Come un quadro di Kandinsky
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Come un quadro di Kandinsky - Francesco Runello
978-88-9369-203-8
Capitolo 1
Le colline si stagliavano all’orizzonte in qualunque direzione, quasi avessero circondato il paesino coi loro colori sbiaditi e stanchi. Gli zigoli cinguettavano da qualche parte, mentre l’acqua scorreva lentamente lungo il letto del fiume, scura, sporca. Carla era sdraiata sul lungofiume erboso, protetta dal ponte, nascosta dagli occhi indiscreti della gente che camminava qualche metro sopra la sua testa. Le sarebbe bastato così poco per immergersi e lasciarsi portare via dalla corrente. Ci pensava spesso a come sarebbe stato affogare in quel corso d’acqua contaminato e infetto. Ci pensava spesso, a cosa avrebbe provato e a cosa sarebbe cambiato.
Da tempo ormai, la sonnolenta pigrizia della cittadina era tornata quella di sempre, quella che conosceva da sempre. Erano passati ormai diversi anni dalla costruzione dell’impianto spropositatamente grande della Farma Corporation, un’azienda produttrice di farmaci di ultima generazione, situato nel centro della zona industriale, a pochi chilometri dalla zona abitata. Quando era stato costruito, tutti gli adulti avevano dimostrato grande fiducia e soddisfazione. Sembrava che quella gigantesca struttura dovesse salvare quel paesino dalla sua onirica arretratezza, svegliandolo dal suo torpore. Eppure, dopo appena un paio di anni dall’apertura, gli alti cancelli della Farma Corporation erano stati chiusi, per non essere più riaperti. Tutti i dipendenti erano stati rimandati a casa e i dirigenti si erano dissolti nel nulla. Nonostante ciò, le due grandi ciminiere dell’industria continuavano a emettere regolarmente - dalle sei alle sette del pomeriggio - fumi molto densi tutti i giorni.
Carla, a cui quelle fumate erano sempre sembrate un monito minaccioso, si era sempre chiesta, da bambina, per quale motivo la fabbrica non fosse stata rimossa dopo la chiusura, ma col tempo aveva compreso che i costi che ne sarebbero conseguiti sarebbero stati difficilmente sostenibili e che era molto più semplice lasciarla dov’era. Eppure non trovava ancora risposta alla domanda sulle ciminiere: perché continuavano a fumare? A riguardo, in realtà, anche gli adulti avevano avuto molti dibattiti. Alcuni ambientalisti del posto avevano cercato di procedere legalmente contro i proprietari della Farma Corporation, quando si era scoperto, in seguito a un’analisi chimica, che i fumi erano nocivi per l’atmosfera e per ogni forma vivente. Ma il loro accanimento si era infine risolto in un misterioso buco nell’acqua, dato che la situazione non era cambiata e dato che di loro e delle loro proteste nessuno aveva più sentito parlare. Così, nonostante l’ormai datata chiusura, ogni giorno una densa nube di sostanze non ben identificate si liberava dalle ciminiere e si accalcava sulla città, simile a nebbia. Le colline impedivano il passaggio di un vento purificatore che potesse spazzare via il fumo, così la città rimaneva immersa, soffocata, fino al mattino dopo, in un cielo rosso acceso. I vapori e lo smog delle ciminiere - era stata la spiegazione scientifica di alcuni biologi - in contatto con l’atmosfera, davano vita a catene di reazioni chimiche che, in pochi anni, avevano letteralmente tinto il cielo di cremisi. Inizialmente un colore così inusuale per il cielo aveva preoccupato gli abitanti, ma poi tutti ci si erano abituati senza troppi problemi. Un cielo rosso: un evento splendido, si potrebbe pensare, eppure ogni singolo cittadino sottolineava come quelle sfumature avessero un qualcosa di minaccioso. Non era il rosso benaugurante dell’alba né quello poetico ed evocativo del tramonto. Era un rosso triste, cupo, malato, il colore del sangue sporco, corrotto. Dal canto suo, Carla non esprimeva pareri a riguardo. Dopotutto, quella città non era forse la prova vivente della sconfitta, della perdita, della rassegnazione? Era una città malsana, una città senza radici e senza speranze, privata persino dei colori giusti. Carla lo aveva capito ormai da tempo e lo aveva silentemente accettato. Non sarebbe servito a nulla protestare o lamentarsi come facevano talvolta gli altri. Quella era la sua vita, la sua città, il suo destino. Ci aveva persino rinunciato, a cercare i colori giusti, all’interno della sua vita.
