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Sherlock Holmes a Monza. Due pistole per un regicidio
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Ebook326 pages4 hours

Sherlock Holmes a Monza. Due pistole per un regicidio

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Giallo - romanzo (256 pagine) - Sherlock Holmes si trova a Monza il giorno del regicidio di Umberto I. Il detective di Baker Street dovrà rivedere le sue convinzioni sulla inutilità della Storia e della Politica e intessere un difficile rapporto con le autorità, tutt'altro che interessate a conoscere la verità sulla morte del re d’Italia.


Sherlock Holmes torna in Italia ed è a Monza il giorno del regicidio di Umberto I. L’anarchico Bresci ha esploso tre colpi in mezzo alla folla che circonda la carrozza del re. Ma nel teatro del regicidio non c'è solo la pistola dell'anarchico, ce ne è anche un'altra (ora conservata nel Museo criminologico di Roma). Le indagini di Holmes e Watson sulla morte del re sono aiutate dalle non occasionali riprese cinematografiche fatte nel momento del crimine. È il primo incontro di Sherlock Holmes con il Cinema, un nuovo mezzo d’indagine o solo narrazione per immagini? Presto il detective di Baker Street dovrà rivedere le sue convinzioni sulla inutilità della Storia e della Politica e costruire un difficile rapporto con le autorità, tutt'altro che interessate a conoscere la verità sulla morte del re d’Italia.


Luigi Calcerano e Giuseppe Fiori, scrittori in proprio, da tempo firmano insieme saggistica e narrativa poliziesca, svolgendo un’ideale detection sui tanti generi che il giallo ha prodotto nel suo secolo e mezzo di vita. I loro ultimi lavori sono: Ladri e guardie (Editori Riuniti, 2007), Un delitto elementare (Sovera 2008), Teoria e pratica del giallo (Edizioni Conoscenza, 2009) e l’ebook Clandestini (ilpepeverde.it, 2014).

Luigi Calcerano scrive anche di fantascienza: con Loredana Marano ha pubblicato Lultima Eneide (Bonaccorso, 2014).

Giuseppe Fiori, nel suo ultimo lavoro La conversazione sparita (Manni, 2013), tesse un sottile elogio della conversazione nel secondo dopoguerra.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateJul 2, 2019
ISBN9788825409116
Sherlock Holmes a Monza. Due pistole per un regicidio

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    Sherlock Holmes a Monza. Due pistole per un regicidio - Luigi Calcerano

    9788825405910

    Nota degli autori

    I personaggi di questa storia sono in parte immaginari e in parte reali, così come alcune vicende sono storicamente accadute ed altre inventate dagli autori. Ma in entrambi i casi è tale la predominanza dell’invenzione, che debba ritenersi casuale e comunque del tutto frutto di artificio narrativo la sua aderenza a personaggi realmente esistiti.

    Premessa

    Il caveau sotterraneo della Banca Cox & Co. è parte integrante dell’edificio, ci sono spessi muri e porte corazzate modernissime, tutti particolari che mi hanno convinto, per la loro indubbia capacità di fronteggiare ogni rischio, a scegliere quel luogo per ospitare le mie tre cassette di sicurezza. Proprio lì è rimasto per anni custodito il resoconto sommario di questo come di altri casi che non potevano essere divulgati perché coinvolgevano importanti segreti di Stato o fatti che intaccavano il buon nome di importanti famiglie.

    In questo caso si trattava di una casa regnante e di molti altri protagonisti blasonati. Adesso che tanti eventi storici hanno fatto il loro corso e che è terminata la carneficina della Grande Guerra mi pare doveroso, se non prudente, rendere di dominio pubblico e aprire agli studiosi una storia che costituisce un omaggio a quelle straordinarie capacità analitiche che hanno reso famoso Sherlock Holmes in tutto il mondo, e che in questo caso hanno avuto modo di rivelarsi ancora una volta in Italia, a moltissime miglia da Londra. Nel rivedere i miei appunti ho rilevato tra l’altro che questo caso ha illustrato in maniera importante, oltre le specialissime doti intellettuali del mio amico, il suo metodo di indagine strettamente scientifico, che ha rivoluzionato, in pochi anni, i sistemi di Scotland Yard e delle polizie di tutta Europa.

