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L'Amore che Viola + Io sono un femminicida
L'Amore che Viola + Io sono un femminicida
L'Amore che Viola + Io sono un femminicida
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L'Amore che Viola + Io sono un femminicida

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About this ebook

Due lavori interconnessi di Giovanni Garufi Bozza a un prezzo promozionale, in formula cofanetto. L'Amore che Viola, un romanzo travolgente sui rapporti di coppia e le dinamiche della violenza domestica; Io sono un femminicida, un saggio provocatorio e alla portata di tutti che affronta in maniera scientifica e divulgativa, sotto l'aspetto psicologico ma non soltanto, la medesima tematica dei rapporti tra generi.
LanguageItaliano
Release dateJun 26, 2019
ISBN9788893691918
L'Amore che Viola + Io sono un femminicida

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    L'Amore che Viola + Io sono un femminicida - Giovanni Garufi Bozza

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    Collana Élite

    L'AMORE CHE VIOLA

    di Giovanni Garufi Bozza

    Proprietà letteraria riservata

    ©2018 Edizioni DrawUp

    www.edizionidrawup.it

    redazione@edizionidrawup.it

    Progetto editoriale: Edizioni DrawUp

    Direttore editoriale: Alessandro Vizzino

    Elaborazione grafica: Adriana Giulia Vertucci

    Immagine di copertina: Deliss (glahistig@yahoo.it)

    I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati.

    Nessuna parte di questo eBook può essere utilizzata, riprodotta o diffusa, con qualsiasi mezzo, senza alcuna autorizzazione scritta.

    I nomi delle persone e le vicende narrate non hanno alcun riferimento con la realtà.

    ISBN 978-88-9369-160-4

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    Dalla pelle all’anima

    L’amore è un castigo.

    Ci punisce per non aver saputo stare soli.

    M. Yourcenar, Opere, vol. I

    Quando Viola scorse il suo riflesso nello specchio, dopo un tempo immemorabile si riscoprì finalmente bella. I suoi occhi si spalancarono in un moto di meraviglia e presero a scorrere ogni centimetro della sua pelle. Girò su se stessa, riscoprendo quella gioventù che sembrava persa per sempre. Un corpo tornito, il suo, seppur con qualche leggera smagliatura.

    Si avvicinò allo specchio, per rimirare il colore ambrato delle sue iridi. Un colore raro, le avevano detto.

    E si chiese se la rarità fosse realmente un dono o piuttosto un castigo.

    Fuori dalla finestra, le gocce di pioggia rigavano il vetro, mescolando i colori artificiali della città. I tuoni ne coprivano i rumori, mentre, nella sua stanza, la luce soffusa dell’abat-jour a stento rischiarava le ombre della notte e la sua nudità. 

    Restò a osservarsi in silenzio, in piedi di fronte a quel riflesso, e d’un tratto si scoprì in sintonia con se stessa, fino a desiderare di accarezzare il suo corpo, passando lentamente la mano dai seni all’inguine, e giù ancora, fino a quel piccolo anfratto verticale, fine e inizio dei suoi guai.

    Con le dita si regalò un piacere che aveva cercato invano negli altri.

    Spinse. Nel tentativo di raggiungere la sua anima, nascosta in chissà quale increspatura del suo intimo, troppo complessa per essere compresa appieno. Soprattutto da lei stessa.

    Quando venne si appoggiò allo specchio, ansimante, lasciando che il suo riflesso la sostenesse. Era dalla giovinezza che non si masturbava più, da quando aveva abbandonato quel rito divenuto compulsivamente ripetitivo. E subito ricordò il motivo di quella scelta. Quell’orgasmo le tirò fuori la sofferenza che aveva cercato per anni d’inghiottire nel suo inconscio.

    Le ecchimosi sulla sua pelle erano ormai scomparse, i lividi avevano lasciato il posto al candore pallido del suo corpo. Ma si chiese quando sarebbe riuscita a guarire le ferite interne, quelle più dolorose, che sentiva come voragini sull’anima.

    Ci sarebbe mai stata una cura possibile?

    «Posso comprendere il dolore, Viola, ma prima o poi queste ferite le dovremo affrontare per poterle rimarginare.»

    «Lei parla di dovere... mi chiedo invece quando potrò.»

    «Quando ti avremo aiutata ad accrescere le tue risorse e dunque il tuo potere. Parlo dell’empowerment, del potere di potere.»

    «Non è strano che in italiano non esista una bella parola per parlare di questo empowerment che mi cita sempre? Potenziamento... sa di meccanico, di ostile. Forse all’estero sono davvero più avanti di noi.»

    «Non so dirtelo, Viola, ma qualcosa la stiamo raggiungendo. Solo quando ti sei riscoperta bella di fronte a quello specchio, quando hai voluto riconquistarti e coccolarti, sei riuscita a vedere le tue ferite. Occorre fare dei respiri molto profondi per poter andare a fondo dentro di noi. E i respiri che abbiamo a disposizione nella nostra vita si chiamano risorse. Sono la luce con cui possiamo esplorare il buio che abbiamo dentro.»

