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Il vestito rosso della contessa
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Il vestito rosso della contessa

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Siviglia con i suoi tetti bianchi, i suoi nuvoloni carichi di pioggia, i suoi segreti dipinti sulle mattonelle dei giardini arabi. Una città dall’apparenza accattivante e profondamente enigmatica, che fa da sfondo alla vicenda di Alma, una storia di insoddisfazione personale che s’intreccia ai misteri della contessa Frieda Von Hohenfels e alla ricerca della verità.
LanguageItaliano
Release dateJun 25, 2019
ISBN9788893691895
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    Il vestito rosso della contessa - Martina Collu

    978-88-9369-189-5

    Prima parte

    1

    Conosco alla perfezione quest’aeroporto. I suoi terminal, i suoi ristoranti, persino la gente che ci lavora. Ormai ci conosciamo, tanto siamo sempre gli stessi. Da un lato i dipendenti del McDonald’s, di Mister Panino o di Cacio e Pepe, dall’altro i passeggeri diretti al sud o al nord di qualche paese che non li attende, per un motivo o per un altro. Ci siamo tutti e siamo sempre gli stessi, ognuno con le proprie storie, le proprie differenze, ma con qualcosa in comune: nessuno di noi vorrebbe trovarsi in aeroporto in questo preciso istante. Il perché è semplice.

    La cassiera del McDonald’s, quella con gli occhi da pesce e la perenne crocchia moscia, avrebbe preferito qualunque cosa piuttosto che lavorare in un posto dove non fa altro che ripetere meccanicamente i nomi dei panini in molteplici lingue, senza saperne parlare nessuna. Io la vedo dal bancone del McCafé, mentre aspetto con trepidazione che arrivi l’espresso che ho ordinato e pagato già da dieci minuti. Ha le occhiaie più scure stavolta, noto con una punta di esultanza ricordandomi delle mie. Finalmente Frangetta mi porta il caffè e posso allontanarmi verso le coloratissime sedute del Mc. Anche Frangetta non è contenta di trovarsi in aeroporto: ricorda ancora i pranzi e le cene degli scorsi giorni, la nonna e la zia che cucinano, i bambini festanti che si rincorrono attorno al tavolo, il casino di quando si scartano i regali, tutti nello stesso momento, senza capire chi ha regalato cosa. Si è divertita a tornare a casa, Frangetta, lo vedo da quei due brufoli sul mento che tre settimane fa non c’erano. Colpa dei panzerotti della nonna, certo.

    Le mie dita cominciano a tamburellare sul tavolo, il caffè è finito e io non ho neanche una sigaretta. Porca puttana. Perché? Perché mi faccio del male da sola? Proprio oggi, eh? Proprio oggi dovevo ricominciare a fare la brava? Non potevo iniziare da domani? Provo a guardarmi ancora attorno e penso che, tanto, in aeroporto non si può fumare. Ma l’opera di autoconvincimento dura ben poco, perché mi ricordo perfettamente di quella porticina che dà su una minuscola terrazza-fumatori. È proprio di fronte a un negozio di valigie, o di abiti griffati... insomma un negozio, chi se ne frega cosa vendono, io voglio fumare!

    Respiro, inspiro ed espiro, dicono che si fa così per calmarsi. I miei occhi si spostano sui divanetti rossi e gialli alla mia destra. Sì, come pensavo: c’è anche il nerd, quello con le cuffie enormi, pc portatile e smartphone. Sembra fissare lo schermo, forse guarda un film. Anche lui, come me, torna al lavoro in ritardo, perché gli piace farsi attendere in ufficio, tanto sa che senza di lui tutto si ferma, tutto si paralizza, e i suoi colleghi rimangono vittime dei computer, come mosche nella tela di un ragno. Solo lui può salvarli, sì, ma con calma, anche il dieci gennaio può andar bene per tornare a Dublino.

