E se fosse domani
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E se fosse domani - Daniele Sbaraglia
***
1.
Mi chiamo Manuel. No, non è vero neanche questo, è un’illusione come tutta la mia vita. Mi sarebbe piaciuto, ma il mio nome è uno dei più comuni che ci siano, che può essere Pietro, Giuseppe per gli amici Pino, o Mario, Giovanni, Antonio… che importanza ha? Si dice che anche nel nome ci sia un destino: a me sarebbe piaciuto chiamarmi Manuel, e così mi chiamerò per raccontare questa storia. Manuel Fantoni era un personaggio di un film di Carlo Verdone, interpretato dal grande Angelo Infanti. Ecco, a me sarebbe piaciuto essere come Manuel Fantoni: un uomo affascinante, con tante storie da raccontare e una vita piena di emozioni. Storie incredibili di donne, viaggi in giro per il mondo in cerca di avventura. Un uomo che appare spaparanzato sul divano, stanco di una vita che però gli ha regalato molto, che annoiato fa girare una pallina su una roulette portatile e racconta parte delle sue esperienze. Quel film l’ho visto e rivisto centinaia di volte, amo quel personaggio così diverso da me. Io, così poco affascinante e senza storie da raccontare. E non importa se sei bello o brutto, quello che conta è il fascino. Penso che se avessi avuto fascino, la mia vita avrebbe preso una piega diversa, sarei stato meno solo, mi sarei fatto una famiglia e non sarei andato in cerca di chissà cosa. Il fascino ti aiuta nella vita di tutti i giorni, nel lavoro e con le donne, ovviamente. Le donne sono sempre state un problema, per me. Non sono mai riuscito a conquistarle davvero, a far provare loro interesse per la mia persona… forse perché sono timido e insicuro, o forse è colpa del fascino che non ho. Appunto. Più di una forte amicizia non sono mai riuscito a ottenere. Quante donne amiche ho avuto! Poi perdevano la testa per chi non le considerava appieno… e io che cercavo sempre di essere gentile e simpatico!
Mi definisco una persona normale, uno a cui piace passare inosservato. Avrei voluto essere diverso, non mi sono mai piaciuto e mi chiedo ancora cosa vedano in me gli altri, anche se non mi interessa più di tanto. Io seguo la mia strada piena di buche, non preoccupandomi delle sensazioni e dei giudizi altrui. Mi sarebbe piaciuto avere una vita piena di impegni e di cose da fare, piena di interessi, di passioni. Innamorarmi di quegli amori che ci raccontano nei film, illudendoci che esistano realmente e inducendoci a cercare e cercare, sperando che il prossimo sia meglio di quello al nostro fianco, finché ci perdiamo nel vuoto della vita e non ci rimane più niente.
Ho una sola passione: il disegno. L’arte è l’unico mezzo che conosco per comunicare qualcosa che non saprei altrimenti dire. È quella dimensione che mi permette di esprimere un’idea che va al di là del razionale, del concreto, dello scientificamente provato. È qualcosa di magico. Il modo più semplice per rappresentare tutto il tempo che è passato e che non si ferma davanti a niente, lasciandoti nel vuoto. Allora disegno il mare e i gabbiani, una strada solitaria che porta nel nulla o un deserto con un bastone d’anziano nel mezzo. Oppure un molo alla cui estremità, in mezzo al mare, un ragazzo e una ragazza sono abbracciati per l’eternità. Ancora si amano in una cornice da supermercato, appesi nello stanzino di casa mia. In basso a destra leggo la data: 1990. Avevo diciotto anni e una visione tutta diversa di quello che credevo fosse l’amore. Disegno cieli grigi e carichi di nuvole, mossi dal vento, o calmi e lisci, celesti e pieni di primavera, fantastici. I tratti più marcati o più leggeri, a seconda del momento. E ancora i rossi, caldi come le labbra di una donna, i blu intensi e profondi come certe sere d’estate, e tutta una serie di emozioni difficili da descrivere. Più sono andato avanti e più il tratto, il colore, la materia hanno preso il posto della figura, passando dal figurativo al surreale e in ultimo all’astratto, dove la figura non ha più ragione di esistere, bastano il colore e la materia.