    «Per ora sento solo di essermi riscoperta in sintonia con me stessa... forse è già un passo avanti.»

    «Mi fai venire in mente una riflessione. C’è chi dice che ogni cellula del nostro organismo abbia un suo cervello, e che la stessa pelle, quel confine che ci delimita dall’altro, si crei nel feto dall’ectoderma, lo stesso strato da cui originano i neuroni del nostro cervello. Chissà, sarà per questo che si usa dire che le persone ci stanno simpatiche o antipatiche a pelle? Se siamo in sintonia o meno con loro?»

    «Non lo so... Mi sto chiedendo però perché facciano tanto male, quelle ferite intime. Forse perché sono inferte dall’amore, ecco perché.»

    «Dall’amore o dalle persone che sostenevano di amarti?»

    «C’è forse differenza?»

    Un fiore estirpato

    La vita di una famiglia (...) è come il sedimentarsi

    di strati appartenenti a diverse ere geologiche. Ma

    scavando troppo in profondità si possono riportare

    alla luce scheletri che conservano una vitalità

    latente e potenzialmente distruttrice.

    G. Messina, Domani non sarò qui

    Seduta sul letto, spazzolò i suoi capelli ramati. Movimenti lenti e accurati scendevano lungo la chioma, mentre a labbra serrate canticchiava un motivetto udito chissà dove.

    Guardò nello specchio il riflesso dei suoi occhi e passò la mano sul viso, che la luce diafana della stanza rendeva quasi lattescente.

    Sbuffò, osservando quella camera da letto che cominciava a starle stretta. Il suo sguardo si spostò dai peluche ai libri di favole, accuratamente disposti sulla libreria, che cozzavano con i poster dei Duran Duran e di Michael Jackson. Forse era tempo di buttare via tutto.

    Eppure una parte di sé era così legata a quegli oggetti da non riuscire a separarsene. Una lotta interiore che si riproponeva ogni sera.

    Interruppe quei pensieri, quando sentì uno scricchiolio dietro la porta della sua stanza.

    Aguzzò le orecchie, nel timore di essersi sbagliata.

    Non verrà neanche stasera...

    Lo scricchiolio si ripeté.

    Guizzò sotto le coperte, abbandonando la spazzola per terra.

    Spiando verso la porta da sotto le lenzuola, provò di nuovo quella sensazione inspiegabile, che dalle viscere le risaliva la schiena. Un brivido, forse di speranza, forse di vergogna.

    Molte cose erano cambiate dalla prima volta che si era svegliata con le lenzuola sporche di sangue, e da allora costantemente sentiva emozioni contrastanti fare a pugni dentro di lei. Sensazioni che non comprendeva. Solo da poco tempo aveva quelle cose che la madre definiva sue, dandole gli assorbenti per non macchiare letto e pantaloni. Evitando di aggiungere altro sulla questione, come se ci fosse qualcosa di talmente sporco, in quel sangue, da non poterne parlare.

    E in quei giorni lui era distante, mentre il suo corpo cambiava, i seni fiorivano sotto la maglietta e le capitava di sentirsi diversa dalla sera alla mattina, con la necessità, e spesso l’esigenza, di chiudersi in se stessa.

    Ora che il ciclo era finito, però, forse sarebbe tornato. Doveva tornare.

    La porta finalmente si aprì, cigolando.

    «Dormi?»

    «No... ti aspettavo.»

    Fin da quando era piccola aveva sospirato per la sua buonanotte. Come per i peluche e i libri di favole, però, si sentiva ora troppo piccola, ora troppo grande per quel loro momento di tenerezza.

    Il padre scivolò dentro la stanza, chiudendo la porta dietro di sé.

    Viola deglutì una pastura agrodolce, di cui non conosceva la provenienza.

    Si stese accanto a lei, che gli fece posto nel letto, lo abbracciò e si abbandonò alle sue carezze, che dai capelli scendevano alle spalle, in un’intimità tutta loro, di cui era gelosa.

    E se va via?, si chiese, stringendosi ancora di più a lui. Gli occhi socchiusi, a controllare che non scappasse.

    Il respiro del padre si fece leggermente più sostenuto. Il brivido lungo la schiena di Viola aumentò.

    «Vuoi che ti lasci dormire?» mormorò il padre.

    Viola restò in silenzio, sospirando, mentre le carezze si erano fermate, indugiando sui suoi fianchi. Le sue guance si arrossarono. Sapeva che non avrebbe continuato senza un permesso.

    Ma avrebbe mai saputo dirgli di no?

    «Continua...» sussurrò Viola.

    La mano scese ancora, abbandonando i fianchi e insinuandosi nei pantaloni del pigiama.