    Un po’ come me quindi, che voglia di tornare a Siviglia proprio non ne ho. Sei fortunata, mi dicono gli amici, almeno lì non fa freddo. Eh sì, rispondo, sono proprio fortunata! Io devo solo prendere due aerei e, dato che gli orari dei voli non coincidono, devo spostarmi in autobus da un aeroporto all’altro e, sempre per non farmi mancare niente, devo attendere altre quattro o cinque ore in questo fantastico aeroporto italiano, o uno francese, o uno belga, sì, persino uno belga, per poter prendere il volo successivo. Ah, ovviamente appena atterro mica prendo il primo autobus... quello è sempre strapieno di gente, di emigrati come me, o di turisti, o peggio, di studenti Erasmus! Quindi mi metto in coda e resto lì per un’altra quarantina di minuti, senza sigarette, perché io ho deciso di smettere e l’ho deciso proprio oggi! Quindi, sì, certo, sono fortunata a essermi trasferita in una città dove per la metà dell’anno è estate e per un terzo è inferno, vero e proprio inferno, che se solo avessi una macchina, non solo mi risparmierei la fatica di prendere l’autobus, ma riuscirei pure a cuocermi due uova sul cruscotto dal caldo che fa.

    E come se non bastasse oggi compio trentacinque anni. Trentacinque anni e neanche una sigaretta. Chi l’avrebbe mai immaginato, tempo fa, quando pedalavo sulla mia bici e portavo ancora l’apparecchio ai denti? Chi l’avrebbe immaginato che dopo i ventitré avrei sempre compiuto gli anni da sola in un aeroporto? Non io, che quando mi sbucciavo le ginocchia pensavo che da grande avrei fatto il medico. O la ballerina. E invece non ho fatto né l’uno né l’altro.

    Sono una nessuno in questo futuro che poco a poco è diventato il mio presente e si fa vivere così lentamente da farmi dimenticare i miei propositi. Piano piano svaniscono tutti, come le luci di quel bar che vedo dal finestrino del mio autobus che diventano confuse, tremolano, si mischiano ad altre e poi svaniscono dal mio occhio miope. È così che è sempre andata con i miei sogni, i miei buoni propositi che poco a poco rimanevano indietro mentre io ero costretta a svoltare l’angolo su un dannato autobus o un fottuto aereo. È così che ho perso l’occasione di diventare un medico, o una ballerina, o qualunque altra cosa. Ora sono un’addetta. Un’addetta alle risorse umane, sì, ma pur sempre un’addetta, e poco cambia se sei l’addetta al catering, l’addetta alla logistica o l’addetta a schiaffare il formaggio e i cetrioli dentro i panini di McDonald’s. Un addetto non si distingue dagli altri, è un numero, uno che occupa uno spazio, più o meno come i personaggi in quel libro di Orwell ambientato nel futuro, ormai il passato, o forse dovrei dire il presente?

    Ma un addetto è molto utile, argomentano i miei amici colti, quelli che hanno studiato giurisprudenza perché papà tanto aveva uno studio di avvocati. Un addetto è utilissimo, scherzi? Come si farebbe se no nelle catene di montaggio? Se manca uno, il lavoro non può continuare, giusto? Sbagliato! Le catene di montaggio non esistono più, stupido ignorante! Gli ingranaggi non esistono più! Ora tutto è fluido, un addetto non è prezioso, un addetto non ha volto, non è insostituibile. Là fuori ce ne sono tanti, tutti pronti a rimpiazzare un altro addetto.

    Scendo dal mio autobus e mi dirigo verso il centro; non importa che sia lunedì, calle Tetuán è sempre popolata da persone di ogni tipo, dagli affamati di saldi - ogni vetrina ha già i suoi cartelloni rossi con su scritto rebajas! - agli affamati veri, quelli che tendono la loro noce di cocco a metà verso gambe indifferenti e troppo veloci per occuparsi di loro. Anch’io passo dritta, ho troppa voglia di mollare questa valigia in un angolo della mia stanza, farmi una birra e andare a dormire, che domani lavoro, o meglio, mi addico. Insomma, anch’io, come tutti, predico bene e razzolo male, e non c’è da stupirsi: ho trentacinque anni e sto cercando di smettere di fumare.

