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L’affare Donnolo
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L’affare Donnolo

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Shabbatai ben Abraham Donnolo, vissuto in Italia Meridionale nell’Alto Medioevo, fu uno degli scienziati più eminenti del suo tempo: medico, farmacologo, astronomo, ebraicista. Scrisse libri di alto valore scientifico e filosofico, tra i quali un trattato di terapia medica e un saggio sul mistero della vita e della morte. Si riteneva che egli avesse decifrato il linguaggio di Dio, che conoscesse il segreto dell’immortalità, per questo in molti attraverso i secoli cercarono di appropriarsi dei suoi scritti, convinti di ottenere in tal modo un potere sovrumano.
Poi, nel 1985, a Oria, proprio la città dove Donnolo trascorse gran parte della sua vita, una coppia di archeologi rinviene una stele funeraria ebraica e per decifrarne alcuni segni si unisce a un gruppo di giovani universitari impegnati in una ricerca sullo studio del linguaggio presso l’Università di Perugia, guidato dal professor Nardi. Poco dopo, però, il professore viene aggredito, derubato di una borsa nera in cui custodiva tutti i suoi appunti e ucciso, con tre pugnalate al torace, dopo un’aspra lotta. Unico testimone oculare un ragazzo autistico che si chiude subito dopo in un silenzio assoluto incapace di fornire alcun aiuto agli inquirenti. L’ispettore Ugo Rosati dovrà così districarsi tra latrati di cani inesistenti, frammenti di coccio su cui compaiono segni indecifrabili e una misteriosa contessa.
Un mistery intrigante, in bilico tra religione e scienza esattamente come lo fu Shabbatai.
LanguageItaliano
Release dateJul 1, 2019
ISBN9788832924947
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    L’affare Donnolo - Pietro Matino

    Donnolo

    Antefatto

    Si narra che il generale Tito, dopo aver espugnato Gerusalemme nel 70 d.C., condusse in Italia numerosi prigionieri ebrei e ne fece stanziare cinquemila in Puglia. I deportati della Terra Santa formarono le prime comunità ebraiche che nel tempo diedero vita a prestigiosi centri culturali in diverse città pugliesi. Soprattutto a Oria, posta sull’ultimo colle delle Murge e poco distante dall’antica via Appia, sorse un centro culturale ebraico di prim’ordine, un vero punto di riferimento in tutto l’Occidente fra il IX e il X secolo. La città ospitò letterati e poeti, medici e filosofi, maestri della Torah e studiosi delle accademie talmudiche, divenendo un eccellente luogo di formulazione e riproduzione del sapere. Quel momento di splendore culturale fu interrotto dall’invasione araba che provocò la devastazione di molte città dell’Italia meridionale e anche di Oria.

    Il 4 luglio del 925 d.C., infatti, i predoni musulmani attaccarono la città, passarono a fil di spada seimila cittadini oritani, tra cui molti eruditi ebrei, e ne deportarono dodicimila come schiavi. Ma un ragazzino ebreo di dodici anni fu liberato grazie al denaro dei suoi genitori che, invece, furono deportati a Palermo e in Africa insieme agli altri prigionieri. Il giovincello, dotato di fervida intelligenza, si dedicò allo studio della matematica, della medicina e della filosofia oltre che della Torah, divenendo presto uno dei più grandi sapienti del suo tempo.

    Il suo nome era Shabbatai Donnolo. Scrisse libri di alto valore scientifico e filosofico, tra i quali un trattato di terapia medica e un saggio sul mistero della vita e della morte. I testi sembravano permeati di scienza divina e affascinarono gli studiosi del suo tempo. Ben presto si sparse la voce che le opere di Donnolo fossero prodigiose e contenessero perfino il segreto dell’immortalità, tanto che molti cercarono di appropriarsene, convinti di ottenere in questo modo un potere sovrumano. Passarono i secoli e non si parlò più di Donnolo. Almeno fino a quando, nel XVIII secolo, il cardinale Francesco Saverio Zelata non trovò un antico manoscritto di sapienti orientali in un monastero romano. Si trattava di un codice eterogeneo contenente anche un testo di Donnolo. Altre copie del documento furono rinvenute in alcuni monasteri dell’Umbria, che però passarono quasi inosservate.