    Ma mi sono accorto di un’altra cosa.

    In questo nostro secondo viaggio in Italia abbiamo avuto a che fare con una mescolanza di stili di vita, tradizioni e culture che ci erano sfuggite ai tempi in cui l’attenzione prevalente andava ai quadri e ai musei. Non ci siamo sentiti turisti, stavolta e, quasi, non abbiamo viaggiato con la sicurezza di avere una patria cui fare ritorno. Con fatica siamo riusciti a tenerci a distanza da tutti quei personaggi protagonisti della storia e siamo, più o meno, vissuti in un luogo immaginario di cui Londra, Roma, Torino e Monza erano parte inscindibile.

    Con la cronaca dei casi di Holmes avevo già imparato a dubitare del modo in cui percepivo la realtà e del grado di veridicità di quello che mi raccontavano o mi capitava, a Londra però, almeno, mi era noto il contesto politico e sociale e tutti i casi che vi erano inseriti. Nonostante il previdente tentativo di raccolta di informazioni, operato da Holmes al Diogenes Club, dall’arrivo a Monza in poi mi sono sentito invece molto disorientato. Da una parte questi italiani sono davvero troppo diversi, un popolo simpatico ma indecifrabile e diviso, guidato da governanti e sovversivi, entrambi esclusi dalle normali possibilità di comprensione o di valutazione di un inglese, d’altra parte le situazioni ci apparvero davvero tutte spiazzanti. Ci siamo mossi, comunque, in maniera diversa dal solito, come se indagassimo in un’altra dimensione, toccando con mano che difficilmente una storia rappresenta un solo destino possibile anche se deriva da un evento imprevedibile e di dimensioni e proporzioni grandi e imponenti, come la caduta di un Regno.

    Avevo chiuso nel caveau sotterraneo della Banca Cox & Co. una delle storie holmesiane più indecifrabili e oscure accaduta proprio all’inizio del nuovo secolo; in quella storia italiana l’intreccio c’era stato ma il contesto sarebbe presto diventato più importante e sorprendente, tale da rendere l’insuperabile ma fredda intelligenza di Holmes addirittura insufficiente, almeno in apparenza in quanto dipendente dall’area culturale anglosassone.

    Sembrerà paradossale ma mentre eravamo chiamati ad occuparci di re e di regine, di regicidi e di omicidi di Stato in quella storia italiana non ho potuto valorizzare più di tanto l’intreccio e, a parte la Cliente, non avremmo trovato un personaggio che fungesse da sovrano assoluto della storia; al suo posto ministri e intere squadre di personaggi italiani, napoletani e piemontesi.

    Ho dovuto alla fine prescegliere un solo modo, alquanto atipico, con cui cementare le pietre dell’intreccio narrativo. Non bastava indagare, come avevamo sempre fatto, su un caso delimitato e ristretto; in Italia dovevamo rielaborare tutte le informazioni necessarie alla detection, in questo modo la Storia dell’Italia di quegli anni è diventata anche per Holmes una preziosa palestra di addestramento cognitivo. Come altrettanto stupefacente è stato l’incontro di Sherlock con il cinema, l’arte del XX Secolo, che però intese sfruttare solo come nuovo supporto alla scienza dell’indagine.

    Non è mai stata una mia ambizione quella di creare una prosa che attirasse attenzione su di sé più che su quello che descrive. Questo genere di cose le lascio agli scrittori veri. La vicenda è compiuta e perfetta, ha un inizio, uno svolgimento e una fine ma, dopo tanti anni, per scriverla sulla base di appunti e documenti mi sono accorto che in sostanza la vicenda dura un anno ed è, da questo punto di vista, la più lunga di tutte le mie cronache. Non c’è, a ben vedere un’unica azione, ci sono, eccome, trame secondarie e non mancano successivi sviluppi storici della vicenda stessa.