    Sto cercando di smettere, perché o le sigarette o l’affitto. O meglio, ho smesso diverse volte ma poi ricomincio, quindi è una continua sofferenza, come quando un amante ti lascia e poi ti riprende e poi ti molla di nuovo e poi ti dice che vuole solo scopare. E tu ci stai, è quello il brutto.

     Finalmente trovo le chiavi e apro il portoncino, attraverso il patio facendo un rumore infernale con le ruote della valigia, poi apro l’altro portone e mi infilo nell’androne, pronta per le mie quattro rampe di scale, perché a Siviglia gli ascensori o non esistono, o sono guasti. Non appena arrivo in cima appoggio di nuovo la valigia e mi siedo sull’ultimo gradino che ho fatto, la testa tra le mani, per riprendere fiato. Se smetto, forse anche il mio respiro tornerà normale un giorno.

    Già da fuori sento la voce squillante e nasale di Irene, el Quique dev’essere ancora lì. Guardo l’orologio ma non mi stupisco, non è così tardi, e anche se lo fosse per Quique non sarebbe un motivo sufficiente per levare le tende e recarsi nuovamente al domicilio materno, que ya es hora.

    Mi faccio coraggio e mi avvicino alla porta - sto respirando, quindi sono ancora viva - giro la chiave e una folata di fritto mi dà il benvenuto, ma solo quella. Irene e Quique stanno discutendo, come sempre. Lui sul divano a gambe larghe, la mano destra stringe il telecomando come se fosse un trofeo ottenuto dopo tanto sudore e sacrificio, lei in piedi, quasi di fronte a lui ma un po’ di sbieco, nella posizione perfetta per non coprire lo schermo della tv. Si agita, ha i capelli arruffati e un orrendo maglione rosa sbiadito, come la sua pelle.

    Mollo la valigia accanto alla porta e mi fiondo a cercare una birra in frigo, per fortuna me ne hanno lasciata qualcuna. La apro e mi siedo al tavolo instabile della cucina a sorseggiarla, mentre calcolo svogliatamente quanto tempo passa prima che si decidano a salutarmi. Non stanno davvero litigando, è una delle solite ore d’aria di Irene, quelle in cui dà aria alla bocca e riversa tutta la sua esasperazione sul ragazzo. Quique si accorge che li guardo annoiata e solleva una mano a mo’ di saluto, questo è il massimo dello sforzo per un uomo come lui. Anche lui ha i capelli arruffati e la maglia sgualcita, oserei ipotizzare che non si sono alzati da molto dalla siesta. Giusto il tempo di friggere qualcosa e rendere l’aria irrespirabile.

    Poi lei si volta, mi guarda velocemente e torna con gli occhi sul suo ragazzo, incrociando le braccia. Questa è l’ultima volta che glielo dice, lo avverte. Mi guarda di nuovo, un po’ di profilo.

    «Sei tornata?» mi fa.

    «No, sono ancora in Italia, è il mio ologramma che ti parla.»

    Non risponde e si volta di nuovo verso el Quique. Forse non sa cosa sia un ologramma. Gli dice che ora va a letto e che lui deve tornare a casa sua perché è una questione di principio, dice, ma ignoro di quale principio parli. Lui si volta verso di me agitando il pacchetto di sigarette con la sinistra e abbozzando un mezzo sorriso, è chiaro che della ramanzina non gliene frega niente. Lei fa finta di non accorgersi, o forse non si accorge davvero che il ragazzo la sta ignorando, e si rivolge a me.

    «Devi farmi un favore...» mi dice.

    «Domani» le rispondo. «Ora sono stanca.»

    Lei attraversa il soggiorno per andare a prendere qualcosa sul mobiletto della tv, una penna e un foglio di carta. Mi si avvicina e me li mette entrambi davanti al naso, sul tavolo.

    «Scrivimi come arrivare a questo indirizzo» ordina.