    Solo nel XX secolo le cose cambiarono, quando in Puglia e in Umbria vennero alla luce alcune stele funerarie ebraiche che ricordavano gli ebrei trucidati durante l’attacco arabo alla città di Oria. A margine delle epigrafi s’identificarono riferimenti alle scoperte di Donnolo, risvegliando così l’interesse verso i suoi scritti e il loro contenuto scientifico. Infine, nel 1985, una giovane coppia di archeologi di Oria scoprì una piccola stele funeraria ebraica nel proprio giardino. Per saperne di più i due archeologi decisero di unirsi a un gruppo di giovani universitari impegnati in una ricerca scientifica multidisciplinare a Perugia. In un primo momento nessuno di loro volle dare troppa importanza alla storia di Donnolo, ma poi successe qualcosa che li obbligò a cambiare idea.

    Prologo

    La montatura nera della lente d’ingrandimento risaltava sullo sfondo biancastro della barba. Dario Miceli esaminava con cura il pezzo di coccio che aveva in mano, la fronte corrucciata, un occhio strizzato e l’altro aperto dietro agli occhiali, e ogni parte del suo volto sembrava sprigionare una forte carica di senile sapienza: la barba candida e i tratti rugosi della pelle, quel modo di tenere gli occhiali tondi a metà naso e quei ripetuti mugugni, brevi e rauchi, sospesi tra l’incertezza e la meraviglia, quel modo di guardare ammiccante e scrupoloso, e perfino i movimenti del collo, lenti e ben dosati, lasciavano immaginare il lavorio mentale che stava per approdare a chissà quali raffinate conclusioni.

    Non ci sono dubbi, disse infine Miceli distogliendo gli occhi per un attimo dal pezzo di coccio in esame e puntandoli sulla giovane donna che gli stava davanti.

    Si tratta di un òstrakon.

    Ostra... cosa?

    strakon, un frammento di coccio recuperato per scrivere. Una volta andavano di moda, gli òstraka."

    Una volta, ha detto? Non capisco.

    Parlo di molti secoli fa, naturalmente, quando non si usava la carta. I cocci di ceramica andavano bene, erano resistenti ed economici, bastava raschiarli per scriverci sopra notizie o anche brevi messaggi, come quello che c’è qui.

    Cosa? Vorrebbe dire che, dietro quelle minuscole linee…

    Si cela un messaggio.

    Ma, come è possibile, scusi?

    Micro-calligrafia, dottoressa, un breve testo microscopico, scritto in purissimo ebraico.

    La dottoressa Sarti sbalordì restando immobile e senza fiatare per qualche istante.

    Ma, ma… scusi, signor Miceli, mi sta dicendo che in quelle piccole linee ci sarebbe un testo e, come se non bastasse, scritto pure in ebraico?

    Esattamente. Un testo microscopico: un salmo, un breve salmo, il 134. Molte volte si è ricorso a questi espedienti per nascondere i testi sacri, specialmente durante le persecuzioni. Altre volte, invece, i cocci veicolavano messaggi segreti. Ma, in questo caso, credo che il frammento voglia dire qualcosa di più importante, che qui non è così chiaro.

    Ma, non ha detto che c’è il salmo 134?

    "Sì, certo, ma sembra che il testo vada oltre il significato letterale e rinvii ad altro: al Tempio come edificio e alle pietre, in questo caso. Sa, le pietre hanno un significato simbolico nella storia d’Israele. Dodici pietre sono le tribù d’Israele, una è la pietra del soccorso, eben-ezer, poi c’è la pietra angolare… le dice niente tutto questo?"

    No, veramente no.

    Ecco, vede, la pietra è un fondamento solido, denota bellezza, forza, protezione, ma indica anche pericolo, qualcosa che può colpire, far cadere, stritolare…

    Cosa vuol dire? Sembra tutto così enigmatico.