L’aria era calda, afosa, appiccicosa. L’aria era sporca. L’acqua lo era allo stesso modo. Un pesce dalla forma lunga e sottile riuscì a saltare circa mezzo metro sopra la superficie per poi tornare a inabissarsi. Il volume dei rumori della città si stava lentamente abbassando. Si avvicinavano le sei, l’ora della fumata. In effetti, nemmeno Carla ne sapeva il perché, ma all’emissione del fumo corrispondeva una sorta di coprifuoco. Non che fosse proibito uscire per le strade, ma gli stessi cittadini, forse seguendo fondati consigli sanitari, o forse solo per abitudine, si barricavano in casa per uscirne solo la mattina dopo. Così, la città aveva un’atmosfera inquietante nelle ore notturne, come se fosse popolata solo da fantasmi.
L’immagine del pesce che saltava fuori dall’acqua si ripeteva nei suoi occhi. L’idea di perdersi in quelle deboli increspature e lasciarsi trasportare via dalla corrente densa la affascinava immensamente. Qual era la differenza fra lei e quel pesce? In fondo, si trovavano entrambi nella stessa città e percepivano la stessa realtà ovattata. Il pesce cercava ancora di saltare, è vero. Ma nemmeno lui sarebbe stato salvato.
Le strade erano già deserte poco dopo, mentre Carla si dirigeva verso casa a passo sostenuto, spingendo con le braccia una vecchia bicicletta cigolante. Le prime volte che si era trovata completamente sola in giro aveva provato un forte senso di destabilizzazione. Si era sentita a disagio, fuori posto. Ora quella desolazione, invece, la faceva sentire particolarmente rilassata. La consapevolezza di potersi lasciare andare a qualunque comportamento senza essere vista le dava serenità. Non le piaceva stare con altre persone. Non le piaceva stare da nessuna parte, in realtà. Ma la solitudine era la condizione che più le si addiceva, di questo ne era profondamente convinta. Era per questa ragione che tutti i giorni si recava al ponte e si metteva a fissare l’acqua o le nuvole. Da sola, Carla prendeva aria, come se stesse riemergendo da una lunga fase di apnea. La sua vita sociale era molto meno impegnata da quando aveva smesso di andare a scuola. Adesso aveva venti anni, lavorava in un piccolo panificio ai confini della città e le uniche persone che vedeva con costanza, esclusi gli altri dipendenti e alcuni clienti affezionati, erano Veronica, l’unica amicizia sopravvissuta alla diaspora liceale, e Ivan, un ragazzo un paio di anni più grande di lei che lavorava al bar dove ogni mattina Carla faceva colazione e col quale aveva iniziato a frequentarsi. In realtà, Carla non aveva mai avuto qualcosa da condividere con Ivan, né era mai stata interessata a trovarlo, quel qualcosa. Eppure lui la veniva spesso a trovare a casa la sera. Restavano sempre in silenzio qualche minuto, prima di decidersi a fare l’amore per non sentirsi in dovere di parlare di qualcosa.
Con Veronica, invece, sapeva condividere i silenzi. Andavano spesso insieme al ponte e lì osservavano le stesse cose e parlavano solo il minimo indispensabile. Quel giorno Veronica non era venuta. Non veniva mai il sabato. Il sabato aveva lezione di piano. Carla non l’aveva mai sentita suonare e Veronica non le aveva mai chiesto se le interessasse. Eppure doveva essere brava, si diceva Carla, come lei non lo era mai stata in nulla invece. Era una persona che stimava, ma non la invidiava.