    Io sollevo un sopracciglio, chiedendomi quale parte tra domani e ora sono stanca non ha capito. Lei continua a guardarmi e ad aspettarsi che impugni la penna e le scriva su due piedi che percorso deve fare, come se improvvisamente io sia diventata la sua serva o il Tuttocittà grazie a chissà quale incantesimo.

    «Il per favore l’hai usato per condire le patate fritte?» le chiedo.

    «Per favore, Alma... dai, che ti costa?»

    «Domani, ho detto.»

    Lei mi guarda interdetta mentre abbandono la stanza per andare a dormire. Trascino rumorosamente la valigia dietro di me e scompaio dentro il buio del corridoio. Sbatto la porta e i vetri tremano.

    2

    Ogni volta che provo a dipingere i tratti di Siviglia per spiegarla a chi non la conosce, mi trovo in estrema difficoltà, come se di punto in bianco dimenticassi la mia lingua. Nella mia testa l’immagine dei suoi tetti bianchi e degli azulejos[1] è nitida, ma improvvisamente non conosco più le parole per descriverla, perché al contrario di quanto amino pavoneggiarsi i sivigliani, non basta dire che Siviglia tiene un color especial. Quale sarebbe, poi? Il blu delle mattonelline dipinte a mano o il bianco delle innumerevoli case tutte uguali? O forse il nero, il rosso, l’arancio e il viola dei suoi nuvoloni carichi d’acqua al tramonto? No, Siviglia non è solo un colore, è tanti, troppi colori.

    Questa città non ha un solo volto, non basta un solo nome, e neanche quello di tutte le persone che a Siviglia ci sono nate e cresciute, o di quelle che ci hanno passato un fugace weekend, perché Madrid e Barcellona sono mete più succulente per gli avidi turisti acchiappa-selfie. Non è sufficiente viverci un anno per poter dire di conoscerla. Quanto si conosce una persona dopo un anno? Poco, molto poco, se si considera quanti giorni su trecentosessantacinque si trascorrono davvero con quella persona. Quanto si conosce una città dopo nove mesi di Erasmus? Poco e niente, direi. Non parli la lingua del posto perché attorno a te esistono solo altri studenti Erasmus che, nella migliore delle ipotesi sono tedeschi, francesi, polacchi e quindi sei obbligata a parlare inglese - che tutti tranne spagnoli e italiani conoscono - e nella peggiore delle ipotesi sono compatrioti, quindi sforzo linguistico pari a zero. Gli autoctoni, poi, neanche sai chi siano, o come facciano a capirsi tra di loro, visto che la lingua in cui si esprimono è fondamentalmente diversa da quella che ti hanno insegnato al corsetto pre-partenza organizzato dai pochi universitari che davvero si occupano di altri universitari.

    Il mio anno Erasmus andò più o meno così, di terrazza in terrazza e di festa in festa, con gente bellissima che proviene da ogni parte del mondo e poche, pochissime lezioni universitarie. Non era colpa mia, la birra era troppo economica per lasciarla dov’era e finire a letto con qualcuno di cui poi non ti ricordavi il nome finalmente non era più un peccato mortale. Frequentare le lezioni era semplicemente impossibile, intendo dire da sveglia, con la mente oltre che con il corpo.

    Durante il mio anno Erasmus non imparai nulla, se non a come spendere, scialacquare, dare al vento i miei risparmi in tempo record, e non mi preoccupai di capire la lingua, tanto c’era l’inglese. Tornai a casa convinta che Siviglia fosse la città perfetta, tutta gioie, feste, attenzioni, tutte cose possibili. Ero davvero sicura di essermi innamorata di Siviglia, che mi piacesse veramente. Ma non la conoscevo affatto.