    Il fatto è che le pietre parlano di salvezza, di vita, ma…

    Ma?

    Ma, a dir la verità, parlano anche di morte.

    1

    Perugia, aprile 1985

    Antonio Nardi sfogliò il libro davanti a sé finché non trovò la pagina giusta. Sgranò gli occhi e si mise a leggere con avidità. Teneva il segno con un dito, spostandolo febbrilmente avanti e indietro dove il testo gli sembrava più interessante. A un tratto si fermò, capì che conveniva prendere appunti e alzò la testa. Avvertì il piacere di allungare i muscoli del collo e sciogliere le spalle. Si guardò intorno rendendosi conto che c’era rimasta ormai poca gente, vista l’ora tarda. La Sala Conestabile della Staffa della Biblioteca Augusta, con le sue pareti rivestite di libri fino al soffitto, offriva l’ambiente ideale per la lettura.

    Nella stanza regnava un magico silenzio. Gruppi di persone sedute e composte sembravano decise a mantenere l’incanto di quel raccoglimento intellettuale restando immobili davanti al proprio libro, i gomiti sul tavolo e le mani alla testa come se avessero l’emicrania. Nardi infilò una mano nella borsa che aveva accanto a sé, appoggiata sul tavolo, ed estrasse un blocchetto di fogli bianchi. Doveva fare presto. Scrisse in maniera convulsa copiando frasi intere del libro, aggiunse scarabocchi che parevano formule chimiche e disegnò lunghe linee intersecate fra loro simili a una piantina stradale.

    Appena ebbe finito, si mise in piedi con garbo, cercando di non disturbare i presenti, infilò gli appunti nella borsa e chiuse il libro lasciandolo sul tavolo, come gli aveva suggerito la ragazza addetta alla sala della biblioteca, tanto ci avrebbe pensato lei a rimetterlo a posto. Guardò l’orologio, mancavano dieci minuti alle diciotto. Doveva proprio andare. Prese il cappotto e se lo infilò. Percorse un lungo corridoio fino alla scala che conduceva al piano inferiore e quindi all’uscita. Muovendosi in fretta, sentì il rumore dei suoi passi riecheggiare come una piacevole musichetta. Di colpo si fermò, ebbe la sensazione di aver sentito altri rumori che non erano solo il fruscio dei suoi vestiti e lo scalpitio rapido delle sue scarpe. Si guardò intorno, non vide nessuno. Forse si era sbagliato, doveva essere troppo eccitato e quindi ipersensibile, pensò. S’impose un momento di calma prima di scendere sulla prima rampa di scale.

    Osservò la scritta Catalogo Cinquecentine sopra una cassettiera metallica alla sua destra, come se la vedesse per la prima volta. Si voltò incerto e guardò alle sue spalle i due antichi mappamondi protetti dal vetro lungo il corridoio che aveva superato in fretta, senza farci caso. Non c’era nessuno. Si sforzò di proseguire con passo più lento e misurato fino al piano terra. Le pareti dell’atrio erano rivestite di antichi dipinti che lui non mancò di osservare, sempre ammirato e affascinato da quelle opere che contribuivano a dare lustro e magnificenza alla struttura della Biblioteca Augusta.

    Buonasera, professore! squillò la voce di una donna seduta dietro al tavolo della segreteria.

    Buonasera! rispose Nardi con un sorriso gentile e un breve cenno del capo.

    Esitò un attimo prima di uscire. Continuava ad avvertire la presenza di qualcuno che lo seguiva, si voltò indietro e vide alcuni giovani scendere le scale e parlottare fra di loro. Si proiettò fuori. La strada era semibuia, il cielo coperto da nuvoloni nero-violacei e molti lampi minacciavano un temporale. L’aria vibrava umida e pungente per le improvvise raffiche di vento. Nardi tirò su il bavero del cappotto e s’incammino in via delle Prome verso la terrazza di Porta Sole, il punto più alto della città. Da lì, nelle giornate soleggiate, si poteva godere un incantevole scorcio panoramico sulle colline umbre e, verso il basso, su piazza Grimana e il maestoso Palazzo Gallenga, sede dell’Università per Stranieri.

