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Il Deserto dei Serpenti
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E-book187 pagine2 ore

Il Deserto dei Serpenti

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Info su questo ebook

Un virus uccide tutte le api del mondo. Ma, in una vallata di montagna, le api di Luca non sono state contaminate, perché sono diverse dalle altre.

Anche lui è diverso, e da sempre, tutti lo evitano e lo prendono in giro. Non smettono nemmeno quando decide di donare le sue api per ripopolare il mondo.

A Luca non importa, non lo fa per cercare l'approvazione degli altri. Lo fa per se stesso e basta, come gli avevano insegnato i suoi strani maestri del bosco.

Poi, una notte, due feroci esseri lo attaccano...
LinguaItaliano
Data di uscita12 lug 2019
ISBN9788831629898
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    Anteprima del libro

    Il Deserto dei Serpenti - Andrea Viarengo

    633/1941.

    INTRODUZIONE

    Il Deserto dei Serpenti

    Mi chiamo Andrea. Viarengo. Ho 14 anni. Mi piace scrivere. Non per cercare l'approvazione degli altri, ma per me stesso. Mi piace pensare. Immaginare. Sognare. Non mi è piaciuto, però, sognare di un virus che uccide tutte le api del mondo. Mi è piaciuto, però, immaginare che, in una vallata di montagna, le api di un ragazzo non siano state contaminate dal virus. Che siano sane. E, vive. Perchè sono diverse dalle altre api. Anche il ragazzo è diverso e questa diversità è stata la sua croce in tutti questi anni. Tutti lo evitano. Tutti lo prendono in giro per questo. Fin da piccolo e, non smettono nemmeno quando lui decide di donare le sue api per ripopolare il mondo. Ma a lui non importa, non lo fa per cercare l'approvazione degli altri. Lo fa per se stesso e basta, come gli avevano insegnato i suoi maestri del bosco. Poi, una notte, due strani esseri lo attaccano...

    Corro

    Corro. Corro. I rami degli alberi mi toccano. È buio. Fa freddo. Corro. Corro. Respiro a fatica. Ho la nausea. Ho male al fegato ed alla milza. Non sento quasi più le gambe. Corro. Corro. Corro più che posso. Aspiro a grosse boccate l'aria nella speranza che ci sia abbastanza ossigeno per i miei doloranti polmoni. Ma non ce n'è. Corro. Corro. Corro ancora, e ancora. Non ne posso più, ma corro. Non  vedo dove vado, ma corro. Il fondo è viscido. Sconnesso. C'è erba bagnata e buche. Ciottoli e ghiaietta. Spine e rovi. Pezzi di corteccia e piccole ghiande. Cado. Di faccia. Le braccia sono troppo stanche per portare avanti le mani ed attutire la caduta. Ho la bocca piena di aghi di pino secchi ed altre foglie. Il sudore mi cola sul labbro che mi sono appena rotto cadendo. Brucia. Fa male. Mi rialzo. Sono sporco di terra. Sono sudato ed accaldato nonostante il freddo. Non vedo nulla nel bosco, di  notte, senza luna. Riprendo a correre. I jeans sono  bagnati dal mio sudore. Sono sporchi di terra. Sono verdi di erba sulle ginocchia. Sono strappati dai rovi. Le mie scarpe sono rovinate. Anche loro verdi, marroni, di tutti  i  colori meno che il bianco iniziale. La mia maglietta è inutile contro il freddo del bosco, bagnata e strappata come è. Me la tolgo. Me la avvolgo sulla faccia a coprire il labro spaccato. Meglio tenerlo bagnato penso la maglietta è bagnata per cui... deduco. Pessima idea. È bagnata di sudore. C'e tanto sale. Brucia. Ma non la tolgo e corro. Corro. Corro. Corro finchè non ne posso veramente più. Mi sistemo sotto le fronde di  un pino. C'è una fossa colma di aghi di pino secchi. Mi ci infilo. Respiro come un cane che ha  sete. Gli aghi e le foglie si incollano al mio corpo sudato. Prudono. Pungono. Resto lì. Le gambe fanno male. I fianchi fanno male. La schiena fa male. Mi prende una forte nausea e vomito. Ma non vomito niente se non bavume schifoso ed a vederlo mi si  rivolta lo stomaco e, vomito di nuovo. Poi, però, non guardo più e mi rotolo dalla parte opposta della fossa. Impanandomi come una bistecca milanese, di aghi di pino anzichè di pangrattato. Rimango li' per un tempo che potrebbe essere di pochi secondi come di  un  anno intero. Non lo so. Poi uno schianto secco: crak! Guardo in alto: niente. Nessun  ramo  che minaccia di cadermi  sulla testa. Crak! Di  nuovo. Poi ancora e ancora. I rumori arrivano dal fondo della valle e vengono verso di me. Devo andarmene. Subito. Non devono prendermi. A forza di braccia scivolo fuori dalla mia fossa. Gli aghi di pino si sono  infilati ovunque e si cospargono uniformente sul mio corpo, dividendosi lo spazio con le foglie secche e la terra, che il mio sudore ha tramutato in fango. Sono fuori. Mi alzo, è ora di correre ancora, ma le ginocchia  non tengono. Le gambe non stanno su. Il dolore ai fianchi è insopportabile. Vorrei sdraiarmi e dormire. Anzi no, prima una doccia, poi dormire. Ma, dove la posso fare la doccia senza intasare lo scarico con tutte quelle foglie secche? Meglio prima pulirmi e poi farmi la doccia. Caspita no! Devo correre, non pensare a cazzate. Il rumore e’ ancora più vicino stavolta. Stanno arrivando! Senti che casino! Son troppo vicini  non posso scappare stavolta. Devo affrontarli, ma come? Loro sono almeno in due. Li  ho visti, mi sa che sono  morto. Non ho scampo. Eccoli che arrivano! Sento passi e rumori  proprio là dietro. Eccoli sono  lo......devo saltare! Subito! Cos'era? Dannazione, solo un maledetto cinghiale ed io sono qua. Infilato nelle fronde di questo dannato pino a due o tre metri dal suolo. Meglio che scenda e continui a correre. Era solo un maledetto cinghiale! E, quello invece cos'è?