    Quando tornai a viverci, ormai diversi anni fa, fu come vedere per la prima volta qualcuno con cui si è intrapresa un’amicizia virtuale ma che non si è mai incontrato. Il primo impatto fu traumatico, come se in realtà non ci fossi mai stata prima: non ricordavo più che strada dovessi fare per raggiungere un posto, i locali che frequentavo non esistevano più, ma soprattutto non c’era più nessuno che conoscessi. Ora dovevo davvero affrontare la lingua, farci a pugni giorno e notte, a casa mia e fuori casa, perché quello che ci insegnano non è lo spagnolo nella sua varietà andalusa. Parole contratte, tronche, smozzicate, nessuna -s dove serve, nessun tentativo di rallentare la parlata con uno straniero. Adesso non ero più una Erasmus, ero un’immigrata. Avevo perso improvvisamente tutto il mio fascino, tutte le mie doti erano diventate semplicemente caratteristiche prive di interesse, perché tanto di italiani è pieno il mondo e a Siviglia ce ne sono fin troppi.

    Iniziai a sentirmi ignorata dagli autoctoni, ma soprattutto schiacciata dal peso della responsabilità. La responsabilità di aver rubato il posto di lavoro a uno spagnolo, a un andaluso, il più grave dei peccati per i sivigliani.

    Sentii subito una differenza abissale con le altre città dove avevo già vissuto. Se da un lato Londra e Parigi ti fanno sentire invisibile e microscopica, quindi irraggiungibile e inattaccabile dai giudizi, dall’altro lato Siviglia ti isola, ti accerchia e mette a nudo le tue difficoltà, puntualizza le differenze, erige un muro tra te e lei. Non fai in tempo ad aprire bocca che quando solo osi chiedere perché, ti viene rinfacciato che qui noi le cose le facciamo così.

    Sono patriottici a Siviglia, sono gente del sur, sono calorosi... in tutti i sensi possibili e concessi dai dizionari. Lo sa bene el Quique, che quando gioca il Barcellona FC al Sánchez Pizjuan esce di casa ore prima dell’inizio della partita solo per sfidare con occhio truce i sivigliani aventi il coraggio di non tifare per il Siviglia. Per non parlare del derby Siviglia-Betis. Esce di casa la mattina presto, Irene non lo sente per tutto il giorno, e la mattina dopo torna con la faccia tutta ammaccata dalle botte e sbronzo da far paura anche ai due Erasmus che vivono con noi.

    Ma Siviglia non è solo alcol, calcio e studenti Erasmus. Per me il suo fascino consiste nell’arte e lo dico da inesperta del settore. Non sono mai andata al Museo de Bellas Artes nonostante tutti, anche gli Erasmus, tendano a volermi convincere che sia un sacrilegio. Non sono un’intenditrice, ma l’arte e l’architettura andalusa e, di Siviglia in particolare, risente chiaramente e magistralmente delle più svariate influenze subite durante secoli di invasioni. Mi sorpresi quando mi accorsi che questa città è ben poco romana e molto più araba.

    Continuo a notarlo ancora oggi, quando esco dall’ufficio alle tre del pomeriggio, a stomaco rigorosamente vuoto, e attraverso come una regina sulle strisce pedonali per prendere l’autobus che mi riporta in centro. Gli archi a ferro di cavallo delle finestre degli edifici più antichi, gli azulejos colorati sulle cupole di chiese costruite sopra vecchie moschee, persino i tratti schivi e gli occhi scuri - scurissimi - delle persone mi fanno pensare a quanto il cuore di Siviglia pulsi di sangue arabo.

    Trenta minuti dopo sono di nuovo in calle Tetuán, a cercare di difendermi dalle spallate, dai colpi di buste cariche di calzature e indumenti, e dagli sfacciatissimi e coraggiosi volontari dell’Unicef che ogni giorno tentano di agganciare proprio una persona come me. Ma dico, non gli bastano le mie occhiaie, il pallore sul viso e gli stracci che indosso per capire che no tengo un duro, che non c’ho una lira?

    Svolto all’angolo con una profumeria e cento metri dopo sono di nuovo nel mio condominio a cercare di arrivare viva al quarto piano. Sono le quattro meno un quarto e addento il primo boccone di un tramezzino che Kiwi ha appena preparato per sé e anche se dentro c’è il prosciutto cotto me lo godo come se fosse l’ultimo sul pianeta. Kiwi mi guarda e sorride, gli occhi castani sono gonfi di sonno, il bastardo si deve essere appena alzato dal letto. Chissà a che ora è tornato stamattina.

