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L'ultimo Regno Oscuro
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L'ultimo Regno Oscuro

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About this ebook

La guerra si è protratta per sette lunghi anni ma ora, con l’ultima, schiacciante vittoria, re Aris ha trionfato sui nemici e potrà finalmente assicurare la pace al proprio regno. Tuttavia, nuove e assai più oscure minacce si annidano fra le mura del suo palazzo. Coloro di cui più si fida tramano contro di lui e contro suo figlio, il giovane principe Ivain, per impadronirsi del trono e, al loro fianco, si schierano alleati potenti, asserviti alle forze del Male, che nessuna magia sembra capace di sconfiggere: i Veglianti.
La battaglia decisiva si combatterà fra le tetre mura della fortezza di Kaer-Dun, l’ultimo Regno Oscuro, dove i Veglianti custodiscono un talismano dall’immenso potere.

Il romanzo, pubblicato nella Fantacollana Nord col titolo La Pietra di Moor nel 1995, rappresenta, assieme al secondo libro, Il Sigillo Nero, pubblicato nel 2002 e di nuovo disponibile dal 18 luglio in formato eBook con il titolo L’Amarillion, un segmento della produzione dell’autrice. Entrambi i romanzi sono autoconclusivi, tuttavia avrebbero dovuto far parte di una trilogia.
Gli elementi fondanti sono tipici del genere Fantasy, ma la vicenda si ispira alla Storia e fa riferimento ai leggendari sovrani Merovingi, precedenti ai Carolingi e noti anche come “i re taumaturghi”, perché pare avessero il potere di guarire.
Revisionato e modificato, con una nuova veste grafica e con il titolo L’ultimo Regno Oscuro, viene riproposto in edizione digitale.

L'AUTRICE
Morgan Fairy è lo pseudonimo con cui Angela Pesce Fassio firma i suoi romance Fantasy. Nata ad Asti, dove risiede tuttora, è un’autrice versatile, come dimostra la sua ormai lunga carriera e la varietà della sua produzione letteraria.
L’autrice coltiva altre passioni, oltre alla scrittura, fra cui ascoltare musica, dipingere, leggere e, quando le sue molteplici attività lo consentono, ama andare a cavallo e praticare yoga. Discipline che le permettono di coniugare ed equilibrare il mondo dell’immaginario col mondo materiale.
I suoi libri hanno riscosso successo e consensi dal pubblico e dalla critica in Italia e all’estero Mistero, avventura, brividi e amore, sono i soggetti che predilige e che ha proposto anche sotto pseudonimo. I suoi libri hanno riscosso successi e consensi dal pubblico e dalla critica in Italia e all’estero.
LanguageItaliano
PublisherMorgan Fairy
Release dateJun 18, 2019
ISBN9788834140765
L'ultimo Regno Oscuro

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    L'ultimo Regno Oscuro - Morgan Fairy

    Morgan Fairy

    L’ultimo Regno Oscuro

    Romanzo

    L’ultimo Regno Oscuro

    I edizione digitale: giugno 2019

    Copyright © 2019 Angela Pesce Fassio

    Tutti i diritti riservati. All rights reserved.

    Sito web

    Facebook

    ISBN: 9788834140765

    Immagini di copertina:

    Modella: Danielle Fiore

    Fotografo: Kristina Gi

    Foto stock: 123rf | Vitaliy Melnik

    Progetto grafico: Consuelo Baviera

    Sito web

    Facebook

    Edizione digitale: Gian Paolo Gasperi

    Sito web

    PROLOGO

    In un luogo remoto, tanto tempo fa…

    Camminava da giorni in quella landa desolata stretta nella morsa dell’inverno, e ora che la notte incalzava e gli ultimi bagliori del crepuscolo si spegnevano, era ancora lontano dalla meta.

    Si sentiva debole e stanco. La magia che l’aveva sorretto durante quel viaggio aveva ormai perso parte della sua efficacia: se non avesse trovato in fretta un riparo, sarebbe crollato in mezzo alla strada senza riuscire a compiere ciò che doveva.

    Ovunque spingesse lo sguardo non vedeva altro che campi ammantati di neve, boscaglia e alberi spogli fra cui s’inoltrava la strada resa scivolosa da lastre di ghiaccio. In distanza, si delineavano gli scuri profili delle colline, ma nessun segno di un centro abitato, un casolare o una capanna. Sopra di lui si addensavano nubi foriere di tempesta. Sostò qualche momento per riprendere fiato appoggiandosi al bastone e cercò di non abbandonarsi allo sconforto. Trasse un sospiro e cancellando dalla mente la fatica e il freddo si rimise in cammino con determinazione. Il ghiaccio che scricchiolava sotto ai suoi passi a un certo punto si frantumò e affondò nella fanghiglia gelida fino alle caviglie, con la tunica e il mantello inzaccherati e fradici.