    Poiché non prendevo periodici appunti, oltre che per la debolezza della mia attuale memoria, ho dovuto molto utilizzare le lettere (quando non addirittura gli atti processuali) in cui i personaggi raccontavano alcune vicende accadute. Certo la prima uccisione l’ho potuta raccontare, come l’ho vista, in presa diretta mentre, ad esempio, la seconda uccisione è soltanto riferita o ricostruita. Adesso, riprendendo quegli appunti secretati, ora che nessun impegno mi lega alla Casa regnante dei Savoia, ho dovuto, a così grande distanza di tempo ricostruire, come potevo, un difficile spazio-tempo narrativo.

    1. Un curioso avventore

    Ancora le bellezze dell’architettura italiana mi sorprendevano. La bianca facciata del duomo di Monza e la scura torre campanaria offrivano un piacevole contrasto. La musica delle otto campane mi ricordava il sistema inglese di suono a rotazione, il Change Ringing, della mia terra. Ero estasiato. Mi allontanai dalla grande facciata a vento, come mi aveva detto un inserviente che parlava inglese, solo perché rischiavo di far tardi a pranzo.

    Parlavo meglio l’italiano dalla prima volta che eravamo stati in questo Paese per il caso dei tre quadri bruciati a Palazzo Borghese a Roma, ma certo si capiva bene che ero inglese e all’affollatissimo Caffè del Vapore, per farmi cosa gradita mi sistemarono al tavolo con un americano.

    Nel mio fascicolo segretato, in banca, ho poi ritrovato il conto di quel pranzo al bar ristorante che stava nel piazzale della stazione di Monza, tra via Balossa e corso Milano. Lo trascrivo.

    Pane, Lire 0,20

    Vino, Lire 1,20

    2 brodi, Lire 0,60

    2 spezzatini, Lire 1,40

    Formaggio, Lire 0,50

    Frutta, Lire 1,00

    Per un totale di Lire 4,90.

    Non prendemmo caffè, l’americano si scusò col dire che era troppo nervoso ed io non amo troppo il fortissimo caffè espresso italiano.

    Non so perché me l’ero messo in tasca, quel conto, dato che era stato l’altro avventore che aveva pagato con un pezzo da 5 lire. Forse l’avevo preso in mano per vedere quanto dovevo pagare e lui aveva respinto il conto e la mia mano. Dovevo essermelo fatto scivolare in tasca. M’aveva detto che veniva dall’America ma che era italiano, ma già quel suo insistere per fare una gentilezza ad uno sconosciuto ed il suo lasciare una mancia me lo avevano fatto identificare per tale.

    Era un emigrato che tornava in patria. Più giovane di me aveva capelli ondulati e un paio di baffetti curati, a quel tempo molto diffusi in Italia. Non aveva l’aspetto di un cow-boy, era ben vestito, elegante addirittura, indossava un abito nocciola ed aveva posato sulla sedia accanto a noi un cappello floscio dello stesso colore. Portava al collo un fazzoletto di seta nera, fermato da uno spillo da cravatta con pietra dura. Ce n’erano altri a Monza col fazzoletto rosso-nero o nero e Holmes mi spiegò che erano tratti tipicamente anarchici.

    Un orologio d’oro, forse placcato, con catena d’oro che attraversava il panciotto e un anello con un piccolo brillante all’anulare completavano il quadro.

    Sulla sedia depositò anche la macchina fotografica che teneva a tracolla.

    Parlammo poco all’inizio e lui mi parve nervoso, poi cominciò a conversare, rassegnandosi a un compagno di tavolo inglese. All’inizio mi disse solo, con una strana civetteria, che era nato l’undici novembre 1869, lo stesso giorno del figlio del re e che i suoi avevano pensato di chiamarlo come lui, Vittorio Emanuele. Scelsero poi il nome di Gaetano che un italiano d’America, napoletano, diceva essere il più bel nome che comincia per la A, Aitano. Sorrisi a quello scherzo dialettale, in Italia i dialetti sono quasi lingue vere e proprie; da quello scherzo in qualche modo, pur così diversi, ci intendemmo, io gli parlai dell’Inghilterra e lui di Patterson e degli Stati Uniti. Parlò molto della sua figlioletta Madeline, ma non capii se avesse legalizzato la convivenza con Sophie, la madre.

    La melanconia lo prese ed aveva persino gli occhi lucidi, quasi febbricitanti.