    Aprì gli occhi e guardò i peluche sul letto osservarla come ogni sera, immobili e sorridenti. Odiosi. Di nuovo quel fastidio di un dito familiare che scostava il bordo delle mutande e la toccava. Un fastidio che poi diventava stranamente piacevole. Un piacere di cui non riusciva a fare a meno.

    Lo sguardo si spostò verso le favole sulla libreria. Doveva buttare tutto, si convinse, non era più una bambina, non tra quelle braccia. E si sentì ancora una volta troppo grande per la buonanotte di suo padre. Troppo piccola per farne a meno.

    Oppure sbagliava? Perché non riusciva a rinunciare alla dolcezza dei suoi baci, al profumo del suo dopobarba? Perché quel dito correva sempre più veloce e, più accelerava, più il suo godimento aumentava, fino a diventare incontenibile, fino a esploderle dentro, fino a dover essere cacciato fuori con tutto il fiato che aveva in corpo?

    La mano del padre, lesta, abbandonò i pantaloni e soffocò dentro la sua bocca i mugugni, quasi al punto di impedirle di respirare. Non era bene che qualcuno li sentisse. Soprattutto la mamma.

    Glielo ripeteva ogni volta. Quella era la loro buonanotte, il loro segreto. Un segreto che la stordiva ogni sera di più. La mano di Viola si spostò sui pantaloni del padre, sapeva che ora toccava a lei. Ma quella sera si bloccò, quella stanza era ormai troppo piccola per contenere i suoi sentimenti. Era ora di cambiarla, di farla crescere. Come lei.

    «Papà, ti devo dire una cosa...»

    «Che cosa?»

    «Io... ti amo... voglio dormire con te in una stanza più grande... tutta la notte. Non sono più una bambina...»

    Il padre si staccò improvvisamente, alzandosi dal letto rosso in viso. L’espressione indecifrabile nei suoi occhi la sconvolse, uno sguardo che si frantumò davanti a lei. Le mani di quell’uomo nascosero il volto dai gemiti di un pianto soffocato.

    La abbandonò lì. Stavolta per sempre.

    E Viola, singhiozzando sotto le coperte, capì di averlo perso. Troppo piccola per tenerlo stretto a sé. Troppo grande per le favole con il principe azzurro.

    C’era una foto dentro il diario di Viola, che la ritraeva in braccio a suo padre. Ricordava ogni momento di quella gita in montagna. Lui l’aveva portata sulle spalle per tutta l’escursione, su per i lunghi pendii, sostenendola con le sue forti braccia, nonostante le proteste della madre, che lo rimproverava di viziare la figlia.

    Ma loro sorridevano complici, non badando a lei.

    Nel ricordare quel momento, sentì che suo padre non era più sceso da quella vetta irraggiungibile. E Viola non si capacitava del perché l’avesse trascinata verso quel piacere, per poi lasciarla nella solitudine. Nella strana sensazione di sentirsi al contempo sporca e non abbastanza donna per lui.

    In fondo, non era finito il ciclo? Altri ne ebbe ancora, terminarono anch’essi. Ma lui non tornò più.

    E poi c’era sua madre, dietro la macchina fotografica a scattare la foto. Presente e assente nello stesso momento, col suo sguardo algido, che sapeva di un continuo rimprovero tacito.

    Se almeno avesse scorto l’odio nei suoi occhi, avrebbe sentito il tepore di un sentimento.

    Ma era solo gelo.

    «Lei è la prima persona a cui lo racconto, e forse l’unica che possa credermi.»

    «Come ti senti, ora che ti sei liberata da questo peso?»

    «Vuota... tradita... E non riesco a piangere, perché per troppo tempo ho seppellito le lacrime sotto la rabbia.»

    «Con chi sei arrabbiata?»

    «Non lo so. Con mio padre? Con me stessa? Ho sempre avuto un risentimento anche per mia madre, anche se non ho mai capito il perché... In fondo, sono io ad averla tradita.»

    «Ti prendi una responsabilità che una bambina di undici anni non poteva avere all’epoca e non può accettare anni dopo.»

    «C’è stata una volta in cui ho scorto mia madre dietro la porta della mia camera, mentre mio padre era dentro al letto con me. Non dissi nulla. Io guardai lei e lei guardò me. Poi venni e chiusi gli occhi. Mi ricordo che sorrisi, a occhi chiusi, per rinfacciarle la felicità di quel momento. Quando riaprii gli occhi lei era sparita... In realtà, non so nemmeno se questa cosa sia reale o frutto della mia fantasia...»

    «Cosa le volevi dire con quel sorriso?»

    «Ci ho pensato qualche volta, ma è terribile da ammettere...»

    «Prova...»

    «Vedi mamma? Io e papà siamo uniti, mentre tu esci tutte le sere. Ho sentito le vostre discussioni, ho l’età per comprendere le vostre frecciate reciproche. Ho capito che hai uno o più amanti. E... se tu non ci sei... papà è qui con me... e questa cosa mi piace talmente tanto, che vorrei che tu sparissi per sempre dalle nostre vite.»