    Alle spalle di Nardi, una decina di metri più indietro, spuntò un uomo nell’incipiente penombra, il volto torbido incassato fra il bavero rialzato del cappotto e un cappello nero schiacciato in testa. L’uomo infilò una mano in tasca guardingo ed estrasse un pugnale. Lo tenne stretto in mano e fece pochi passi lungo il muro esterno della biblioteca, poco oltre il portone di uscita. Nardi si girò e lo vide. Colse lo scatto dell’uomo che iniziò a marciare verso di lui come un’ombra minacciosa nell’atmosfera cupa dei nuvoloni carichi di pioggia. Nardi percepì il pericolo e accelerò il passo. Non c’era nessuno per strada. In breve, raggiunse lo spiazzo della terrazza di Porta Sole dove vide apparire provvidenziale, quasi per incanto, un uomo incappottato che procedeva verso di lui dalla parte opposta. Sentì un istintivo bisogno di fermarlo e chiedere aiuto, ma prima che lo facesse il passante gli si piazzò davanti e lo afferrò per le braccia, bloccando la sua corsa.

    Ha bisogno di aiuto, professore?

    Ma chi è lei? Mi lasci, mi lasci! intimò Nardi scuotendo le braccia per divincolarsi dalla morsa. Si girò indietro e vide l’altro avvicinarsi a passo deciso armato di pugnale. Si dimenò con tutte le sue forze per liberarsi, mentre notava con terrore i lampi dell’imminente temporale riflettersi sulla lama del pugnale sempre più vicina a lui.

    2

    Drappelli di studenti di medicina uscivano dal grande cancello posteriore del policlinico e si affrettavano ad attraversare via del Giochetto per raggiungere le aule dei dipartimenti della facoltà dalla parte opposta della strada. Nell’aula magna relazionava il professor Corradini, simulacro di neuroscienze, conosciuto soprattutto per le sue ultime ricerche sulle sinapsi. Stava in piedi davanti alla cattedra e di tanto in tanto si muoveva facendo brevi passetti avanti e indietro.

    Nel 1949 Linus Pauling introdusse il concetto di malattia molecolare, rivoluzionando il pensiero medico, dissertava Corradini. Sembrava un uomo di mezza età, capelli neri e ribelli, pettinati indietro e striati da filamenti biancastri, mentre un naso pronunciato e appuntito sormontava folti baffetti chiazzati di bianco. La sua fisionomia aveva un non so che di somigliante a quella di Einstein, e infatti lo chiamavano Albert.

    Insieme ai suoi collaboratori Pauling aveva studiato l’emoglobina S concludendo che l’anemia falciforme poteva essere la conseguenza della mutazione di una proteina specifica, continuò l’eminente studioso.

    Nelle prime fila stavano seduti due giovani ricercatori in camice bianco, Roberto e Sergio, che sembravano attenti alle parole del professore, ma di tanto in tanto lanciavano occhiate preoccupate verso la porta d’ingresso.

    Anche se non è così semplice per tutte le malattie, resta il fatto che un principio fondamentale della medicina moderna è che ogni forma patologica ha una base molecolare, asserì Corradini.

    Chissà che fine ha fatto Gigliola? bisbigliò Sergio nell’orecchio di Roberto.

    L’ho lasciata in laboratorio, mi ha detto che avrebbe fatto presto, passava dallo studio di Nardi per prendere i grafici e veniva qui insieme a lui.

    Vicino all’aula magna un lungo corridoio collegava diverse stanze adibite a laboratori e studi medici. Gigliola uscì dallo studio e percorse il corridoio a passo veloce finché non si fermò davanti a una porta chiusa. Bussò con delicatezza e si avvicinò come per origliare.

    Professor Nardi? chiese sommessa.

    Dall’altra parte nessuna risposta.

    Professor Nardi… ripeté incerta la donna.