    Lo consolai. – Non ci pensi, presto tornerà in America e le rivedrà.

    – Certo, tornerò se Dio vuole. Dio o chi per lui. Scusi, oggi per me è una giornata difficile.

    In quel momento entrarono due carabinieri e lui si alzò in fretta lasciando a metà lo spezzatino.

    Nel retrobottega vidi che parlava concitatamente con due uomini. Mi parve di riconoscere in uno di loro tal Luigi o Gigi Pachi, il biondino che avevo incontrato a Londra, ma non ne fui del tutto certo.

    Quando i carabinieri se ne andarono tornò, si sedette scusandosi e finì più tranquillo lo spezzatino. Dopo quel secondo piatto mi parve rilassarsi e trovammo una intesa sul formaggio.

    Mi fece un lungo discorso appassionato sul formaggio italiano. – Non vedevo l’ora di assaggiare di nuovo il Gorgonzola che in America si fa poco e male. I milanesi lo chiamano formaggio erborinato da erborìn che vuol dire prezzemolo e viene da erba, glass, ma è solo un riferimento al colore perché è un formaggio che presenta striature, striping, di muffa verde. Prende nome da una cittadina nei pressi di Milano, mio padre ne era ghiotto e me l’ha fatto conoscere. Si dice che un buttero di queste parti, un pastore, un cow-boy, proprio a Gorgonzola, tanto tempo fa mise in un mastello, una grossa secchia, del latte cagliato e poi se ne andò. Non trovandosi pronto a lavorare il latte, aggiunse alla prima cagliata un’altra cagliata. Così, per caso, alcuni giorni dopo vide che ne era venuto fuori un formaggio con venature verdi o bluastre, che profumava ed era molto appetitoso. Alcuni dicono che la mescolanza della cagliata fredda della sera con la cagliata tiepida del mattino faccia puzzare il formaggio; odore di piedi puzzolenti, dicono, ma è questione di gusti, le consiglierei di provarlo, se se la sente, è una specialità. Gliene faccio assaggiare un po’ su un pezzo di pane e decide. Ci vuole un vino rosso robusto e corposo, ordinerò un vino piemontese se è d’accordo, si adatta al re che verrà oggi a Monza, i Savoia stanno a Torino.

    – Non ordini altro vino, ne abbiamo bevuto tanto poco che c’è ancora tutto quello della casa, come dite voi.

    Non gli parlai del nostro Blue Stilton né del formaggio danese perché era troppo entusiasta di quella specialità che considerava tutta italiana.

    Il cameriere portò una fetta enorme di formaggio pieno di venature grigioverdi. Gaetano prese un pezzo di pane, ci spalmò il Gorgonzola e, con quella familiarità immediata tutta italiana, me lo mise in bocca. Fortuna che sembrava maniaco della pulizia ed aveva visibilmente le mani pulite.

    Non gli parlai di Holmes e molto poco di me, solo gli dissi che ero medico. Parlammo invece di armi da fuoco. Gli chiesi come si poteva sparare dal fianco come pare facessero i cow-boy.

    Se ne intendeva, anche se preferiva il tiro di precisione. Aveva vinto qualche gara e molte scommesse, si vantò di riuscire, a dieci metri, ad infilare una palla nel collo di una bottiglia senza mandarlo in frantumi. Mi parve eccessivo ma non commentai.

    – Le mire, il mirino e le tacche di tiro, in sostanza la canna dell’arma, devono essere perfettamente allineate col bersaglio e questo può avvenire anche se gli occhi non stanno dietro le tacche. Un cow-boy esperto e allenato, specie se l’avversario è vicino può facilmente colpire il bersaglio anche con un tiro istintivo tenendo l’arma all’altezza dell’anca.

    Gli parlai della mia Webley, una rivoltella con un tamburo da 6 colpi. Mi ci ero affezionato da quando era diventata, nel 1887, la pistola d’ordinanza delle forze armate britanniche. Dietro consiglio di Holmes la portavo con me ma non glielo dissi né gliela feci vedere.

    – In quei casi la velocità è fondamentale, in particolare essere rapido ad estrarre l’arma dalla fondina, per me, che mi esercito a sparare di precisione è importante assicurare l’allineamento.