    «Un peso bello grande da tenere dentro.»

    «Povera mamma. Quanta gelosia può avere una ragazzina.»

    «E se ti dicessi che tua madre è responsabile quanto tuo padre per quello che è successo?»

    «Le risponderei che non è vero, che mia madre è stata una vittima. Ho sedotto io mio padre. Io... avrei voluto che lei sparisse.»

    «Non potevi scegliere, Viola, lei invece sì. Era una sua responsabilità proteggerti da quelle effusioni pericolose. E non l’ha fatto.»

    «Sta dicendo che è tutta colpa di mia madre? Che mio padre ha agito così perché lei si scopava altri uomini?»

    «No, Viola. Riconoscere che il silenzio complice di tua madre è stato dannoso quanto quello che ha fatto tuo padre non è una giustificazione per lui. È prendere coscienza di una realtà che è sicuramente dolorosa, ma che ti libera da una colpa che non hai.»

    «Io però provavo piacere.»

    «Non avevi l’età per comprenderlo.»

    «Ma l’avevo per provarlo...»

    «Voglio dirti una cosa. Ogni donna ha suo padre come primo grande amore. Ma, per qualche strana ragione, alla donna è sempre affidato il destino di compiere dei passi più complessi rispetto all’uomo.»

    «Come sempre...»

    «I maschi nascono in simbiosi con la madre, ma quando raggiungono la fine dell’infanzia se ne distaccano, si nutrono dell’energia che ricevono dal padre, compiendo quei riti di passaggio che lo porteranno a essere adulto. Per le donne il passaggio è duplice, nascono anche loro in simbiosi con la madre, ma nel maturare spostano l’attenzione verso il padre, lo idealizzano, lo riveriscono, e attraverso la sua mascolinità iniziano a esplorare la loro sessualità che lentamente si sveglia dal sonno dell’infanzia.»

    «Esplorano la sessualità? Sta dicendo che è normale?»

    «No, normalmente non c’è alcuna connessione erotica tra padre e figlia, ma lui è il primo uomo della loro giovane vita e scoprono l’attrazione maschio-femmina, fatta di seduzioni innocenti e di giochi con l’energia maschile che egli rappresenta. Ma arriva poi il momento del distacco, in cui la figlia si avvicina di nuovo alla madre. Riconosce e si arrende al suo ruolo di moglie del padre. È un rito importante quello di rinunciare al flirt infantile. Un passaggio doppio, dunque, e più complesso, che tuo padre ha bloccato, davanti al silenzio di tua madre.»

    «E ora, che me ne faccio di questa rabbia verso tutti e due i miei genitori?»

    «Sapresti dirmi da quanto tempo andava avanti quella buonanotte tra te e tuo padre?»

    «Mesi? Anni? Chi se lo ricorda? Dopo quella sera, però, non capitò più.»

    «Tuo padre si è ritirato. Quello che forse ha fatto più male era un nuovo confine che aveva ormai eretto, forse per distorta coscienza, forse per impotenza. Probabilmente, la rabbia di cui parli la prova la Viola adulta. Ma la Viola bambina, dentro di te, cosa prova?»

    «Rimpianto...?»

    «Forse. Forse si chiede perché suo padre non sia più sceso da quella montagna, perché l’abbia abbandonata, pur restando dentro quella casa. La Viola bambina aveva bisogno di lui. E di sua madre.»

    «Quindi non erano dei mostri?»

    «I mostri esistono solo nelle favole che volevi buttare, Viola. Come i principi azzurri. Gli uomini sono troppo complessi per essere definiti solo buoni o cattivi. Se così fosse, non proveresti questi sentimenti ambivalenti verso di loro.»

    «Le ripeto che provo solo tanta rabbia. Il resto è un sentimento indefinito, che non so spiegarle.»

    «Anche la rabbia, purtroppo, serve a poco. Per certi versi è persino dannosa, per quanto legittima e comprensibile. È utile provarla in questo momento, perché l’hai trattenuta dentro di te per troppo tempo; ma alla lunga ti lega a un ricordo che è bene metabolizzare, per ritrovare la tua innocenza e le responsabilità dei tuoi genitori. La rabbia è una gabbia, che ci lega a coloro che odiamo perché non possiamo più amare. La rabbia vincola, e ci toglie il diritto di essere liberi.»

    Anche le capre amano

    Spiate da dietro le persone portano il peso del loro destino, come se nella parte che non possono vedere di se stesse si addensassero tutte le sofferenze,

    i pensieri, le speranze individuali e quelle di tutte le generazioni precedenti che paiono accanirsi contro l’unico testimone, lo spingono in avanti ma intanto sembrano ridere di lui, della sconfitta che ripeterà.