    – Buongiorno ragazzo! – indossa un completo giacca e pantaloni  scuri. Molto elegante. La camicia, sbottonata a metà petto, un tempo sarebbe stata sicuramente bianca. Ora è rossa, come è rossa la sua bocca, come è rosso il sangue che sgorga dalla schiena spezzata del cinghiale che giace morto ai suoi  piedi. Mi si getta addosso in un  istante. È finita.

    – Non è mai finita. – Le parole salgono dai miei ricordi e mi risuonano  nella mente come appena pronunciate in quell'istante dilatato nel tempo.

    –  Alle volte si … –

    – Alle volte è più facile pensare di andarsene che rimanere, vero?–

    – Si. –

    – Alle volte è più facile dormire che svegliarsi, vero? –

    – Si. –

    – E, credimi, alle volte sembra più facile morire che continuare a vivere.–

    – Si. –

    – Ma, non è cosi'. Sembra, ma non è cosi. – Sorrideva, allora, mentre parlava e sorride, ancora, tristemente nella mia mente mentre pronuncia queste parole: – Ma, non è mai  più facile morire che  vivere. –

    – Per me non è così. –

    – Anche per te è così. Non è così semplice pensare di  dormire per sempre e farlo per davvero. –

    – Perchè? –

    – Perchè tu sai, il tuo corpo sa, tutto il tuo essere sa, che quando  la notte finisce spunta il sole. Che quando ti sveglierai e ti alzerai dal letto ci sarà la luce ad accompagnare la tua giornata. Niente o nessuno potrà impedirti di alzarti ancora dal letto nonostante tutto, fino a che la natura te lo  consentirà. –

    – Non lo so… –

    – Non aver paura ragazzo mio! Per rimanere a bocca aperta di fronte ad un arcobaleno bisogna prima prendere la tempesta. Non aver paura della tempesta: è buona! Ci serve! È lei che porta l'arcobaleno! Niente e nessuno impedirà al tuo corpo di voler vedere l'arcobaleno. Ancora una volta. –

    – E, se muoio durante la tempesta! –

    – Allora potrai dormire. Potrai riposare. Ma, non sarà semplice perchè tutto il tuo essere vuole vedere il sole del mattino. Vuole vedere l'arcobaleno. –

    – Cosa devo fare allora?! –

    – Niente. Lascia scorrere – sorride ancora. Vedo ancora nella  mia mente i suoi  occhi sereni mentre sussurra: – Se la tempesta ti uccide, allora riposerai. Se non ti uccide allora vedrai l'arcobaleno. In entrambi casi sarà meraviglioso! –

    Un istante. Forse. Un tempo che nella mia mente dura un'eternità.

    – Buongiorno ragazzo! – Il ringhio mi  riporta alla realtà. Ora c'è tempesta.