    Appoggiò una mano sulla maniglia e aprì di poco la porta, appena lo spazio necessario per infilare la testa. Lentamente, fece passare anche il suo corpo asciutto e filiforme avvolto nel camice bianco. Entrò nella stanza con fare circospetto. Dentro non c’era nessuno. Gigliola esitò un momento, ritornò indietro e guardò il corridoio deserto. Fece di nuovo qualche passetto dentro la stanza cercando di capire dove si fosse cacciato il professore. Si avvicinò alla scrivania di laminato rovere, guardò incuriosita alcuni fogli disordinati e una cartella lasciata di traverso che riposizionò con un leggero tocco delle dita.

    Osservò le annotazioni sui fogli sparsi riconoscendo subito la calligrafia di Nardi; li raccolse e li mise in ordine al centro del tavolo. Lesse perplessa il titolo dell’ultimo foglio scarabocchiato di appunti prima di lasciarlo: I SEGNI DEL MELOGRANO. Uno strano titolo scritto in stampatello, mentre poco più in basso comparivano due parole in corsivo, Ioachim e Boaz, seguite da un cerchietto e un quadratino: tutto incomprensibile e privo di senso per lei in quel momento. Ma Gigliola era abituata alle stranezze del professore; lui esponeva spesso le sue tesi in modo divertente e originale, e non mancava di ricorrere a qualche stramberia per arrivare a conclusioni del tutto imprevedibili e razionali.

    Stava per fare marcia indietro quando notò un’anta di vetro della libreria semiaperta. Forse Nardi era uscito in fretta, pensò Gigliola. Ma per quale ragione? Avrebbe dovuto aspettarla, dovevano recarsi in aula per presentare il risultato delle ultime ricerche sul linguaggio fatte insieme a Roberto e Sergio. Nardi ne andava fiero e quei tre giovani ricercatori molto promettenti erano il suo fiore all’occhiello; peraltro, nonostante qualche divergenza su alcuni punti di vista, avevano consolidato ottimi rapporti di lavoro e di amicizia fra di loro. Poi c’era il nuovo progetto, una novità assoluta. Gigliola si fermò davanti alla libreria, estrasse una cartella infilata tra i libri disallineati, la osservò e la mise di nuovo a posto. Richiuse l’anta di vetro con un gesto meccanico e distratto. Si fermò perplessa e posò di nuovo lo sguardo su libri e cartelle fuori posto pieni di fogli sporgenti. Come mai? Il professore non era così disordinato, o perlomeno non fino a quel punto. Forse la necessità di una veloce consultazione dell’ultimo minuto? Ma non c’era tempo per le domande. Fece per uscire quando un rumore di passi nel corridoio la bloccò. Puntò gli occhi verso lo stretto spazio di luce della porta che aveva lasciato semiaperta. Si arrestò allarmata: poco dopo vide una testa tonda e calva infilarsi timidamente in quello spazio ristretto.

    Dottoressa Sarti, è lei?

    Vinicio! Che spavento mi hai fatto prendere! esclamò Gigliola dopo aver riconosciuto l’usciere.

    Vinicio, un uomo di aspetto malaticcio, sulla sessantina, spalle strette e addome tondo che gli conferivano un generale aspetto piriforme, sembrava piuttosto preoccupato, oltre che dispiaciuto di aver spaventato Gigliola. Aprì la porta lentamente.

    Scusi, dottoressa, volevo solo dirle che il professor Nardi è andato via.

    Cosa? Ma dovevamo andare in aula insieme!

    Lo so, ma forse si è trattato di qualcosa di urgente.

    Ma tu quando lo hai visto, il professore?

    Non l’ho visto, me lo ha detto un suo collega che è venuto a cercarlo prima.

    Un suo collega? Ma di chi parli, Vinicio?

    Io non lo conosco, l’ho visto per la prima volta. Era qui dentro che cercava qualcosa da portare al professore.

    E che tipo era?