Un gatto pigro si rotolava per terra vicino a un distributore automatico di lattine. Carla si fermò un momento a osservarlo. Il gatto sembrava quasi non rendersi conto della ragazza a pochi metri da lui. Su una rivista che aveva trovato nella sua cassetta della posta qualche settimana prima, Carla aveva letto che la presenza di un osservatore all’interno di un qualunque sistema modificava inevitabilmente gli eventi che si sarebbero svolti all’interno del sistema stesso. In altre parole, il gatto non si sarebbe comportato allo stesso modo se lei, in quel preciso istante, non lo avesse osservato. Non avrebbe giocato con una lattina schiacciata e non si sarebbe leccato la zampa come stava facendo in quel momento. Eppure non riusciva a immaginare quale altro atteggiamento il gatto avrebbe mantenuto in sua assenza. Iniziò a pensare che forse la teoria dell’osservatore non fosse così indiscussa, o che forse i gatti ne fossero immuni. Certo era che quel gatto non la avesse degnata di un minimo di attenzione, da quando aveva iniziato a fissarlo. Dopotutto non c’è nulla che meriti un minimo di attenzione qui.
Le prime nuvole di vapore iniziavano a invadere le piccole strade. Doveva affrettarsi. Carla si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, si sistemò la sciarpa al collo e riprese il cammino verso casa. Le altissime ciminiere della Farma Corporation, avvolte in quella specie di nebbia, già non si vedevano più.
Dalla grande finestra del suo salone, Carla non riusciva nemmeno a vedere la luce dei lampioni per la strada. Come sempre, il grigiore del fumo aveva ingoiato tutto. Viveva in un appartamento piuttosto ampio che il signor Autieri, il proprietario del panificio dove lavorava, dava talvolta in affitto ai dipendenti. In verità, per Carla le cose si erano svolte esattamente in maniera opposta. Cercava una casa a un prezzo economico e non un lavoro, quando si era rivolta al signor Autieri. Questi le aveva spiegato che affittava l’appartamento solo ai dipendenti e, guarda caso, cercava qualcuno da assumere. Ogni mattina, Carla non doveva far altro che scendere una rampa di scale e attraversare la strada per trovarsi sul posto di lavoro. Conduceva questa vita ormai da un anno e aveva trovato un certo equilibrio nella sua quotidianità. Non aveva ritmi troppo intensi né stressanti e questo era tutto ciò che desiderava. Non chiedeva nulla di più, né ci sperava.
La sera, quando tutti i negozi chiudevano e si ritrovava chiusa in casa, non aveva mai nulla da fare. Quando era bambina, in realtà, aveva una grande passione: la poesia. Adorava leggere e scrivere poesie nel tempo libero. Ma adesso che era adulta non credeva più in quelle finzioni e, come i bambini che smettono di credere a Babbo Natale, le aveva lentamente messe da parte e poi dimenticate. Così, quando non doveva prepararsi da mangiare, non aveva nessun modo in cui impiegare il proprio tempo. Non che la cosa le desse fastidio, era piuttosto fiera di avere abbandonato le sue infantili fantasie poetiche e di aver imparato a conoscere e vivere la realtà nei suoi aspetti meno sognatori e più concreti. Si sedeva sull’unico divano del soggiorno e osservava, di fronte a sé, la parete spoglia e sporca. Fino a un paio di mesi prima le capitava di parlare con Anna, la sua coinquilina, anche lei dipendente del signor Autieri, del più o del meno, senza grande coinvolgimento emotivo. Anna era una ragazza molto vitale, eccentrica ed esuberante. Per quanto fossero diverse, Carla apprezzava conversare con lei. Certo, era una ragazza ancora molto ingenua, una di quelle che credevano in una nuova vita che sarebbe potuta incominciare di lì al giorno dopo. Ci credeva tanto, che alla fine ci aveva provato davvero a ricominciare daccapo, fuori città. E una notte aveva fatto le valigie ed era partita, senza nemmeno salutarla. Carla si era resa conto di quel che era successo solo il mattino dopo, quando aveva attraversato la strada e, sotto l’insegna del panificio, aveva letto un cartello con su scritto: Cercasi personale. Allora aveva capito che non avrebbe più rivisto Anna. Sapeva che, sebbene si sarebbe presto resa conto di quanto la sua scelta fosse stata insensata, Anna non sarebbe tornata e non avrebbe ammesso il suo errore. Era troppo orgogliosa e troppo poco realista.