    Faticò a tirarsi fuori da quella trappola vischiosa e si spostò sul lato della strada che sembrava meno insidioso, ma il buio gli impediva ormai di distinguere il terreno sul quale procedeva. A un tratto, come se l’inverno volesse ulteriormente accanirsi contro di lui, un forte vento sollevò un turbinio di fiocchi di neve. Il viandante si avvolse ancora più strettamente nel mantello e, prono sotto le raffiche, proseguì con cautela.

    Finalmente raggiunse le colline e con esse un parziale riparo all’infuriare impietoso della bufera. Tuttavia era ormai al limite della resistenza: il suo incedere si era fatto più incerto e ogni passo gli costava uno sforzo enorme. Soltanto la volontà indomabile e gli ultimi barlumi del suo potere lo sostenevano. Continuò a trascinarsi stancamente, anche se nel suo animo la disperazione aveva infranto ogni baluardo; ma fu proprio in quel momento fatale che sentì di essere prossimo alla meta. Più avanti, nell’oscurità, brillava una luce palpitante e sovrannaturale: i suoi compagni dovevano già essere arrivati.

    La luce scintillava davanti a lui sempre più intensa man mano che si avvicinava: proveniente, come poté constatare, da un antro scavato nel fianco della collina. Con il cuore più leggero compì l’ultimo sforzo e penetrò nella grotta.

    Tre figure ammantate di nero sedevano attorno a un fuoco che ardeva senza bruciare e senza consumarsi. La magia che emanava da loro permeava la cavità e l’uomo se ne sentì subito rinfrancato; gli tornarono le forze e, raddrizzatosi, si avvicinò. Senza pronunciare una parola sedette fra loro e l’energia cominciò a scorrere dall’uno all’altro facendo vibrare l’aria, ma il cerchio non era completo: mancava ancora un componente.

    Il tempo trascorse in un’attesa paziente e le ore della notte scivolarono via nella veglia dei quattro, come le acque di un torrente che scorre rapido fra gli argini. All’alba si udì un battito d’ali possenti, poi dei fruscii e dopo qualche istante apparve un’altra figura ammantata di nero. Nel volto, invisibile fra le ombre del cappuccio, gli occhi ardenti come braci scintillavano sinistramente.

    Il quinto elemento del gruppo andò a prendere posto fra gli altri. Ora la magia avrebbe raggiunto la forza necessaria per compiere il sortilegio e far materializzare in quella dimensione spazio-temporale la Fortezza di Kaer-Dunn, l’Ultimo Regno Oscuro…

    PARTE PRIMA

    1

    Banchi di nuvole sospinte dal vento galoppavano nel cielo, mentre stormi d’uccelli migratori lanciavano alti richiami; il loro saluto a quella terra che fra breve avrebbe conosciuto il gelo di un nuovo inverno. Gli steli d’erba ormai gialli e avvizziti ondeggiavano, e le foglie color ruggine strappate ai rami turbinavano seguendo i capricci del vento. Presto gli alberi sarebbero stati completamente spogli, protendendo verso il cielo i loro nudi rami, simili a braccia scheletriche di vecchi denutriti. Le vette più alte delle maestose montagne erano già imbiancate di neve e branchi di camosci, stambecchi e caprioli avevano cominciato a scendere più a valle alla ricerca di cibo. I lupi non avrebbero tardato a fare la loro comparsa.

    Sdraiato sul prato con le braccia intrecciate sotto il capo, Ivain seguiva con lo sguardo le acrobatiche evoluzioni degli uccelli, improvvisamente messi in allarme dalla comparsa di un’aquila, e con la mente rincorreva una miriade di pensieri, di fantasie. Il cielo si era quasi oscurato e l’aria si era fatta più fredda. Scosso da un brivido, Ivain si mise a sedere scostando dal viso i lunghi capelli biondi. Era tardi, ma era riluttante a far ritorno. Volse il capo e guardò in direzione della rupe scoscesa sulla quale si ergeva la mole turrita della fortezza e della città, cinta dalle ciclopiche mura merlate. Una struttura imponente e così lugubre da ispirare timore al solo vederla.

    Il nucleo centrale della costruzione, eretta su un fortilizio preesistente, era stato progettato dal suo bisnonno Theros per celebrare la schiacciante vittoria riportata sui barbari, ma egli aveva potuto vedere soltanto l’inizio dei lavori, poiché la morte lo aveva stroncato pochi anni dopo; era stato suo figlio a proseguirli e a condurli a termine.