    M. Mazzantini, Splendore

    La famiglia di Viola aveva alzato verso l’esterno una barriera di apparenza, talmente ben architettata da distorcere qualunque sguardo. Un’apparenza che mostrava una famiglia affiatata e felice, borghese, sempre presente alla messa domenicale, ben curata nell’aspetto. Riservata.

    Questa barriera non solo trasmetteva al mondo esterno un’illusione di normalità, ma permetteva ai genitori di rispecchiarsi nell’illusione stessa, li convinceva di essere tutto sommato una famiglia priva di problemi.

    Da quando l’uomo ha abbandonato la primitiva poligamia e i gruppi allargati, scegliendo l’intimità della famiglia, ha compreso che i panni sporchi è meglio lavarli in casa. Mai stenderli alla finestra, neanche quando sono candidi e immacolati. Di contro, si è sviluppata la strana tendenza a guardare sempre e costantemente tra le lenzuola degli altri, per giudicare le macchie presenti, per sfuggire alla noia, o piuttosto alla paura, di guardare le proprie.

    Le macchie sui panni della famiglia di Viola c’erano, e avevano quel colore vermiglio di un corpo violato, contaminato da un’eccitazione proibita. Erano chiazze indelebili, che venivano occultate per essere dimenticate, o lasciate lì come soprammobili, talmente presenti al loro sguardo, da non essere più notate.

    Sotto la cortina di un’apparente e bugiarda normalità, si nascondeva una famiglia con dei segreti troppo grandi per essere rivelati.

    Le barriere si aggiunsero alle barriere, si moltiplicarono fuori e dentro casa, in un rovo di dedali complessi e intricati.

    I versi di Montale riempivano l’aula, decantati dalla professoressa con così tanta enfasi, che pareva sul punto di infiammarsi al suono stesso della sua voce.

    Ossi di seppia. Il mal di vivere del poeta. 

    Viola ascoltava quell’ardore distratta, la penna tra le labbra e lo sguardo fisso sull’orologio della parete, che non voleva decidersi a correre più veloce.

    Voltò lo sguardo verso i compagni di classe. Salvo i primi banchi, in pochi ascoltavano quello sciorinare di versi, che la voce stridula della donna rendeva antipatici.

    Sbuffò e supplicò l’orologio di accelerare il suo ticchettio.

    L’aria pregna del sudore del compagno di banco, appena rientrato dall’ora di ginnastica, era irrespirabile. Gli rivolse uno sguardo stizzito, che lui non scorse, assorto nel giocherellare con un foro sulla superficie del tavolo. Accarezzava con il dito il bordo del buco, percorrendolo lungo tutta la sua circonferenza. Lo riempiva con tutto il polpastrello, per poi ripetere il movimento.

    Entrava e usciva. Accarezzava.

    Viola si perse in quel gesto ripetitivo, gli occhi si incollarono come magneti su quel dito. Una strana eccitazione le si inerpicò lungo la schiena, ma la vergogna prese il sopravvento.

    L’atmosfera attorno a lei divenne all’improvviso incandescente. Guardò di nuovo l’orologio e il ticchettio si confuse col martellio del cuore. La gola si strinse in una morsa dolorosa, e un sudore freddo le gelò la pelle. Contò i secondi che la separavano dal cambio dell’ora. Troppi.

    Il respiro si fece sempre più corto. Ansimò in cerca di aria, ma il calore si fece sempre più insopportabile.

    «Viola, ti senti bene?»

    Di chi è questa voce? Devo andare al bagno.

    Tutto ruotò attorno a lei, il vociare si fece confuso.

    «Viola, sei pallida, non ti alzare!»

    Una vertigine profonda le scosse la testa, fischiandole nelle orecchie.

    E fu buio. Un buio che l’avvolse nel suo freddo abbraccio, per un tempo indefinito.

    Quando Viola riaprì gli occhi, scorse una figura sfumata davanti a lei. Sentì il suono confuso dello scrosciare di una doccia.

    L’istruttore della palestra le stava davanti e si rese conto di essere crollata a terra svenuta. E nuda.

    Tentò di coprirsi come meglio poteva, ma l’uomo la trattenne al muro a cui era appoggiata.

    «Non muoverti, sei svenuta sotto la doccia, abbiamo chiamato l’ambulanza». Ma Viola tentò lo stesso di alzarsi, scrollandosi dalle spalle le mani dell’istruttore. «Buona, non ti preoccupare, ora ti portano l’accappatoio... e ti successo altre volte di svenire così?»

    «Una volta, a scuola...» biascicò lei con un filo di voce, «ora qui... dicono che siano cali di zuccheri. Ma sto bene, posso alzarmi.»

    Mentiva. Aveva visto la morte abbracciarla e tentare di condurla via con sé. Una seconda volta. Per poi lasciarla lì, sola. E viva. L’aveva investita come un tornado a ciel sereno, abbandonandola in uno stato di vuoto.

