Sette: #risveglialamore
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Book preview
Sette - Marco Rispoli
VII
Ringraziamenti
SETTE
#Risvegliamolamore
di Marco Rispoli
Ringrazio di cuore:
Federica Morrone scrittrice
Guido de Giudice scrittore e studioso di Giordano Bruno
Ivano Malcotti poeta, paroliere, regista e autore teatrale
Frate Alberto Maggi biblista
Walimohammad Atai mediatore culturale
Prefazione
Leggere Sette equivale a compiere un viaggio necessario, dentro e fuori di noi.
Nelle pagine conosciamo luoghi e persone, povertà e disagio, determinazione e riscatto, alimentiamo la speranza, andiamo oltre il tempo e lo spazio; per poi ritrovarci nel profondo di noi stessi.
I temi trattati sono quelli universali, così come i quesiti che aleggiano ovunque. E quell'indagare oltre l’apparenza è già un cominciare a sfiorare le risposte.
I grandi nemici del risveglio sono l’indifferenza, l’accettazione passiva della dittatura mediatica e dei consumi, il delegare ad altri dimenticando che ciascuno di noi è protagonista della propria vita, e che rivoluzionarla in positivo è un atto di volontà.
Marco Rispoli è riuscito in questo romanzo, raccontando la storia di un ragazzo, Luca, - che somiglia a molti altri, che non ha nulla di speciale che lo contraddistingua se non un’incantevole sensibilità -, a toccare la coscienza di ciascuno di noi.
Attraverso un naturale e immediato processo di immedesimazione, riga dopo riga impariamo a cercare il timone della nostra barca e a navigare anche oltre l’orizzonte.
Può non bastare? Il rischio di perdersi è comunque determinato dalle correnti avverse, dal ritmo cangiante delle onde, dalla distrazione?
Certo. Eppure non rinunciamo al viaggio!
Luca, non solo ci rappresenta, in qualche modo ci indica la strada per resistere all'alienazione, in un momento storico in cui sembra sempre più difficile restare esseri umani .
Federica Morrone
" O gni uomo è schiavo della necessità, ma lo schiavo cosciente è molto superiore."
Simone Weil - Quaderni
" Non era stupido, era semplicemente senza idee […]. Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee, possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell'uomo"
Hannah Arendt - La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme
I rrora la terra con le lacrime della tua felicità e amale, quelle tue lacrime. Non provare vergogna per questa estasi: abbine cura, giacché è un dono divino, un grande dono, che non a molti è concesso, solo agli eletti.
Fëdor Dostoevskij - I Fratelli Karamazov
Un uomo solo, che grida il suo no, è un pazzo, milioni di uomini che gridano lo stesso no, avrebbero la possibilità di cambiare veramente il mondo.
G.Gaber Mi Fa Male Il Mondo [seconda parte] (canzone-prosa) - 1995/1996
" Quando qualcuno mi chiede del mio papà mi sento male, ma tanto male che mi viene da piangere. Mio papà fu ucciso dall'imam e dai talebani con l'aiuto della gente del villaggio perché aveva una visione aperta della vita e aiutava le persone. Mio papà era un medico."
Atai Walimohammad Mediatore culturale
Introduzione
Ero assopito in uno stato di coscienza leggero mentre il tempo plasmava il mio corpo dolcemente.
Quel continuo e forte battito: tu tum…tu tum…tu tum, mi accompagnava da quando ero nato.
Altri suoni sentivo, ovattati, piacevoli, intimi.
Cullavo in una bolla d’acqua che percepivo come senso completo della mia esistenza.