    – Può tremare un po’ la mano – osservai.

    – Un certo tremolio ci sarà sempre. Per l’eccitazione, ad esempio quando spari con qualcuno con cui vuoi fare bella figura, o per ottenere punteggi in una gara, le mani tenderanno a tremare di più. È normale.

    – Allora cosa si può fare?

    – Prima di tutto, si deve accettare di tremare e premere il grilletto dolcemente mentre la mano sta tremando; qualche volta è solo un movimento impercettibile che non impedisce di centrare il bersaglio.

    Capace ed esperto. Mi parlò della sua passione per il tiro.

    – Mi sono comprato una Massachusetts, è una calibro 9 a cinque colpi e l’ho pagata sette dollari, in America le armi costano poco. Scusi se non la mostro, ma qualcuno qui si spaventerebbe. E poi ho chiesto il porto d’armi ma ancora non me l’hanno dato.

    Anche per me c’era il problema del porto d’armi. – L’ha addosso?

    – Non mi fidavo a lasciarla nella camera in affitto. La signora Angela, l’affittacamere è una bravissima persona ma…

    Tacqui. Lasciarla in camera non era prudente davvero.

    – Portarsi il revolver appresso non è comunque garanzia di efficacia – riprese. – Mi ricordo che una volta che facemmo una riunione politica con un grosso personaggio, Errico si chiamava, si chiama, un barbiere, durante uno scambio di insulti e proteste, tirò fuori di tasca una pistola e molto poco sportivamente sparò all’ospite di cui non condivideva i discorsi. Lo prese solo alla gamba, con un tiro da molto vicino. Ero lì e riuscii rapidamente a strappargli di mano la pistola, prima che potesse sparare un secondo colpo. Poi lo azzittii con due pugni sul naso.

    – Quell’ospite era della sua parte politica?

    – Niente affatto. Ma bisognava parlare, non sparare. C’è un tempo per discutere ed uno per sparare… – sorrise mesto.

    Mi propose alla fine di passare in una latteria per prendere un gelato e mi condusse in corso Milano 4 dalla signora Maria Carenzi vedova Bessi. Tutte cose che seppi al tempo del processo.

    Ci sedemmo ad un tavolo esterno, alla sinistra dell’ingresso. Parlammo ancora di armi. Si interessò molto a quanto gli dissi della espulsione simultanea dei bossoli della Webley e mi parlò dell’abitudine di Jesse James di incidere una croce sulla punta delle pallottole per renderle micidiali.

    Prese un gelato alla crema ed io seguii il suo esempio. Un gelato veramente buono. Doveva esserci già stato perché la lattaia lo riconobbe e gli disse: – Vuole proprio rinfrescarsi, oggi!

    Da buon italiano quando ci lasciammo fu molto affettuoso, tanto da mettermi in imbarazzo. Mi strinse la mano e quasi mi abbracciò. – Mi auguro di rivederla – disse alla fine, nervoso.

    Certo era fin troppo calmo per essere uno che aveva intenzione di commettere un crimine.

    Fu così che ebbi a che fare la prima volta con Gaetano Bresci.

    2. Serendipity

    A metà di luglio del 1900 ero tornato a vivere nell’appartamento al 221/B di Baker Street, soltanto una decina di giorni prima dell’incontro a Monza con quel singolare personaggio.

    Quel giorno Sherlock Holmes s’era alzato presto ed esaminava con la sua lente d’ingrandimento un proiettile ad espansione, altrimenti detto a fungo, di cui mi aveva già parlato qualche tempo prima. Nell’angolo destinato agli esperimenti chimici il becco Bunsen era spento.

    Il mio amico mosse appena gli occhi e mi fissò per un attimo, atteggiamento che in alcuni casi per lui sostituiva un esplicito saluto.

    Parlò sottovoce. – Un proiettile di questo tipo ha generalmente il nucleo composto di un metallo pesante, solitamente piombo, utile per favorire sia la balistica del colpo sia l’espansione, e una camiciatura incompleta del proiettile.

    Annuii, tanto per far segno che avevo sentito e mi sedetti in poltrona ad aspettare.