    E Viola iniziò a provare terrore. Il terrore che quel vortice di emozione senza nome potesse colpire ancora, improvviso, spietato, crudele. Quel terrore che imprigiona dentro casa in una parvenza di sicurezza, e che blocca ogni possibilità di movimento.

    «Disturbo da attacco di panico» sentenziò lo psichiatra.

    Le pareti di un bianco anonimo rendevano quel piccolo ufficio una realtà sospesa, dove la normalità del quotidiano era tenuta fuori. Lontana. 

    Viola se ne stava in silenzio, la testa china e le guance arrossate. I suoi genitori posero diverse domande sulla diagnosi del paffuto dottore, che, con voce ferma e sguardo vitreo, rispondeva loro. La preoccupazione dei due era palpabile e, per un attimo, Viola faticò a riconoscerli.

    Il padre sembrava aver abbandonato la sua fortezza impenetrabile, e ora era lì, accanto a lei, con la fronte imperlata di sudore e la voce agitata, a chiedere come si potesse aiutare sua figlia.

    Ma la vera sorpresa fu la mamma, che protesa in avanti verso il medico, era visibilmente angosciata. Per un attimo si chiese se fosse realmente sua madre, o piuttosto una sosia di quella donna algida e distaccata a cui era abituata.

    Da tempo i suoi genitori quasi non si guardavano più, eppure eccoli ora mano nella mano, stretti nella loro preoccupazione. Si commosse per quell’immagine inusuale, e si sentì in colpa nel vederli così diversi.

    Il medico si rivolse direttamente a Viola: «La tua patologia colpisce all’improvviso, quando meno te lo aspetti. La terremo a bada con dei farmaci, che dovrai prendere mattina e sera, senza saltarli. Ma non ti preoccupare, io e i tuoi genitori ti aiuteremo a stare meglio.»

    Quel non ti preoccupare risuonò nelle orecchie di Viola più delle altre parole. La penna del dottore scarabocchiò su un foglio bianco la cura da prendere. Sembrava una penna minuscola tra le sue mani grassocce.

    Come si fa a non preoccuparsi di qualcosa che improvvisamente ti esplode dentro, senza preavviso? Ti stupra l’anima e ti promette morte, per poi lasciarti a terra, sconfitta, e purtroppo ancora viva, con la convinzione che il mondo sia un posto troppo grande dove stare?

    Si strinse nelle spalle con la voglia di scomparire.

    Guardò di nuovo i suoi genitori. Si sentì consolata dalla loro presenza e dalla loro attenzione. I suoi due sostegni, le sue stampelle per non cadere. E tra le lacrime rifletté che tutta quella attenzione, no, proprio non se la meritava.

    E per grazia o per colpa del suo male, Viola si riprese l’amore preoccupato dei genitori, ma cadde in depressione, consapevole che l’assistenza continua dei suoi cari non era altro che una dipendenza continua, la certezza di non riuscire a percorrere la sua vita, senza quelle precarie stampelle.

    «Lei avrebbe fatto la stessa diagnosi?»

    «Probabilmente, sì. Ma sento che manca qualcosa.»

    «Cioè?»

    «Ti hanno mai chiesto a cosa servissero quegli attacchi di panico?»

    «Perché? Servono a qualcosa? Non vengono e basta?»

    «Dubito che esista uno psicococco che arriva e fa ammalare, Viola. Possiamo provare a pensare che ogni patologia sia la migliore risposta che una persona può dare, con le risorse che ha in quel momento?»

    «La migliore risposta... Io li ho sempre visti come un castigo. L’espiazione di una colpa che portavo addosso, assieme a mio padre. All’inizio credevo fosse un purgatorio, presto o tardi avrei terminato di soffrire. Poi ho capito che era un inferno, perché non c’era fine alla sofferenza.»

    «E quella sensazione di tornare a essere protetta dai tuoi genitori?»

    «Era una sensazione strana. Sentivo che finalmente mi guardavano, ma mi sentivo anche in colpa per questo.»

    «E dov’è la colpa?»

    «Ma lo sa cosa si prova a essere un vegetale che non esce di casa per il terrore di star male? A sentirsi un peso per loro? È deprimente vivere con l’idea che non si riesca a crescere!»

    «E sei tornata a essere quella bambina che aveva l’attenzione del padre sedotto e della mamma a cui aveva fatto male. Mi stai dicendo questo?»

    «...»

    «Sai, io credo che ogni sistema abbia un impeto naturale a sopravvivere. E da questa forza segreta, che ci lega alla vita e alla sua protezione, non si è sottratta neanche la tua famiglia. Pensaci. Un matrimonio che sembrava ormai finito e sul punto di distruggersi, è sopravvissuto ancora molti anni, concentrato interamente sulla tua sofferenza.»

    «Quindi è stato utile... a loro?»