Ma un giorno arrivò la morte. Il corpo crebbe, la sacca contenente il liquido scoppiò e una forte luce, come non avevo mai visto, apparse alla fine del tunnel. Alla visione di quel bianco lucente cominciai a muovermi spontaneamente, girandomi su me stesso come se fosse una danza della quale conoscevo i passi, erano movimenti spontanei e istintivi, posizionai la testa verso la luce e con l’aiuto delle gambe mi spinsi. Che forte dolore provavo, tutto intorno divenne molto stretto, temevo che la pressione potesse frantumare la mia testa. La vita lieve e serena era ormai finita, come se all’improvviso il mondo che mi accolse in grembo per così tanto tempo non mi sopportasse più, consegnandomi alla morte che era proprio lì, alla fine del tunnel. I polmoni iniziarono a contrarsi. Una ultima spinta e tutto divenne enorme. Sentii il bisogno di respirare ma non sapevo come fare, persi i sensi, pensai di essere morto, invece mi risvegliai circondato da visi sorridenti.
Ero rinato.
CAPITOLO I
Anziché fare il solito percorso per le vie del centro che mi avrebbero fatto arrivare a casa in pochi minuti, quel giorno, dopo essere uscito da scuola, presi una strada più lunga. Era una piacevole tiepida giornata di fine inverno e come un animale dopo il letargo respiravo l’aria fresca per le strade del borgo. Comprai una bottiglietta d’acqua e una focaccia dal panettiere, ne andavo ghiotto. Occupai una panchina di fronte a un piccolo parco, vicino alle case popolari, in modo da poter guardare i ragazzi giocare al pallone mentre mi abbuffavo della focaccia ancora calda. Fare un giro nei sobborghi era come viaggiare in terre lontane, oltre ai tratti del viso e al colore della pelle delle persone, cambiavano anche i colori e gli odori. I profumi esotici delle spezie e le tinte strillanti dei murales indicavano l’inizio di un territorio che non conoscevo. Nonostante il divieto di mia madre, esplorare a soli tredici anni un ambiente tanto diverso da quello in cui ero cresciuto, era un’avventura irrinunciabile.
Venivo da una famiglia tradizionale, mio padre avvocato e mia madre oltre a occuparsi delle faccende di casa, aiutava il parroco. Abitavamo in un piccolo paese del centro Italia. Mario, mio papà, era rispettoso e interessato ad ascoltare chiunque avesse una opinione diversa, asseriva che il confronto era uno strumento necessario per poter crescere. Credeva in Dio ma poco nelle religioni. Quando mi sfidava alla playstation perdeva sempre, si arrabbiava un po’ anche se cercava di non farlo notare. A volte lo lasciavo vincere, ma quando se ne accorgeva, s’irritava ancora di più. Lavorava molto per garantire lo stile di vita che avevamo, ma non si lamentava. Non l’avevo mai visto adirarsi, era pacato nei modi e nel tono ma sapeva anche essere ironico, gli insegnai il gergo usato da noi ragazzi, si rivolgeva a me come se fossimo amici della stessa età, ci divertivamo insieme.
Mia mamma era molto religiosa, cattolica e intollerante verso quelli che non lo erano. Andava in parrocchia tutti i giorni per dare sostegno al Don rimasto senza la perpetua. Lo aiutava nelle faccende di casa e gli portava qualcosa di pronto per cena. Era difficile dialogare con lei, al contrario di papà non ascoltava nessuno. Neanche il parroco riusciva a farla ragionare: una domenica fece una omelia parafrasando il Vangelo sull’importanza di ascoltare e confrontarsi con gli altri. La fissò per tutto il tempo. Ma finita la funzione, commentò che il Don la guardava perché era sempre disponibile verso chiunque e per questo la indicava come esempio per la comunità. Il contrario era ovvio a tutti. Intransigente e categorica nelle parole ma docile nei fatti. Se facevo qualcosa fuori dalle regole, mi puniva mandandomi in camera. A volte mi toglieva il telefono con l’intenzione di privarmene per almeno una settimana, ma poi, vedendomi triste, me lo restituiva il giorno dopo. Le piaceva fare la dura ma era tanto dolce. Li amavo entrambi, davvero tanto.
Finita la focaccia mi incamminai verso casa. Stava diventando buio, così per non preoccupare mia madre decisi di tornare a passo spedito. Presi un piccolo vicolo che accorciava il percorso quando sentii una mano afferrare la mia spalla.