    «Fatto baldoria?» gli chiedo in inglese.

    «Ha due tette così...» mi risponde, facendo un gesto come se avesse entrambi i palmi pieni di qualcosa.

    «Ah! E io che pensavo fossi a Itálica a studiare i marmi...»

    Kiwi è il mio coinquilino neozelandese che è qui per scrivere una tesi dottorale sui marmi di Itálica; è un ragazzaccio di ventisei anni con i capelli lunghi sempre raccolti in una crocchia alta e rasati ai lati e due spalle enormi. Ha i tratti orientali perché ha origini maori, gli occhi a fessura, scuri, sono il suo bello. Dico ragazzaccio perché la sua corporatura lo fa somigliare tanto a uno degli All Blacks, i rugbisti. Lo chiamo Kiwi perché il suo nome intero è impronunciabile e a lui sta bene così.

    Dopo avermi deliziato con il racconto sulle tette della fortunata di ieri notte, ride e mi dice che Irene mi ha cercato tutto il giorno. Proprio in quel momento, come se qualcuno l’avesse chiamata a mia insaputa, la nostra coinquilina fa irruzione in cucina dalla sua camera, il cappotto già sulle spalle e l’ombrello in mano anche se fuori non piove.

    «Andiamo» mi fa, tirandomi per un braccio.

    «Frena, sono appena rientrata e non vado da nessuna parte» le dico, staccandomi di dosso quelle ditina sottili e bianche.

    Lei mi guarda come se fossi venuta meno a un accordo importantissimo, gli occhi castani mi studiano per diversi secondi prima di accusarmi. Stringe le labbra dalla rabbia, che esagerata, ma poi penso che in lei è normale questo atteggiamento infantile.

    Improvvisamente, si accascia su una sedia all’altro lato del tavolo, la borsa le scivola dalla spalla su un braccio e poi la appoggia con noncuranza sul pavimento. Abbandona la testa su una mano e sbuffa.

    «Vi sembra normale che mi chieda di incontrarci alle cinque?» parla al plurale, anche se Kiwi non capisce un’acca di spagnolo.

    «Chi?» le chiedo.

    «Lei... la mia cliente! Dico, vi sembra normale? Alle cinque! Non lo sa che è l’ora della siesta?»

    Irene Guerrero incarna tutti gli stereotipi sugli spagnoli, proprio tutti, anche quelli che sto cercando di dimenticare con tanta fatica e che mi vengono quotidianamente ricordati.

    «Il lavoro è lavoro, Irene. Io ho passato la giornata in aeroporto ieri, eppure oggi ero in ufficio» la rimprovero da brava lavoratrice trentacinquenne.

    «Sì, ma tu... ce la fai, io no.»

    Sbatto le ciglia lentamente, cercando di mostrarle il mio totale menefreghismo sulla questione. È incredibile, questa ragazza è capace di innervosirmi con qualunque parola proferisca.

    «Dai, allora mi accompagni?» mi chiede, alzandosi di nuovo in piedi.

    «Dove? Dalla tua cliente? Ma non ci penso nemmeno!»

    «Alma, non fare la stupida... me lo devi!»

    Mi lascio andare a una risata che suscita anche l’ilarità di Kiwi, che per poco non si affoga con il suo terzo tramezzino al prosciutto cotto.

    «Stai scherzando, vero?»

    «No, non sto scherzando... non mi hai scritto il percorso che devo fare e poi...»

    Ammutolisce e mi guarda con occhi da gatta, con un dito disegna qualcosa di invisibile sul tavolo.

    «E poi, cosa?»

    «Tu accompagnami, dai.»

    «Senti, esiste un’applicazione per il telefono che ti dice esattamente il percorso che...»

    «Non ci capisco niente con queste mappe io! E poi quella donna mi mette a disagio, ecco.»