Ancora, dopo due mesi, il cartello Cercasi personale era appeso alla vetrina del negozio e Carla era sola in casa. Ora che Anna era andata via, aveva anche potuto vendere alcuni mobili che lei non usava più. A essere sinceri, si trattava anche di mobili piuttosto belli, ma inutili, per lei. Non era una di quelle persone che trovano profondo appagamento dall’osservazione del proprio appartamento. Le interessava solo che tutto fosse estremamente funzionale, come lei. E adesso la casa la rispecchiava. Priva di fronzoli, pragmatica. Si era sbarazzata di tutti i tappeti, tranne uno che teneva fuori dalla doccia e che usava per non bagnare a terra e uno stuoino per pulirsi le scarpe all’ingresso. Aveva lasciato un solo specchio, uno grande, col quale potesse vedersi interamente e non solo in viso e aveva venduto i quadri. Non aveva, però toccato nulla nella vecchia camera di Anna. L’appartamento, col suo salotto d’ingresso e la sua stanza, le bastava. E non aveva ritenuto necessario apportare modifiche all’altra stanza da letto. Dopotutto, bisognava anche considerare la possibilità che un nuovo dipendente iniziasse ad abitare in quella stanza. Se fosse stato un amante degli arredamenti, non avrebbe apprezzato una stanza tanto spoglia e forse fra i due non sarebbe nata una convivenza pacifica. Era funzionale e fondamentale, per Carla, andare d’accordo con chi viveva sotto il suo stesso tetto, tanto più che quel qualcuno sarebbe stato anche suo collega a lavoro. Così, mentre metà del mobilio era andato venduto, l’altra metà era stata stipata nella stanza per adesso inabitata. In questo modo, se l’avesse trovato necessario, il nuovo inquilino avrebbe potuto anche riposizionare i mobili nel salotto. Naturalmente lo spazio si sarebbe ridotto, ma Carla sapeva che non ne avrebbe sofferto particolarmente.
Dopo la cena di quella sera, quindi, Carla non aveva fatto altro che guardare la parete priva di colore. Ogni tanto controllava che la nebbia si andasse lentamente diradando, come tutti i giorni faceva. Le capitava spesso, almeno una volta ogni mese, di sognare che un mattino, alzatasi dal letto, la nebbia fosse ancora lì. Sognava che il suo appartamento, benché internamente fosse proprio il suo appartamento, non si trovasse al primo piano di un basso edificio cittadino, ma in cima a una delle due ciminiere della Farma Corporation. E il fumo entrava nell’appartamento dalle finestre e lei iniziava a sentirsi male e vomitava. Si rendeva conto in quel momento di non potere uscire, perché la porta era scomparsa, e allora iniziava a chiedersi come sarebbe potuta andare a lavoro. Quando, improvvisamente, si ricordava di qualcosa di importantissimo. Qualcosa o qualcuno che aveva dimenticato chiuso nella stanza da letto di Anna, ora adibita a ripostiglio. Ciò che aveva dimenticato cambiava ogni volta, ogni volta che sognava. E tutte le mattine, sveglia, era l’unico particolare che non ricordava. Solo una volta era riuscita a ricostruire che, nella stanza, era rimasto chiuso un vecchio libro di poesie che suo padre le leggeva sempre quando era bambina. Non era riuscita a spiegarsi come mai una cosa tanto banale le desse tanta angoscia nel sogno.
