rispose il bambino.

    Le sorrise di nuovo e la ragazzina distolse lo sguardo. Qualcosa la destabilizzava. Eppure era successo decine di volte senza problemi. Era sempre la stessa storia. «Non sei qui per pensare» le ripeteva l'uomo, «sei qui per fare quello che ti dico io». La prima volta era su un'altra spiaggia che assomigliava a questa. Aveva portato con sé un'altra ragazzina, più giovane di lei, per fare merenda nel furgone parcheggiato vicino al molo. L'uomo, dentro il suo veicolo, aveva sorriso quando le due ragazzine si erano avvicinate. «Oh, che scemo che sono» aveva detto mentre scendeva dal furgone «i biscotti sono rimasti nel bagagliaio». «Vai avanti tu» le aveva ordinato duramente. Aveva aperto il baule e vi aveva spinto dentro l'altra ragazzina, che si era messa a urlare a squarciagola quando il bagagliaio venne brutalmente chiuso. Poi, il furgone era partito ad alta velocità e avevano viaggiato a rotta di collo per ore. Esausta, la ragazzina aveva finito per addormentarsi con il viso incollato al finestrino. Quello che era successo dopo, non se lo ricordava più molto bene.

    ∞∞∞

    Denis Papin aveva preso l’abitudine di alzarsi all'alba. Era come un automa e dormiva poco. I problemi di insonnia erano iniziati durante la sua incarcerazione e non se n'erano più andati da allora, neanche dopo il suo rilascio. Durante quei dieci anni di carcere, aveva pensato d’impazzire. Soprattutto di notte. Giaceva nell'oscurità della sua cella, teneva gli occhi aperti e aspettava con il cuore a mille. Il minimo rumore di passi lo faceva trasalire e si raddrizzava sul letto. Tutto poteva accadere, lo sapeva. Glielo avevano detto. I tipi come lui in prigione finivano con un coltello nella pancia. Le docce, la mensa e la passeggiata erano diventate altrettante prove che punteggiavano la sua vita quotidiana. Denis Papin viveva con la paura nello stomaco.

    Ma nulla gli era successo durante i suoi primi mesi di detenzione. Non appena scoppiava una rissa, si premurava di allontanarsi furtivamente allungando il passo. Non si mescolava mai agli altri e cercava di rimanere discreto, sempre in disparte. Gli altri prigionieri non gli indirizzavano mai la parola. Nessuno gli faceva domande, nemmeno le guardie. Era come se non esistesse, come se fosse diventato invisibile da quando era entrato in quelle mura. Aveva finito per pensare che nessuno sapeva chi fosse davvero. Di tanto in tanto vedeva altri tipi passare un brutto quarto d'ora. Urla, pianti, suoni di percosse, singhiozzi provenivano dalla prigione. Fissava il muro terrorizzato in attesa che arrivasse il suo turno, ma nessuno si interessava a lui. Lo lasciavano in pace. Fino a quel giorno fatidico.

    Era il 16 febbraio. Denis Papin lo ricordava ancora come se fosse ieri. Quando si alzò quella mattina, calcolò che aveva ancora quattordici anni e sei mesi da scontare. Era senza contare le riduzioni per buona condotta, gli aveva detto il suo avvocato. Erano passati sei mesi da quando era in prigione. Quel giorno era in biblioteca e vagava tra gli scaffali quando, alzando la testa, vide Pimpon in piedi nel mezzo della corsia, che lo guardava in modo strano. Aveva cercato di farsi strada, ma il tipo gli aveva risolutamente sbarrato il passo. Si era girato e aveva visto dietro di sé Costa, che gli stava rivolgendo un sorriso maligno. Gli si gelò il sangue. Aveva aperto la bocca per cercare di dire qualcosa ma le parole gli si erano bloccate in gola, come se

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