    Theros, il bisnonno, era nipote del leggendario Dardas, capostipite della stirpe che da lui aveva preso il nome, figlio della regina Anfrasia e di re Clodio, ma anche di una divinità del mare. L’episodio ormai mitico della sua nascita era davvero affascinante ed egli amava ascoltarlo dal bardo di corte durante le lunghe sere d’inverno, mentre fuori infuriava la tormenta e si udiva l’ululato dei lupi.

    La storia, tramandata di padre in figlio, narrava che un giorno la regina Anfrasia si era recata con alcune ancelle sulla spiaggia poco distante dalla dimora reale e d’improvviso aveva sentito l’irresistibile desiderio di tuffarsi in mare. Pur essendo l’acqua piuttosto fredda, e benché le ancelle cercassero di dissuaderla, la regina si era spogliata e tuffata fra le onde spumeggianti. Una bracciata dietro l’altra, si era allontanata assai più di quanto fosse sua intenzione, creando allarme fra le ancelle che l’avevano persa di vista.

    Anche la regina era stata assalita da un certo timore nel rendersi conto che la corrente forte la stava trascinando sempre più al largo. Era una buona nuotatrice, ma la fatica e il freddo avevano intorpidito le sue membra e ogni bracciata le costava un terribile sforzo. Poi, a un tratto, dalle onde era emersa una figura che, sebbene avesse sembianze quasi umane, tale non era: alcune partì del suo corpo erano infatti rivestite di scaglie argentee, e mani e piedi erano palmati. Per un attimo lei era stata quasi sopraffatta dal terrore, ma guardando nel blu profondo di quegli occhi obliqui aveva compreso che non c’era nulla da temere, e non aveva opposto resistenza quando la creatura l’aveva stretta fra le braccia e insieme con lei si era inabissata.

    Sulla riva le ancelle avevano pianto la loro regina che credevano morta; mentre si consigliavano su come dare la notizia al re, si erano sentite chiamare da una voce al di sopra del fragore dei marosi e si erano avvicinate alla riva. Da lì avevano visto la regina nuotare sana e salva verso la spiaggia. Sopraffatte dalla gioia e dal sollievo, erano corse ad abbracciarla e le avevano rivolto mille domande ansiose. Anfrasia aveva risposto in modo alquanto evasivo, limitandosi a dire che una benevola creatura marina aveva salvato la sua vita e quella del figlio che attendeva. Infatti, come poteva confessare di essersi lasciata sedurre da un essere metà uomo e metà pesce, figlio di un dio marino, e che il bimbo che portava in grembo avrebbe avuto due padri? La regina aveva saputo fin da allora che suo figlio, in virtù del suo duplice sangue, sarebbe stato dotato di poteri soprannaturali e che il segreto del suo concepimento avrebbe dovuto essere rivelato a lui soltanto.

    A suo tempo, la regina aveva partorito un maschio sano e forte che era stato chiamato Dardas. Alla morte del padre, Dardas era stato incoronato re e Anfrasia gli aveva rivelato il segreto che aveva custodito gelosamente per tanto tempo.

    Ogni volta che ripensava a quella storia Ivain non poteva impedirsi di provare un senso di intimo orgoglio, pur sapendo che la sua guida spirituale non l’avrebbe approvato. Ma in fondo che cosa c’era di male nell’esser fieri di appartenere ad una stirpe tanto gloriosa? Prima di partire per la guerra suo padre gli aveva detto che un sovrano ha il dovere di onorare il proprio titolo e portarlo con dignità e orgoglio, ma non con superbia. Un re superbo non sarebbe mai stato un buon governante per il suo popolo. Il pensiero di suo padre lo rattristò alquanto. Ricordava in modo abbastanza confuso il momento della sua partenza alla testa della poderosa armata, ma rammentava con chiarezza ciò che gli aveva detto prima di montare in sella, la promessa che mai più vi sarebbero state guerre e che il regno avrebbe finalmente conosciuto la prosperità di una pace duratura e di un futuro sereno.

    Sebbene fosse passato molto tempo, Ivain aveva ancora impressa nella mente l’espressione solenne del volto di suo padre, e chiudendo gli occhi poteva risentire il calore della mano che gli aveva posato sul capo in un gesto d’affetto benedicente. Ricordava con la stessa intensità le lacrime che brillavano sulle guance di sua madre: l’unico momento in cui aveva visto vacillare la sua forza d’animo. Da allora erano trascorsi sette lunghi anni e nel frattempo sua madre era morta, stroncata da una malattia incurabile. Durante quel lungo lasso di tempo la guerra era proseguita senza soste, in un’alternanza di vittorie e sconfitte, con notizie frammentarie che aumentavano l’ansia e la preoccupazione. Tuttavia, in quell’ultimo periodo, i messaggeri riferivano sempre più di frequente delle vittorie riportate dal re e ormai tutti attendevano, da un giorno all’altro, la notizia della definitiva disfatta dei ribelli e del trionfale ritorno del vincitore.

