Tutte le cose che amo di Te
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Tutte le cose che amo di Te - Daniela Palumbo
me
Capitolo 1
La sveglia che suona la mattina alle cinque, per quel che mi riguarda, può entrare di diritto tra le piaghe d’Egitto.
Per quanto sia una cosa che ormai faccio da diversi anni, quella di svegliarmi presto, ancora non riesco a darmi una ragione valida per alzami con entusiasmo.
L’unica giornata che può considerarsi tra le amate senza possibilità di replica è, senza dubbio, la domenica.
Oggi non è domenica.
Contro ogni logica e buon senso, mi alzo e vado per prima cosa in cucina.
Ora, andare in cucina nella mia casa significa fare dieci passi dal letto all’angolo cottura.
Vivo in un monolocale.
Avrei potuto, di certo, prendere un bilocale ma l’attività che svolgo per vivere mi tiene impegnata così tanto che il pensiero di rientrare in casa e pulire è uno strazio.
Ecco perché la scelta del monolocale, meno superfici da ripulire. La mia piccola babele dove regna sovrano il caos.
La mia attività è stancante, onerosa, avvilente. Ma l’ho scelta io, non posso punire nessuno per questo. Ma poi un lavoro si sceglie davvero?
Al mio diploma sono stata investita da una serie di domande riguardanti il mio futuro. A diciotto anni non sapevo nemmeno cosa volessi mangiare a pranzo figuriamoci capire cosa fare per il resto della vita, impossibile.
Lavoro al panificio Cantarella, ovvero, il panificio dei miei genitori, situato in via Neve a Catania.
Il lavoro presso il panificio è iniziato per caso. L’estate che ha sancito la fine degli studi è stata eccitante, quando vivi in una città come Catania non hai bisogno di spostarti per trovare il mare o la montagna, è fornita per ogni evenienza. In un battito di ciglia è arrivato settembre e mi sono ritrovata ancora più confusa di prima. Le mie amiche parevano sapere cosa fare, c’è chi si è iscritta all’università, chi si è trasferita al nord, chi si è sposata giovane e piena di sogni, e poi c’ero io che non sapevo scegliere tra il ghiacciolo al limone e quello alla fragola. Ho iniziato dando una mano al panificio per non restare con le mani in mano, mi sono ritrovata dodici anni dopo con la consapevolezza che ormai era il mio mestiere a tutti gli effetti.
Mio padre Pietro Cantarella e mia madre Caterina Licciardello hanno acquistato più di trent’anni fa questo grazioso panificio, che in principio apparteneva a un canuto signore della zona, venuto a mancare pochi anni dopo.
Mio fratello Biagio lavora con noi, mentre mio fratello Alfio fa l’infermiere all’Ospedale Cannizzaro.
Siamo una famiglia molto unita e ligia al dovere, così ci è stato insegnato e così facciamo.
Io sono la sorella minore, se minore si può dire quando stai per compiere trent’anni tondi, tondi.
La vita da figlia femmina, quando hai due fratelli maschi, è complicata. Dalle femmine si esige responsabilità, serietà. Ricordo che, piccola come un cucciolo di Pomerania, tornavo a piedi da scuola tutti i giorni da sola, anche quando pioveva a dirotto e la città si allagava. Avevo nove anni e mi trattavano da adulta. Quando i miei genitori non tornavano a pranzo ero io che dovevo premurarmi di cucinare per i miei fratelli, benché loro fossero più grandi.
I figli maschi vengono cresciuti come creature fragili e delicate – più che altro verrebbe da dire impedite – loro non sono tenuti a cucinare, stirare, disciplinare. I miei fratelli si alzavano la mattina, tralasciavano la sistemazione del letto, trovavano la colazione pronta – a ognuno la preferita – andavano a scuola e, al loro rientro, esigevano il letto fatto e il pranzo pronto. Poi il pomeriggio, dopo lo studio, erano liberi di giocare. Io no.
È tardi, mi precipito verso la caffettiera che sta borbottando, il mio caffè è pronto, o quasi, devo giusto aggiungere i due cucchiaini di zucchero e la goccia di latte.
Una volta finito mi fiondo sotto la doccia, fredda, devo svegliarmi altrimenti mia madre trova una scusa per rompere le scatole.
Metto una comoda tuta e asciugo in fretta i lunghi capelli neri come la cenere della nostra amata Etna.
Siamo terroni fino al midollo, nati e cresciuti in questa terra di amore e incertezze, meridionali dentro e soprattutto fuori. Tutti con la pelle, dorata, baciata dal sole e tutti con capelli e occhi neri, sembriamo lo sputo di un parto gemellare.
Terminata l’asciugatura faccio una coda di cavallo, sia mai che al panificio qualche capello si dimeni troppo.
Al lavoro mi reco a piedi in quanto il mio malconcio monolocale si trova in via Sant’Eupilio, ovvero a due passi dal panificio.