Ho ereditato questo talento da mio padre, che era molto bravo a disegnare, e da mio nonno materno, che mi regalò la prima cassetta con i colori a olio. All’inizio non ho fatto niente per alimentarlo. Poi mi sono capitate una serie di circostanze che mi hanno portato ad amare profondamente non solo il disegno, ma anche la pittura. A partire dall’incontro con il mio amico macellaio. La sua macelleria era una galleria d’arte: non ci esponeva solo la carne, ma tutte le sue opere. Sentirlo parlare era qualcosa che non dimenticherò mai, un misto di simpatia e insegnamento di vita. Era una persona buona e saggia. Quando parlava del colore, e di quello che provava quando dipingeva, gli brillavano gli occhi. Mentre scrivo mi rendo conto che non ho più dubbi: è grazie a lui che mi sono appassionato all’arte, a lui che l’amava così tanto e che mi ha trasmesso lo stesso amore e interesse. Tutte le volte che andavo a trovarlo aveva esposto un nuovo quadro; mi raccontava le difficoltà nel realizzarlo, i vari colori che aveva miscelato per creare alcuni effetti. Io ero lì che ascoltavo e imparavo, estasiato da questo nuovo mondo. Non andavo da lui a perdere tempo ma a imparare a vivere, a conoscere i segreti del mestiere d’artista.
Una volta andai da lui in preda all’ansia: dovevo creare un dipinto importante per una persona di cui mi ero innamorato. Un quadro di un metro di larghezza per un metro e venti di altezza dal titolo Non lasciarmi, che sarebbe stato esposto in una galleria del centro di Roma, la mia città. Lui, senza battere ciglio, mi disse: «Perché hai queste insicurezze? Mettiti davanti alla tela e lui ti guiderà!». Io tornai a casa senza esitare e mi misi al lavoro. Ne risultò un’opera fantastica, ne parlò anche un quotidiano. Erano bastate poche parole dette nel modo giusto per cancellare le mie paure. Il mio amico adesso non c’è più. Il suo impegno, l’amore che metteva in ogni sua opera non sono bastati alla vita per risparmiarlo, per riconoscergli quello che avrebbe meritato. La mano che mi ha teso quando ero solo, però, i suoi insegnamenti quasi paterni sono bastati a me per cambiare il modo in cui affronto l’arte e la vita stessa. Dipingo quello che ho dentro per scaricarmi, come fosse una seduta di psicanalisi. Mi violento, soffro perché voglio che l’immagine sia il più chiara possibile. Mentre è dentro di me viene manipolata, elaborata, finché sento che è pronta, matura, e allora la lascio uscire fuori. Questo è quello che faccio, è il mio lavoro e la mia passione.
2.
Avete presente quei periodi nella vita in cui tutto si ferma? Quando sembra di essere sospesi tra l’infinito e l’abisso? Ecco, io in questo periodo mi sento così, sul ciglio di un grattacielo sospeso, aggrappato tra le nuvole e il cielo con sotto il mare. Per decidere se vivere o lasciarmi cadere giù, comincio a guardarmi intorno e mi accorgo di quante persone non ci sono più. È una tragedia, la vita. Prima sono abbastanza sereno. Poi, a tratti, non so neanche io il perché, non ho più voglia di lavorare, di uscire, di amare. Ho una tremenda tristezza che mi pervade e mi fa odiare anche le cose che apprezzavo di più, mi sento tremendamente solo e penso a tutte le persone che amavo e che ho perso. Qualche amico, a cominciare dal mio maestro d’arte, qualche collega di lavoro, qualche parente. So che è naturale, ma non riesco a rassegnarmi al fatto che non facciano più parte della mia vita. A volte credo proprio di non farcela ad andare avanti e non so a cosa attaccarmi per convincermi a non mollare. Un figlio forse mi avrebbe spinto a cercare qualcosa nel futuro, un ideale, uno scopo. Tutte le sue soddisfazioni sarebbero state le mie e tutte le sue conquiste le