    Alto, con i baffi, una persona distinta in giacca e cravatta. Mi ha detto che era urgente e l’ho lasciato fare, lì per lì non sapevo cosa dire.

    Va bene, Vinicio, va bene. Gigliola guardò l’orologio preoccupata. Ora devo andare, mi aspettano in aula. Semmai ne riparleremo dopo.

    3

    Il professor Corradini allungò le braccia e appoggiò le mani sulla cattedra. Puntò lo sguardo verso la folta schiera di medici e studenti presenti.

    Per il morbo di Huntington possiamo identificare il gene mutato, ma non abbiamo ancora alcuna idea sulla molecola colpita dal processo patologico, continuò.

    Gigliola entrò in aula da una porta laterale e si affrettò a raggiungere Roberto e Sergio con passetti lievi. Una cascata di capelli biondi e lisci ondeggiava intorno al suo viso come una tendina mossa dal vento, finendo per chiudersi sotto il mento. Si sedette accanto a Sergio che la tempestò di domande. Ma dove sei stata? E che fine ha fatto il professore? le chiese ansioso, a bassa voce.

    Non l’ho trovato, nel suo studio non c’era nessuno.

    Come sarebbe a dire, non c’era nessuno?

    Sparito, volatilizzato, puff! Capisci cosa vuol dire?

    Roberto, che nel frattempo si era girato verso di loro per seguire la conversazione, sembrava voler chiedere qualcosa anche lui, ma Gigliola lo anticipò e scosse la testa sconsolata senza aggiungere altro.

    Con la metodica del dna ricombinante, proseguiva Corradini, è stato possibile sviluppare un nuovo approccio ai marcatori genetici, dato che vi sono variazioni ereditarie nelle sequenze del dna, i polimorfismi...

    Andrà avanti ancora per molto? sussurrò Gigliola nell’orecchio di Sergio.

    Non credo, doveva fare solo un’introduzione, sicuramente sta per concludere e ti chiamerà a parlare del progetto.

    Il professor Corradini continuò ancora un po’, enfatizzando abilmente le parole al momento giusto per mantenere viva l’attenzione dell’uditorio. È stata studiata una popolazione venezuelana portatrice del gene del morbo di Huntington, spiegò. Questa popolazione discendeva da una donna venezuelana vissuta all’inizio del Diciannovesimo secolo vicino al lago Maracaibo. La donna venne colpita dalla malattia perché il padre, un marinaio di origine europea, era portatore del gene.

    Sarà andato là, Nardi? ironizzò Roberto rivolgendosi a Sergio.

    Là, dove?

    Al lago Maracaibo.

    Volete stare zitti? redarguì Gigliola.

    Poco dopo il professor Corradini concluse la sua introduzione e cambiò argomento.

    E ora parliamo di un importante studio sul linguaggio a cui il nostro dipartimento sta dando un notevole contributo grazie alle ultime ricerche dell’équipe del professor Nardi. Non vedo il professore, ma credo di poter lasciare la parola alla sua diretta collaboratrice, la dottoressa Sarti, che è seduta qui davanti a me, annunciò Corradini puntando lo sguardo verso Gigliola, che ebbe un attimo di esitazione e fece un colpetto di tosse nervosa per schiarirsi la voce.

    Vai, su, tranquilla, tanto dovevi parlare tu, no? la incitò Roberto sottovoce.

    Gigliola si alzò e si diresse lentamente verso la cattedra, mentre il professor Corradini andava a sedersi in prima fila.

    Dopo un breve preambolo introduttivo, Gigliola entrò subito nel vivo dell’argomento, sforzandosi di controllare il tono della voce che tradiva una leggera emotività. Tra le fila di studenti notò anche la presenza di Aldo, un amico di Roberto, giovane giornalista onnipresente, che non mancava di seguire da vicino ogni sviluppo della loro ricerca.

    "Stiamo lavorando a una ricerca sul linguaggio avviata da Mary LeMay, della Harvard Medical School, basata sull’esame della superficie endocranica di reperti umani fossili. Nella maggior parte dei casi l’emisfero sinistro è dominante per

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