    «Mi ruba il mestiere quindi.»

    «Tu non mi metti a disagio, Alma.»

    «Peccato.»

    Mi volta le spalle e va a prendere la mia giacca di pelle dall’attaccapanni.

    «Vuoi anche la sciarpa?» mi chiede, vedendo che mi sto alzando dalla sedia per andare con lei.

    3

    Scendiamo dall’autobus in avenida de la Palmera e subito ci rendiamo conto che cercare la villa bianca in stile coloniale su questo viale è come cercare una strada ciottolata a Roma. Le ville sono tutte meravigliose, mi fanno pensare alle dame di altri tempi, al loro portamento elegante, agli abiti sontuosi di un’epoca lontana che non mi sarebbe dispiaciuto conoscere. Non vengo quasi mai in questa zona, non ci abita nessuno dei miei conoscenti e dall’aria disorientata di Irene deduco che non le è per niente familiare. Strano, penso, quando mi dice che il piccolo studio di commercialisti della sua famiglia, per il quale anche lei ha recentemente iniziato a lavorare, ha tra le mani il bilancio di una delle aziende vinicole più conosciute in Andalusia, la Bodegas El Rojo. Non sono una patita per i nomi illustri, ma i Medina so chi sono, cioè so chi è lui, anzi chi era. Irene mi informa che don Fernando Medina Navarro è morto da un anno ormai e che recentemente sono scomparsi anche il vecchio commercialista e il figlio della vedova. Come scomparsi? Faccio io. Scomparsi, scomparsi. Nel senso che nessuno ha più notizie, nessuno sa dove siano, volatilizzati dall’oggi al domani.

    «Irene, non starai esagerando con questa storia della sparizione?» le chiedo, sollevando gli occhiali da sole sui miei occhi poco abituati a questa dannata luce spagnola.

    «Non esagero, Alma» mi dice con tono apocalittico, invitandomi silenziosamente a chiederle di più.

    «Avanti, raccontami cos’è successo.»

    Il mio cedere è la sua gioia. Si ravvia i capelli e con slancio comincia a raccontarmi la storia della vedova Medina.

    «Il marito è morto di cancro l’anno scorso» inizia, toccandomi il braccio, «ma il commercialista è scomparso circa un mese fa, forse di più, e di suo figlio non si sa niente da tre settimane.»

    «Proprio quando me ne vado io succede qualcosa di interessante in questa città...»

    «Puoi immaginare quando mio padre ha ricevuto la chiamata dell’assistente della signora Medina! È diventato tutto rosso dall’emozione!»

    «Immagino...»

    «Secondo me non è una coincidenza...»

    «Che una vedova ricca affidi la contabilità a uno studio di commercialisti?»

    «No, scema! Voglio dire che non è una coincidenza che prima sparisca il commercialista e poi il figlio della signora... tu cosa pensi?»

    «Io penso che se non la pianti di dire cazzate sarai la prossima commercialista a sparire.»

    Alza gli occhi al cielo, lo vedo anche da dietro i suoi occhiali da sole che le scendono sulla punta del naso. Mi accenderei volentieri una sigaretta, se non altro mi aiuterebbe a sopportare Irene e i suoi voli pindarici, le sue barzellette che non fanno ridere, i suoi racconti che iniziano e non finiscono mai. La sua storia fa mille capriole, poi si allunga di nuovo, poi si contrae, non ha mai fine, c’è sempre un modo per farla continuare, c’è sempre un protagonista che si aggiunge. A volte sono le unghie e le innovative tecniche per smaltarle, a volte un brufolo inaspettato, anche i capelli hanno il loro ruolo, le scarpe, il suo smartphone! quasi me lo dimenticavo, i suoi litigi con Quique, le critiche alla mamma di Quique, le blatte, e le cacche dei piccioni sul davanzale del nostro balconcino.