    La larga stanza, che prendeva luce e aria da due finestroni, era nel solito disordine. Avevo rinunziato a parlargliene, m’ero dovuto adattare a un compagno di casa impossibile per chiunque ed ora ero perfino tornato, dovevo solo continuare a rassegnarmi. Ero contento di ritrovare le vecchie cose che erano rimaste intatte, come le avevo lasciate. Il tabacco, molto buono ma fortissimo, conservato in una babbuccia persiana, la posta trafitta da un coltello al centro della mensola di legno del caminetto, i sigari nel secchio del carbone e la parete istoriata da patriottiche lettere V disegnate coi fori delle sue revolverate. Vidi che c’era solo un’altra iniziale di Vittoria rispetto all’ultima volta.

    Scossi la testa. Lo Stradivario che aveva scoperto da un rigattiere era dentro l’astuccio e lo scaffale, se possibile era ancor più zeppo di fascicoli. C’erano i suoi appunti e le monografie edite e inedite, tutto quello che Holmes archiviava, immaginando che potessero prima o poi essergli utili per le indagini.

    Avvolto nella sua vestaglia color topo, il mio amico trafficava con una serie di pallottole che toccava con le pinze e ricopriva di una leggera polvere bianca. – C’è una forte analogia ed un’aria di famiglia in molti misfatti. Ho fatto venire i vostri sigari.

    Era il suo benvenuto, ne andai a prendere uno e lo accesi. Avrebbe accettato di parlare con quella bella italiana miope? Avevo molto da farmi perdonare da Margaret Christie per l’incidente romano e credo che se fossi riuscito a far accettare l’incarico dell’italiana occhialuta lei avrebbe cominciato a scusarmi. Magari avremmo dovuto tornarci, in quel paese. Mi alzai dalla poltrona e mi avvicinai prima al caminetto e poi al finestrone. Holmes non era di buonumore.

    Camminai, fumando sullo spelacchiato tappeto di pelle d’orso, doveva aver limitato le analisi chimiche, il tappeto non mi sembrava avesse nuove macchie d’acido. Fuori, improvvisamente, cominciò a piovere e la pioggia batteva violenta contro i vetri.

    Andai a tirar fuori dall’astuccio lo Stradivario, con tutta la delicatezza di cui ero capace e ne sfiorai le corde, lo pizzicai come un mandolino, cosa che la prima volta che andammo in Italia gli aveva fatto capire a cosa pensavo. Ora volevo proprio che Holmes facesse ancora esercizio di serendipity, la sua straordinaria capacità di fare trovate geniali e apparentemente gratuite in base a dati scarsissimi, quasi insignificanti. Era il suo modo di leggere il pensiero, non mancava mai di stupirmi e stavolta forse mi avrebbe facilitato il compito.

    – Anche lo Stradivario è un mistero italiano, uno strumento di cui non s’è ancora riusciti a ricreare l’inimitabile suono – dissi ma parve non aver sentito. – Tanti compatrioti continuano ad andare in Europa a completamento della loro formazione culturale, in fondo l’abbiamo fatto anche noi quella volta che conoscemmo Ilaria Rella. E Margaret…

    Holmes si rivolse verso a me con un mezzo sorriso.

    – Avete ragione Watson, l’Italia meriterebbe una nostra visita di questi tempi, non foss’altro che per rivedere quella Margaret che vi aveva trattato tanto bene e voi avete offesa. Siete stato fortunato a non bagnarvi quando siete andato a spedire quel vostro telegramma a Roma.

    – È vero – ammisi sollevato dal fatto che la conversazione andasse per il senso voluto, prima di accorgermi che aveva ancora letto nel pensiero ben oltre le mie aspettative.

    – Stavolta mi rendo conto che la spiegazione successiva sarà semplice! – commentai.

    – Tanto semplice che in fondo anche voi avete finalmente compreso abbastanza il mio procedimento mentale.

    Non ero abituato a sentirgli pronunciare un apprezzamento, mi guardava sorridendo apertamente, accavallò le gambe e intrecciò le dita sulle ginocchia ossute. – Mi mancavate Watson. Vi trovo quasi brillante!