«Ciao Luca, sono Asdlà, tu non mi conosci ma io conosco te.»
Mi spaventai, era un uomo alto e forte, aveva più o meno trent’ anni. Portava i capelli raccolti con un codino e la barba lunga, non molto curata. Gli occhi grandi erano dolci e sorridenti, la sclera che incorniciava la grande iride blu tendeva all’azzurro come quella dei bambini, rendendolo inoffensivo. Indossava una camicia e un paio di pantaloni color crema, oltre una lunga sciarpa di seta rossa che aveva al collo.
«Cosa vuoi da me? Devo tornare a casa, si sta facendo buio, se mia mamma non mi vede arrivare al solito orario telefona spaventata e mi sgrida» gli dissi cercando di fuggire.
«Non torni a casa, vieni con me! devo farti conoscere una persona». Le intransigenti parole incutevano paura, anche se il tono dolce e pacato ispirava fiducia.
«Se mi rifiutassi di venire cosa succederebbe?»
«Non temere, non ho intenzione di farti del male. Ti garantisco che vivrai una esperienza incredibile» disse afferrandomi per un braccio.
Era impossibile fuggire, non avevo scelta, dovevo andare con lui.
Entrammo nel retrobottega di un ristorante. Camminavamo lungo un corridoio quando un rumore improvviso, come se la corrente d’aria avesse chiuso con violenza una porta, mi fece tremare le gambe. Divenne buio e mi dovetti orientare con il rumore dei suoi passi. D’improvviso Asdlà aprì una porta e fummo catapultati magicamente nel mezzo di una tempesta. Il forte vento sollevava la sabbia finissima, usai un lembo della maglietta e lo misi davanti alla bocca. Respirare senza una protezione, sarebbe stato impossibile. Il sole filtrato era un tenue punto rosso crepuscolare. Alternavo l’altra mano da un orecchio all’altro cercando di proteggerli, ogni granello che li colpiva diventava una morso lacerante provocando un dolore terribile. Ero obbligato a tenere gli occhi socchiusi, accucciato, rannicchiato in posizione fetale aspettando che finisse. Diversamente, Asdlà rimase in piedi, indossava degli occhiali rotondi con le guarnizione laterali in cuoio che gli proteggevano gli occhi e usava la sciarpa per coprirsi il volto. Stava guardando in un punto ben preciso, probabilmente cercava di scorgere qualcosa. Il vento non lo preoccupava, mi chiedevo come potesse resistere a quelle forti raffiche e al dolore che la sabbia provocava.
Probabilmente mi hanno drogato
Pensai. Era inverosimile che mi trovassi davvero in una tempesta di sabbia con quel tizio strano.
Il vento si fermò bruscamente, i granelli di sabbia, che volavano con forza spinti da quella terribile tempesta, caddero all’improvviso; sembravano piccoli fiocchi di neve rossi, si posavano leggiadri sul suolo per poi sparire magicamente. Il cielo divenne terso e in quel momento percepii che ero in un posto ben diverso da dove mi trovavo prima. Forse in una città del Sud America o dell’Africa. Le case di mattoni rossi, costruite disordinatamente in un terreno avvallato molto esteso, si arrampicavano e sembravano rimanere in piedi per miracolo. Le finestre, dei buchi quadrati senza infissi, erano chiuse da tende improvvisate. Ovunque guardassi vedevo fili sospesi, cavi di energia elettrica, del telefono e della di tv che si intrecciavano seguendo i tralicci di legno che li sostenevano. Sembravano delle vene che alimentavano disordinatamente quell’esteso villaggio. Una infinità di scale contornavano le abitazioni. Alcune case erano più rifinite, altre improvvisate erano addirittura baracche chiuse con dei cartoni e travi di legno. Non sapevo come entrasse l’acqua ma vedevo come usciva; le fogne erano a cielo aperto. Era un grandissimo