    «Beh, possiamo ipotizzarlo. Se esiste un matto in casa, qualcuno che soffre, ogni membro della famiglia può non pensare ai suoi problemi e concentrarsi sulla sofferenza del congiunto, che diventa il capro espiatorio di ogni male. È questa persona a soffrire e, quando c’è un malato, gli altri si sentono di conseguenza sani...»

    «Mi sta dicendo che ho comunque una colpa nell’essermi ammalata?»

    «In quello che mi racconti ritrovo spesso una tendenza ad addossare sulla tua pelle le colpe degli altri. Ti senti sempre responsabile di ogni cosa negativa che accade nella tua vita. Quando invece avviene qualcosa di positivo, dai merito agli altri, mai a te.»

    «Non ci avevo mai pensato...»

    «Potremmo quasi definirla la sindrome del capro espiatorio. La tendenza a prenderti sulle tue fragili spalle i mali del mondo e a circondarti di persone simili ai tuoi genitori. Ambigue, che tendono a rinforzare il tuo senso di colpa.»

    «Ma sì, aggiungiamo un’altra sindrome alla collezione, ne ho già tante, in fondo. Quante me ne mancano per vincere un ricovero gratuito?»

    «La sindrome del capro espiatorio è un nome fittizio, Viola, ma descrive bene la tendenza dei sistemi, la società soprattutto, a trovare sempre un colpevole per sentirsi sani.»

    «Su questo sono d’accordo con lei. Il matto, l’immigrato, l’omosessuale... portano tutti una colpa che è utile alla società per fingersi sana. Anche le donne, spesso, sono state accusate di essere la causa dei mali del mondo.»

    «E nelle famiglie avviene lo stesso: se c’è un diverso, diventa l’origine di tutti i mali. Si sviluppa così un paradosso: il diverso rinforza la sua sofferenza per salvare gli altri membri della famiglia, e gli altri componenti prendono in carico questa persona sempre di più, o la respingono con tutte le loro forze, escludendola. In entrambi i casi, concentrano tutte le loro energie sul diverso, sullo sbagliato, per non pensare alle loro sofferenze.»

    «Quindi sono una... capra espiatoria?»

    «Riflettiamoci. La mia sensazione è che tu ti metta costantemente nella posizione di esserlo. Ma non ti è utile. Né è utile a chi ti circonda. Anche le capre amano e soffrono, e la loro sofferenza non può essere espiazione per gli altri.»

    «Uhm...»

    «Mi fa piacere vederti sorridere, ma la tua mi sembra più una smorfia pensierosa.»

    «Sorrido, perché ho appena fatto un’associazione folle tra la capra e la prima volta che ho fatto sesso.»

    Prendimi, ma non guardare i miei occhi

    C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,

    anzi d’antico: io vivo altrove, e sento

    che sono intorno nate le viole.

    Son nate nella selva del convento

    dei cappuccini, tra le morte foglie

    che al ceppo delle querce agita il vento.

    G. Pascoli, L’aquilone

    Grecia. La terra dal sapore antico, teatro di tutta la mitologia appresa sui libri. Contenitore di una lingua estinta ovunque, tranne al liceo classico.

    Quando il professore di filosofia comunicò la meta del viaggio di istruzione, Viola ebbe un sussulto. Aveva evitato tutte le gite scolastiche fino ad allora, barricata in casa per colpa delle sue ansie e della preoccupazione dei genitori, ma quella del terzo anno di liceo sarebbe stata l’ultima prima della maturità. Il desiderio di partecipare e la paura di affrontare il viaggio in un luogo così lontano la ghermirono insieme.

    Come spesso le accadeva, si sentì sotto lo stipite di una porta, indecisa se entrare o se uscire, se partire o se restare a casa. E sotto quello stipite precario le ansie si rafforzarono, così come la frustrazione.

    La campanella suonò la ricreazione e rimase seduta al suo banco, nel silenzio dei suoi pensieri.

    «Devi venire, quest’anno non parto senza di te» esclamò Marzia avvicinandosi a lei.

    Marzia. L’unica testimone esterna alla famiglia delle sue paure, la compagna di banco, la metà di un’amicizia nata negli ultimi tre anni di liceo.

    Marzia aveva il raro dono di infondere forza, quello stesso vigore che Viola non aveva mai trovato dentro di sé. In sua compagnia ogni turbamento spariva, grazie alla sua presenza, a una mano sulla spalla o a uno sguardo complice. Un’energia che magicamente lasciava il corpo dell’amica e riempiva i vuoti di Viola, perché la giovane ne aveva a sufficienza per entrambe.

    Marzia aveva un cuore grande. A differenza degli altri compagni di classe, aveva saputo leggere dentro gli occhi di Viola, scorgendo le fratture della sua anima e restando ammirata dalla sua complessità. La considerava una sorta di statua classica, meravigliosa, ben scolpita, seducente, eppure priva di quella fiamma interiore che dona la vitalità, la stessa negata alle opere d’arte, per quanto l’artista si sforzi di imprimerla. Aveva intuito, senza rendersene realmente conto, che quella fiamma vitale le era stata in qualche modo spenta, lasciando un fumo nero che aveva inquinato l’anima di Viola. E aveva deciso di donare un po’ della sua vivacità, per far luce a entrambe.