Questo sogno era ormai ricorrente da cinque anni, dal giorno del suo intervento. Ma, nonostante le innumerevoli ripetizioni che il sogno aveva avuto in quegli anni, non poteva fare a meno di svegliarsi, ancora oggi, profondamente turbata e agitata. Era arrivata alla conclusione che cercare di dare un significato a quel sogno costituiva solo una perdita di tempo. Così lo sopportava, almeno una volta a mese, e poi lo isolava in un angolo di sé, da non esplorare.
Erano circa le undici quella sera e Carla stava ormai per mettersi il pigiama, quando suonò il campanello. Spiando dall’occhiello, Carla vide di chi si trattava: Ivan. Aprì la porta.
«C’è ancora nebbia fuori, perché sei venuto?» Carla lo osservò con la sua classica espressione dura e spigolosa. Ivan la passava a trovare verso mezzanotte di solito, quando il fumo non era più molto fitto.
«Mi stavo annoiando. Non tutti riescono a sentirsi appagati da una serata a guardare un muro, come te.»
«Pensi che io mi senta appagata?»
Ivan non rispose. «Posso entrare?»
Carla spalancò la porta e si mise di lato, come per lasciargli strada libera e invitarlo a entrare. Ivan era la sua valvola di sfogo. Era un bene, secondo lei, godere di tutto ciò che la vita dona di effimero. Non fare piani, non fare progetti, non programmare, non guardare al futuro. E con Ivan non faceva mai niente di tutto questo. Era effimero. E le stava bene.
Ivan era un ragazzo estremamente ordinario, fisicamente non aveva caratteristiche che risvegliassero l’attenzione altrui. Era quel tipo di persona il cui viso non resta mai impresso. Persino dopo aver fatto l’amore con lui un paio di volte, Carla faticava a ricordare il suo volto in sua assenza. La sua altezza era nella norma, il suo fisico era nella norma, la fisionomia della sua faccia era nella norma. Ma, dopotutto, Carla non cercava nulla che fosse fuori dalla norma.
Ivan, superata la soglia, rimase fermo sullo stuoino per le scarpe e iniziò a guardarsi attorno. Lo faceva sempre, come se fosse convinto di dover trovare qualcosa di inatteso e di diverso. Poi, completata l’operazione, si voltò verso Carla, che, richiusa la porta, vi aveva poggiato la schiena.
«Allora, come va?»
Carla scostò una ciocca di capelli che le copriva il viso. «Io bene, come al solito. Tu?»
«Sono un po’ stanco. Oggi è stata una giornata di lavoro dura.»
«Ti vuoi sedere?»
Ivan fece cenno di sì con la testa. Carla fece strada fino al divano, pochi metri più in là, e lo invitò a sedersi per primo. Poi fece lo stesso.
«Con oggi, non piove da sette mesi e dodici giorni.»
Ivan era un ragazzo estremamente loquace. Al bar, anche il cliente più silenzioso si ritrovava trascinato nelle conversazioni più improbabili. Forse, proprio questa sua eccessiva parlantina era una delle cause del suo viso anonimo: tutti prestavano attenzione alle sue parole e nessuno al suo aspetto. Eppure, con Carla, il suo repertorio di argomenti era fondamentalmente ridotto a quattro categorie: la pioggia, il lavoro, le feste del paese ed eventuali cambi di arredamento avvenuti nell’appartamento. Era come se, di fronte a lei, Ivan si sentisse sotto giudizio e preferisse non parlare al dire qualcosa di sgradito.
Nonostante ciò, a Carla, Ivan non dispiaceva. Di tutti gli abitanti del paese era forse uno dei più bigotti, conservatore e di strette vedute, il che non volgeva a suo favore; ma, allo stesso tempo, era buono, sincero, semplice e responsabile. Psicologicamente privo di ogni spessore, rientrava quindi nei canoni di pragmatismo ed essenzialità di Carla. Era un mobile brutto, fra i più brutti della casa, ma utile.