Alle sei del mattino, tra le vie, trovi solo noi poveri disgraziati che ci facciamo il mazzo per vivere. Ma a onor del vero siamo sempre quelli con il sorriso stampato in faccia.
Un sorriso sincero non di circostanza.
Mia nonna Agata dice sempre che chi si sporca le mani è più felice, perché dalle sue mani è nato qualcosa. È vero, noi con il pane sfamiamo tutti, i ricchi e i poveri, perché è l’unico bene che ancora si possono permettere tutti. In qualche modo questo mi rende fiera e orgogliosa.
Finalmente arrivo al negozio, sento già il profumo di pane, l’odore di casa, e intravedo la bruma che produce il forno a legna.
Mio padre e mia madre vengono qui alle quattro, ogni santissimo giorno.
Per fortuna io e Biagio possiamo dormire due ore in più.
«Buongiorno, famiglia!» esclamo, festosa.
«Ciao nica, si bianca a gioia, stai bene?» domanda mia madre. Per mia madre sono sempre malata. Se sono pallida sto male, se parlo poco sono insofferente, se non mangio sto per morire.
«Mamma sto bene, solo che stamattina non mi sono truccata».
«Buongiorno gioia mia, mettiamoci a lavoro» dice mio fratello dandomi un bacio sulla testa. Quanto gli voglio bene!
«Oh amore mio, hai dormito bene a papà?» domanda, infine, mio padre. Mio padre è un uomo buono, non il padre padrone che ci si aspetterebbe da una famiglia siciliana vecchio stampo. Lui è sempre stato sottomesso dalle donne della sua vita, prima sua madre, poi sua moglie. Fortunatamente non ho preso anch’io quell’indole despota che le contraddistingue.
«Si papà ho dormito bene, tu come ti senti oggi?».
«E che ti devo dire, il mal di schiena mi tortura ma che possiamo fare? Solo andare avanti e pregare il signore».
Famiglia di fede la nostra, mia madre prega Sant’Agata ogni giorno, lei e papà vanno in chiesa tutte le domeniche. Io e i miei fratelli decisamente meno. Non voglio sentirmi in colpa per questo, per quel che mi riguarda sono convinta che se hai fede, hai fede. Non c’è bisogno di andare in chiesa per dimostrarlo a qualcuno.
La giornata corre frenetica come sempre, dalle sette alle due non riusciamo a fermarci un attimo. Io e mamma ci occupiamo della vendita, papà e Biagio continuano a sfornare pane, biscotti, brioche e pizzette.
La mamma alla vendita è lentissima, deve fare per forza conversazione con tutti e non ci sono più le mezze stagioni… e il lavoro è precario… e i giovani d’oggi sono scapestrati… e le tasse pesano troppo sulle famiglie…
.
Sempre la solita solfa.
Io evito di parlare e lei ne approfitta. Quando le chiedono di mio fratello Alfio le si spalancano gli occhi e iniziano a emanare cuoricini a destra e a manca. Sì, perché Alfio è l’unico che si è iscritto all’università, laureato a pieni voti e lavora in ospedale. Per lei, il fatto che lui lavori in ospedale è al pari di un astronauta che sale sulla luna. Ne è orgogliosa talmente tanto che dietro al bancone, vicino alla cassa, ha una sua foto gigante con in mano la pergamena e in testa le foglie di alloro. Io e Biagio non pervenuti.
Finalmente sono le tre, mangio veloce una pizzetta, l’orario di punta è passato. Mamma sa che ogni giorno a quest’ora ho un appuntamento a cui non mancherei per niente al mondo.
Afferro le mie cose velocemente e scappo.
«Ciao famiglia, ci vediamo domani».
Arrivo a casa, giusto in tempo per farmi l’ennesima doccia, calda stavolta.
Acconcio i capelli in una crocchia precaria, chi se ne importa.
Metto un jeans e una felpa, siamo a fine aprile ma qualche refolo di vento fresco permane.
Prendo lo sbrindellato motorino che mi ha regalato Biagio e percorro la poca strada che mi separa da lei, la gioia della mia esistenza.
Giungo alla villa che affaccia sul mare, immagino sia una costruzione molto vecchia ma tenuta bene. Davanti la villa ci sono diversi alberi di limone femminello zagara bianca, l’estatico profumo che emanano mi inebria ogni volta.
Vivere qui deve essere magico, certo se non fosse che è una struttura per malati di Alzheimer.
Parcheggio il motorino sul ciottolato di fronte l’ingresso. Entro con sicurezza, mi conoscono tutti.
«Salve Sandra, è in camera?» domando all’infermiera all’ingresso.
«Ciao Rosa, no è nella stanza comune, oggi è lucida e in forma smagliante» comunica lei.
«Davvero? Non potrei essere più felice di così, ci vediamo dopo».