    I veri amici si contano sulle dita di una mano passata sopra la tagliola di una vita che affetta l’esistenza. Ciò che resta sul moncherino è un dono, chiamato amicizia.

    «Allora? Vieni?» la incalzò ancora, sfidando il suo silenzio.

    «E se mi sento male?»

    «Nessuno è mai morto per l’ansia.»

    «Ma rischierei di rovinare la gita anche a te!» protestò Viola.

    «Me la rovineresti di più non venendo.»

    «E se sto male in aereo, dove non si può uscire?»

    «Ti do una botta in testa appena saliamo e ti faccio risvegliare a destinazione da un figo che parla greco moderno.»

    Il trasbordo si rivelò meno disastroso del previsto, nonostante i timori prima di salire sull’aereo.

    Le paure di Viola persero il volo, restando a Roma e consentendole di immergersi in una realtà tutta nuova, scandita da visite ad anfiteatri e a musei. Di fronte al Partenone notò quanto la gita scolastica creasse una sorta di realtà parallela rispetto alla quotidianità della scuola. Vivere assieme ai compagni giorno e notte permetteva di scoprirli sotto una luce diversa, o forse loro stessi si svelavano in modo diverso, accendendo parti di sé, talenti e fragilità, che venivano adombrati dalla routine dei banchi.

    Persino i professori, scesi dalle loro cattedre, si mostravano semplici uomini e donne, con la loro famiglia a casa da contattare, i loro sbadigli, una socialità e un’umanità che in classe restava celata dalle pagine dei registri pieni di numeri, testimoni severi del percorso scolastico di ciascuno di loro.

    «A professò, stasera s’ubriaca con noi?» gridò un compagno.

    «Certo, Mancini, ma devi farmi sbronzare a tal punto da convincermi a metterti il primo otto della tua vita. Goditi la gita, che appena torniamo, se non ti metti sui libri, ti boccio!»

    «Prof, lo sa che tanto la svango sempre all’ultimo.»

    «Ecco, allora comincia a prendere la vanga e a impegnarti, che si dice sfangare, non svangare! Braccia tolte all’agricoltura!»

    Da Atene volarono a Heraklion, nell’isola di Creta, da dove, dopo una visita alla reggia di Cnosso, si sarebbero imbarcati per tornare a casa.

    Ogni notte, pur cambiando l’albergo, nugoli di ombre lasciavano silenziose le loro stanze per occupare quelle degli altri, chi per dormire assieme, chi per dialogare, chi per bere o fumare spinelli. Momenti tribali che permettevano a tutti di sentirsi parte di un gruppo, che a breve la maturità avrebbe separato.

    Le coppiette, invece, preferivano la solitudine delle stanze rimaste libere da quel via vai, per appartarsi nell’intimità di un sesso tutto da scoprire.

    «Truccati» ordinò Marzia.

    «E se vengo così?»

    «Non pensarci minimamente, è l’ultima notte che passiamo tutti insieme. Poi ci sarà solo lo studio, la maturità e ognuno per la sua strada. Dobbiamo essere al top, prendilo come il ballo di fine anno delle scuole americane.»

    «Senza cavaliere?» obiettò Viola.

    «Il cavaliere si troverà lì» scherzò Marzia, aggiungendo un’occhiata complice. «Specie se ti trucchi.»

    «Non so neanche cosa indossare.»

    «Ho io il vestito giusto per te, l’ho portato apposta per un’occasione come questa.»

    E in poco tempo si ritrovò con un vestitino nero, aperto sulla schiena, che lasciava scoperta una generosa scollatura. Le gambe affusolate si liberavano finalmente dei soliti jeans attillati, sostituiti da un paio di calze a rete fina.

    «Mangi troppo poco» le rimproverò Marzia nel notare i fianchi scarni, «sei esageratamente magra.»

    La truccò, contornando i suoi occhi con la matita nera ed evidenziando le sopracciglia con il rimmel. Rossetto color carne sulle labbra e abbondante fondotinta sul viso. Poi fu la volta dei capelli amaranto, piastrati e sistemati con le forcine in una pettinatura nuova e, almeno per Viola, audace.

    Quando finalmente l’amica le permise di guardarsi allo specchio, a stento si riconobbe.

    «Mi vedo... strana» mormorò Viola, esterrefatta dal suo riflesso.

    «Scherzi? Sei uno schianto, se fossi un uomo ti scoperei dopo il primo sguardo.»

    «Marzia!»

    «Non fare la santarellina. Non stasera. Non qui in Grecia.»

    «Quindi hai intenzione di sballare?»

    «Può darsi,

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