    – Avete sempre detto che non è particolarmente degno di nota costruire una serie di illazioni basate sull’osservazione. Stamattina mi sono alzato presto e sono andato all’ufficio postale. Mi sono pulito le scarpe infangate dal solito riconoscibile fango rossastro. Dovete averne visto traccia sulla pelle dell’orso. Mi sono accorto anche io che terra così si trova a Londra solo all’’ufficio postale e davanti alla cattedrale di San Paolo, destinazione che avete giustamente escluso. Non mi sarei svegliato così presto per recarmi a una funzione. Ufficio postale, dunque. Dato che non vi fate mancare mai la provvista di francobolli, l’altra inferenza è stata facile, ho dovuto fare un telegramma. Mi rimane ancora difficile capire come avete pensato a Roma. Aspettate, che la destinataria fosse Margaret Christie dovete averlo capito per il fatto che già vi ha scritto una lettera. Dovete averla cestinata senza aprirla dato che sulla busta c’era lo stemma scozzese che riproduceva il tartan del suo preteso clan; lei non aveva affatto quel tipo di tartan e millantava la sua antica origine scozzese. Fu per questa sciocchezza, in fondo, che l’offesi.

    Holmes si alzò e andò a prendersi un sigaro dei suoi.

    – Ha dovuto mettersi in contatto con me, anche se non le faceva molto piacere – continuai l’inferenza. – Come avete detto non era peregrina. Volete aiutarmi ricevendo quella vecchia italiana, che vuole impedire il furto di una reliquia? Una preziosa reliquia conservata in una chiesa…

    S’era tolto il sigaro di bocca e aveva emesso una fitta nuvola di fumo, non sorrideva più.

    – Devo avere colpa anche io per quella volta, a Roma, sono stato evasivo, in fondo era solo un peccatuccio di una scozzese lontana dalla sua patria. Ma avevo altri pensieri. Dite pure alla signora Hudson che la riceverò in qualsiasi giorno e a qualsiasi ora voglia presentarsi.

    3. La cliente

    La Protetta di Margaret Christie era una dama anziana, coi capelli bianchi attraversati da pochi capelli castani. Magra e slanciata portava con dignità e decoro i ricordi di una passata bellezza. Si muoveva aggraziata ed energica tanto da non dimostrare la sessantina d’anni che la lettera di Margaret aveva anticipato. Salì di buon passo le due brevi ma alte rampe di scale.

    Dietro le lenti, molto spesse e cerchiate di tartaruga, gli occhi di un blu cupo, quasi turchino, brillavano.

    Sherlock Holmes uscì per accoglierla dalla camera e si soffermò sulla porta.

    Era accompagnata da un uomo che si era presentato come Luigi Pachi, italiano come il cocchiere della bella carrozza che invece era biondo di capelli. Pachi aveva un fazzoletto di seta rosso e nero fermato attorno al collo da quella che pareva una piccola fede e assentì mentre la dama, congedandolo, gli raccomandò, in italiano o in napoletano, di ordinare ad Arrigo di rimanere coi cavalli davanti il nostro portone, senza farsene cacciare da nessun Bobby.

    Guardò il mio amico fissandolo negli occhi. – Sono Donna Nina Rizzo, dama di compagnia ed ora governante di Maria Sofia di Borbone.

    – Benvenuta, come può aver bisogno delle mie indagini? – volle sapere il mio amico laconicamente.

    La donna sospirò. – Come diciamo a Napoli devo mantenere ‘o carro p’a scesa – sorrise a Holmes. – Ci vuole fatica per governare un carro su di una discesa, per evitare che scivoli via. Alla corte usavamo questo parlar figurato ma efficace, per esprimere il concetto di diplomazia. É con diplomazia che vi devo parlare del re e della regina di Napoli. C’era un grande, piccolo Stato il cui re sosteneva di poter rimanere amico di tutti e nemico di nessuno anche perché il suo Regno era difeso per tre lati dall’acqua salata e per il quarto dall’acqua santa, ma era un re abituato alla rassegnazione e al lassismo ed era anche molto più miope di me quando guardava alla complessa dinamica dei rapporti internazionali. Voleva essere neutrale ma c’era un suo geniale

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