Affaccio nella grande sala comune, le pareti sono di un tenue bianco navajo e le tende e i divani un chiaro giallo papaya. Questa scelta di colori rende la stanza accogliente. C’è un grande televisore, accanto uno stereo, tre divani accostati alle pareti salvo per l’unica parete ove è situata un’ampia finestra all’inglese. Sparsi, alcuni tavoli in legno bianco e diverse sedie.
Lei è seduta su una di quelle.
È molto bella, lo è sempre stata, i suoi lunghi capelli sono raccolti da un pettinino impreziosito da piccole pietre di giada. Al collo la catenina dalla quale ciondola la fede di nonno Salvatore. Sulle spalle porta una liseuse in lana che si è sferruzzata da sola, anni or sono. Sotto, un pantalone elegante dal taglio maschile.
«Nonna!».
Si gira, mi guarda, l’ansia mi aggroviglia lo stomaco, odio quando non mi riconosce.
«Rosa, vita mia, veni qua» dice, muovendo una mano per farmi cenno di avvicinare.
Un terremoto di esultanza vibra nel mio cuore.
«Nonna bella, come stai oggi?» domando gioiosa.
«Rosa ma quanto sei bella, sei tutta tua madre, sto bene vituzza mia, tu come stai?».
«Sempre bene nonna, allora raccontami, che hai fatto di bello oggi?».
«Stamattina ci hanno presentato il nuovo neurologo, il dottor Andrea Caruso, sai che bell’uomo che è? Te lo devo presentare» cincischia nonna. Ecco l’ennesimo tentativo di farmi accasare.
«Nonna ma non era il dottor Messina il neurologo della struttura?».
«Sì, ma è vecchio, è andato in pensione. Questo è giovane ha trentotto anni, sembra simpatico, arriverà tra non molto. Potevi vestirti più carina, Rosa, sempre da maschiaccio ti cummini» decreta, decisa.
«Nonna lo sai che passo tutto il giorno al panificio e il pomeriggio sono troppo stanca per essere femminile, richiede troppo tempo e pazienza e io non ho nessuno dei due».
«Caterina, tesoro, dov’è Pietro? E i bambini?».
Ha perso di nuovo lucidità, Caterina è mia madre, Pietro è mio padre e i bambini siamo io e i miei fratelli. Mi viene da piangere.
Nonna si è ammalata di Alzheimer due anni fa, la malattia procede lenta, ma purtroppo ultimamente i lampi di lucidità stanno diradando.
Lei è tutto per me, mi ha cresciuto come una figlia. I miei genitori hanno aperto il panificio pochi anni prima della mia nascita ne consegue che quando sono nata, a causa degli orari e dei ritmi serrati del lavoro, mi hanno lasciata da mia nonna ancora in fasce.
È stata una seconda mamma meravigliosa, mi leggeva un sacco di storie e anche le lettere che il nonno le mandava dalla Germania. Nonno Salvatore è mancato quattro anni fa, ha passato metà della sua vita a lavorare presso una fabbrica di zucchero.
A Catania all’epoca, ma probabilmente tutt’ora, le possibilità di lavoro erano scarse, molti migrarono per avere un lavoro sicuro e spedire i soldi alla famiglia.
Mi manca così tanto.
E so quanto manca a nonna, lui è stato il suo grande amore. Un amore da romanzo, di quelli che leggi nei libri e pensi non può esistere davvero
, e invece esiste, io l’ho visto con i miei occhi.
Guardo l’ora, è tardi e sono stanca. Tornerò domani, come sempre, come negli ultimi due anni.
«Nonna bella, devo andare, torno domani, va bene?».
«Certo Caterina, ci vediamo domani, gioia mia».
La abbraccio e corro via veloce. Il dolore che mi procura ogni volta che non mi riconosce è indissolubile.
Arrivata a casa mi spoglio e apro la finestra, dalla strada proviene una musica triste, conosco questa canzone, chiunque la conosce, Teardrop dei Massive Attack mi culla in un sonno pieno di mostri.
Capitolo 2
È venerdì, questo vuol dire una sola cosa. Domani è sabato.
Domani posso uscire, fare tardi e domenica dormire tutto il giorno, sono di ottimo umore.
Al solito inizio la giornata con il mio caffè da cardiopalmo, dato lo smoderato utilizzo dello zucchero che mi propino quotidianamente.
Doccia, tuta e via, si ricomincia.
«Buongiorno, famiglia!» esclamo, come tutte le mattine.
«Ciao scricciolo, sei stata da nonna ieri?» chiede Biagio.
«Si, è stato… come sempre, mi ha riconosciuto per un po’, poi ha pensato come sempre che fossi la mamma» dico, indispettita.
«Ciao nica, non fare quella faccia, sai che tua nonna mi ha cresciuto» dice mia madre, comprensiva.
«Lo so mamma, ma ha