    Faccio appena in tempo a fare un passo di lato e la paura mi irrigidisce come un tronco d'albero. Il passo basta ad evitare la sua carica quel tanto perchè lui mi  colpisca ad una spalla invece che alla gola. Io ruoto come un tronco d'albero. Come un manichino di legno. Non oppongo resistenza nè a lui nè alla mia paura ma, anzi, agevolo entrambi. Li aiuto. Li lascio scorrere dentro di me. Mi muovo come vogliono loro. Resto rigido in equilibrio su di un piede, l'altro appena appoggiato a terra, e ruoto. Vado dove vuole il colpo alla spalla e giro su me stesso facendo perno sull'unico piede a terra, come i manichini che  un tempo usavano i cavalieri  medievali per addestrarsi. Erano una rozza imitazione in legno di un  torso umano, piantata su un palo girevole e sulle braccia spalancate, da una parte avevano uno  scudo, dall'altra una mazza. Il gioco consisteva nel colpire lo scudo con la lancia e scansarsi quando il colpo faceva rigirare il manichino e la mazza rischiava di colpire la testa. La giostra della quintana, mi sembra si chiami.  Ora, sono qui come una triste imitazione in carne di un essere umano che sta ruotando su se stesso. La spalla colpita brucia ed io ruoto su me stesso. Il mio avversario ferma la sua  corsa all'improvviso, sconcertato dalla mia mancanza di resistenza. Ma è troppo tardi. La mia spalla opposta a quella che ha ricevuto il colpo è rigida anche lei. Così come è rigido il braccio che parte da lei e ruotando, termina sulla nuca del mio aggressore, con forza. Lo colpisco con la parte dura del polso con l'osso che congiunge il braccio al dorso della mano. Le mie dita sono tese ed unite tra loro sopra il palmo della mano, quasi a formare il becco di un uccello. Sento il rumore di un ramo spezzato ma, non è un ramo, è la nuca del mio aggressore. Crolla a terra. Tutto è durato un istante. Forse solo la frazione di un  secondo ma, a me è parso durare più di  un secolo. Irrigidito dalla paura. Preda della paura. Schiavo della paura. Sudato. Sporco. Sanguinante alla spalla ed al labbro. La visione ristretta solo di fronte a me in quel fenomeno che, chi  lo ha già provato, definisce tunnel da combattimento, e che io provo per la prima volta ed, approvo appieno la definizione. Non vedo ai lati. Vedo solo davanti. Come in un tunnel. Utile per vedere chi ti aggredisce. Grande idea dell'evoluzione per focalizzare tutta la propria attenzione su  chi  ti  attacca. Pessima idea se gli aggressori sono più di uno. Come per me. Vedo solo uno sfarfallio di occhi rossi e sento un enorme peso sul  corpo. La spalla già sanguinante brucia ancora di più ed il peso si concentra proprio lì. Chiudo gli occhi e non vedo che le zanne del mostro sono già dentro la mia spalla. Sono terrorizzato ed ho freddo. Non combatto. Mi lascio cadere. Cedo al peso di chi mi attacca. Istintivamente, piego le ginocchia al petto e mi lascio cadere all'indietro in  posizione quasi fetale. Afferro l'aggressore in una morsa di terrore e, questi  cade con me. Mentre rotolo all'indietro con uno scatto veloce le mie gambe si distendono. Come per togliersi la coperta con cui dormi di notte e che ti da fastidio. Come per scacciare un insetto, orrendo e schifoso, che si era posato su di loro. Lascio la presa ed il mio aggressore per pura forza d'inerzia  viene proiettato contro uno dei maestosi, e durissimi, alberi alle mie spalle. Sento le carni della mia spalla lacerarsi, quando la forza d'inerzia proietta il corpo del mio aggressore lontano. I  suoi denti stridono contro la mia clavicola quando non è più in grado di tenere la presa e vola alto. Lontano. Per atterrare contro il tronco di uno degli alberi alle mie spalle. Sento di  nuovo un terrificante rumore di un ramo spezzato che sovrasta tutti gli altri. Mi volto e lo vedo ai piedi del tronco. Scomposto. Come una marionetta senza fili buttata a terra. Un filo di sangue gli cola dalle fauci che emergono crudeli dal completo scuro di ottima fattura. Gli occhi feroci mi guardano per un istante. Poi non più. Non avrebbero più visto nulla in questa vita, cessata in quell'istante crudele.  Non voglio vederlo. Non voglio guardarlo. Nè lui  e nemmeno il suo compare. Non voglio vedere le due creature ai miei piedi, l'uno con la nuca spappolata e l'altro con la schiena rotta, che perdono sangue. Non guardo nemmeno il cinghiale morto. Non voglio guardarlo. Mi alzo. La capriola all'indietro nel terreno viscido di sangue ha completato l'opera di distruzione della mia immagine. Sono veramente ridotto male ed orrendo a vedersi. Ferito. Perdo sangue, ma non so più qual è il mio o quello degli altri. Non  so più qual è il sangue e qual è il fango. Non so più qual è il fango e qual è l'erba o le foglie o gli aghi di  pino. I jeans sono indistinguibili dal mio petto nudo o dalla t –shirt ancora legata alla mia faccia. I capelli sono un unico budino di sangue, sudore e fango. Devo andare via da lì. Erano due ma potrebbero essere anche di  più. Non lo so. Liberarmi di loro è stato quasi semplice. Quasi naturale. Non ho pensato a nulla ed ho lasciato fare al mio corpo. Alla mia paura. Al mio terrore. Come mi hanno insegnato. O, forse è stata solo fortuna. Non lo so. So solo che devo lavarmi. Devo curarmi. Devo mangiare. Devo raggiungere il cuore del bosco e farmi aiutare. Sono stanco. Ho male. Perdo sangue, ma devo andare. Corro. Penso a come è cominciato tutto  questo. Corro. Corro. Corro.

    Scuola

    – Sveglia! È ora di alzarsi! –

    – Mmmmmmh… –

    – Dai su, la colazione è pronta! –

    Sul tavolo in cucina c'erano due tazza piene di latte caldo, una con l'aggiunta di caffè e zucchero e l'altra con un  paio di cucchiai abbondanti di cioccolata. A fianco delle fette di pane, dei biscotti ed un grosso

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