«Come mai conti i giorni che passano tra una pioggia e l’altra? Non è noioso?»
«No, non lo è. Mi diverte. A scuola mi piaceva la statistica. E poi quando piove, anche solo per pochi minuti, il cielo torna azzurro. Ed è più bello.»
«E come conti i giorni che passano? Lo scrivi sul calendario?»
Carla accavallò le gambe lunghe, portò una mano al volto, appoggiandovisi, e osservò interessata il viso anonimo di Ivan.
«Beh, sì... Da qualche parte ce l’ho anche scritto quando ha piovuto l’ultima volta, però, per lo più, me lo ricordo. Tutte le mattine mi sveglio e aggiungo un’unità ai giorni» Ivan sorrise ingenuamente concludendo la frase.
«Secondo te perché non piove quasi mai?»
«Perché? Vediamo... Credo che... Credo che sia così e basta. Ci sono posti dove piove spesso e posti dove non piove quasi mai, tipo il deserto! Ecco, vedi, noi siamo simili al deserto.»
«Dici?»
Ivan si voltò, evitando lo sguardo pressante di Carla. Non era mai stato in grado di reggerlo più di pochi secondi. In realtà, nessuno reggeva mai il suo sguardo. Non che fosse penetrante o glaciale. Non incuteva timore e, anzi, ispirava una certa simpatia e, talvolta, una certa sensualità. Ivan, però, nel caso specifico, era fin troppo imbarazzato per osservarla a lungo. Gli altri, invece, lo facevano per apparire gentili, a modo loro. Carla aveva gli occhi di due colori diversi. Cinque anni prima, in seguito all’incidente nel quale aveva perso la vita suo padre, Carla aveva perso completamente l’uso della vista. Fortunatamente, qualcuno, da qualche parte nel mondo, morendo aveva donato tutti i suoi organi ancora funzionanti, compresi gli occhi. L’incidente non aveva lasciato a Carla nessun taglio, nessuna cicatrice, nessuna abrasione. Solo due occhi che non erano i suoi e che differivano per colore. Guardarla dritta in viso sembrava a tutti un modo di far notare questa sua imperfezione, magari facendo tornare a galla i brutti momenti passati cinque anni prima. Così, nessuno la guardava davvero, se non superficialmente, quasi sbadatamente, quasi involontariamente. Era come se i suoi occhi fossero diventati due tende trasparenti oltre le quali non percepire esattamente la realtà. E, in effetti, era proprio così. Carla era sola.
«Si tratta solo di un’ipotesi.»
Fra i due ragazzi cadde il silenzio per una decina di secondi. Ivan cominciò a percepire chiaramente il suono dei suoi stessi respiri. Si sentì colto, come al solito, da una sensazione fortemente estraniante. Non trovava qualcosa di cui parlare. E se questa volta lei si fosse annoiata e gli avesse semplicemente chiesto di andarsene?
«Che hai fatto oggi?» ruppe, a un certo punto, il silenzio Carla. «Oltre lavorare, intendo.»
Ivan si voltò di scatto, abbandonando le sue dita che tamburellavano regolarmente. «Oggi? Ho guardato la televisione, appena sono tornato a casa.»
«Mi piace la televisione. Dovrei procurarmene una, in effetti. Anna non ce l’aveva quando sono arrivata qui e io non ho comprato mai nulla.»
«Oggi mandavano un bel film in televisione, quando l’ho accesa. Sì, davvero... davvero un bel film.»
Carla abbandonò lentamente il suo corpo, avvicinandosi a Ivan, lasciandosi cadere verso di lui. Poggiò il viso sul suo petto, dolcemente. Lui era sempre così agitato...
«A te piacciono i film, Carla?»
«I film...?» Carla alzò il volto dal suo petto.