    È una ragazza alta, una vera e propria spilungona con le ossa lunghissime e strette, e quindi anche curve, almeno quelle della schiena. Si veste quasi sempre con colori chiari che accentuano il suo pallore. Ha la pelle chiarissima infatti e anche i capelli sono chiari, anche se non li definirei proprio biondi, a parte le ciocche che si fa fare dalla parrucchiera. Fisicamente, e solo fisicamente, non sembra una spagnola, ma qui mi perdo in uno stereotipo. Ha trent’anni e aiuta i familiari nello studio di commercialisti di proprietà del padre. Non è una commercialista, non è laureata, ma ha la fortuna di avere comunque le spalle coperte. Sta insieme a Enrique, detto El Quique, da qualche anno, ho perso il conto ormai, e ha la pretesa di volerlo cambiare, come tutte le donne di questo mondo, che ancora non hanno capito che gli uomini o te li prendi così come sono, o li molli, che tanto cambiar loro i connotati è pressoché impossibile.

    El Quique lavora come magazziniere nei supermercati, almeno finché dura, perché il più delle volte viene beccato a fumare nel reparto alimentari, così, mentre sistema una bottiglia di ketchup o una confezione di ceci. Irene non fuma e sta cercando di farlo smettere, ma il tentativo è esclusivamente suo. Una volta ha provato a buttare nel gabinetto il mio pacchetto di sigarette... è inutile raccontare cosa le è successo dopo, credo che abbia ancora gli incubi la notte.

    Quique ha trentatré anni e vive ancora con la madre, ma passa la maggior parte del tempo da noi a giocare a qualche videogioco con Pawel e Klaus, i nostri due Erasmus, e a guardare la tv. Kiwi, invece, non c’è mai. È sempre a Santiponce, a studiare, lavare, infiocchettare i reperti del sito archeologico di Itálica. Che ne so cosa fa realmente, sta ore e ore lì, sotto il sole o sotto la pioggia, che avranno di tanto interessante quei marmi?

    Sembra che siamo arrivate: davanti a noi si erge in tutta la sua decadente bellezza una villa in stile coloniale, bianca con decorazioni in ocra e un giardinetto sul davanti. Su un angolo si staglia una palma giovane, non altissima ma ben curata. Gli archi a ferro di cavallo sono onnipresenti, ce n’è uno a ogni finestra tranne due sui lati e una al secondo piano, dove una bella terrazza si apre gloriosa e le colonnine della balaustra nascondono appena le due sculture agli angoli.

    Il cancelletto basso è aperto, non ci sono cani, mi fa notare Irene, che ne ha una paura folle, e camminiamo verso l’ingresso superando i quattro gradini che portano a un piccolo pianerottolo coperto. Suoniamo il campanello e viene ad aprirci una signora bassottina sulla sessantina, chiaramente sudamericana. Ci fa attraversare la casa, prima un’ampia entrata, poi un soggiornino che dà al giardino, ben illuminato perché le tende chiare lasciano passare la luce dall’esterno, poi ancora un lungo andito e infine un grande salone, questa volta con tonalità più scure. Tutto sembra essere di legno di una qualità pregiata, probabilmente mogano, dalle enormi librerie che vedo su due lati della stanza, alla credenza sulla parete in fondo alla sala, dentro la quale le vetrine sembrano celare l’argenteria. Dietro le grosse tende scure a pacchetto intuisco ampie finestre, alla cui sinistra e sulla parete opposta le librerie traboccano di titoli. La governante ci fa accomodare sul divano in pelle marrone a tre posti al centro della sala, spalle alle tende, e mi chiedo che motivo ci sia per tenerle chiuse e sprecare energia elettrica. La luce infatti arriva da un grazioso lampadario in ferro battuto le cui cinque lampade hanno forma di fiore.

    Irene è in ansia, la vedo cambiare continuamente posizione, mentre cerca di riordinare le carte dentro un fascicolo che dovrà presentare alla cliente. Si aggiusta i capelli dietro le orecchie, poi si mette a giocare con la perla dell’orecchino finché non decide di aprirsi il cappotto. Sta sudando, il suo viso è accaldato. Finalmente un

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