    Il Maestro di Palazzo, Grimold, a cui il re aveva affidato la reggenza, aveva condotto in modo eccellente gli affari di stato facendo in modo che l’assenza del sovrano non pesasse eccessivamente sull’andamento generale del regno. Ma Ivain intuiva che un ulteriore ritardo nel ritorno di suo padre avrebbe potuto avere conseguenze irreparabili. Anche Niarcus, studioso di grande ingegno, astrologo di corte e suo mentore, nutriva i suoi stessi timori. Grimold era di gran lunga troppo ambizioso, abile e scaltro per avere realmente intenzione di rientrare nell’ombra, una volta esaurito il suo compito. Ivain diffidava di lui e temeva che ordisse qualche oscura trama ai danni di suo padre.

    Era perciò molto preoccupato e presagiva qualche infausto avvenimento, ma non era in grado di immaginare fino a qual punto le sue inquietudini fossero giustificate.

    A bordo del carro da guerra ancora impolverato e macchiato dal sangue dei nemici uccisi in quella risolutiva e terribile battaglia, re Aris transitò con le braccia levate verso il cielo fra due ali di guerrieri festanti che lo acclamavano e battevano sugli scudi provocando un clangore quasi assordante. Con i lunghi capelli al vento il re assaporò quegli istanti d’inebriante trionfo, dimenticando che a poca distanza da lì, sul campo di battaglia, giacevano centinaia di cadaveri ancora caldi, con cui corvi e cani selvatici avrebbero presto banchettato.

    In quel momento, però, null’altro contava per lui e l’euforia dilagò come un’onda di piena fra i vincitori, mentre i vinti catturati, ammassati come bestie da condurre al macello, stavano a testa china, affranti e disperati. Uno soltanto tra essi aveva mantenuto un atteggiamento fiero, colui per il quale la sconfitta significava il naufragio definitivo di tutte le più ambiziose speranze; il principe Gerrold, fratellastro ribelle del re. Il suo orgoglio era intatto, poiché era riuscito per ben sette anni a tenere in scacco Aris e il suo esercito e si era trovato a un soffio dalla vittoria. Se soltanto i Britanni avessero rispettato il patto e gli avessero inviato i rinforzi promessi, adesso ci sarebbe stato lui a bordo di quel carro e il rivale sarebbe stato sconfitto e in catene. Aveva condotto quella campagna con brillante e talvolta audace strategia e l’unico rimprovero che poteva farsi era di essersi mostrato troppo fiducioso nei riguardi del barbaro britanno che gli aveva promesso aiuto e invece l’aveva abbandonato al suo destino tradendolo senza il minimo scrupolo.

    Il pensiero di essere destinato a seguire in catene il carro del vincitore nel percorso trionfale, secondo l’antica usanza ancora in vigore, lo faceva fremere d’ira impotente. Tuttavia la sua mente non era offuscata da quell’orda di tumultuose emozioni, e nel guardare l’odiato rivale passargli davanti per infliggergli un’ulteriore umiliazione sentì ardere dentro di sé il desiderio di vendicarsi. Ancora non sapeva in che modo, ma avrebbe tentato e sarebbe sopravvissuto solo per raggiungere quell’obiettivo. Quel pensiero mitigò la sua sofferenza e lo indusse a sorridere.

    In quel momento Aris incrociò lo sguardo del ribelle incatenato: si era aspettato di trovarlo in preda allo sconforto e lo scopriva invece pieno di sfida, con quel sorriso da squalo stampato sulla faccia che gli procurò un brivido di inquietudine. Era possibile che Gerrold avesse in serbo qualche mossa strategica? Era poco propenso a crederlo, sebbene quella sicurezza ostentata lo lasciasse perplesso, soprattutto dopo una sconfitta così clamorosa. Non doveva dimenticare che il suo fratellastro godeva di appoggi e simpatie in Britannia e forse qualcuno poteva essere disposto ad aiutarlo. Il fatto che Orige, il capo britanno, lo avesse tradito a causa della propria cupidigia, non stava a significare che non ve ne fossero degli altri più onesti. Distolse lo sguardo con un senso di fastidio: non gli garbava che i suoi uomini vedessero l’atteggiamento di sfida dell’altro, la dimostrazione che non aveva nessuna paura di lui. Non poteva permettere a uno sconfitto di comportarsi in quel modo oltraggioso. Ordinò seccamente all’auriga di frustare i cavalli e il carro passò oltre, ma ormai la sua euforia era svanita lasciandogli un sapore amaro in bocca.

    «Uccidili subito! Uccidi lui e i suoi seguaci immediatamente se vuoi evitare che ci procurino dei guai.»

    Aris guardò il suo luogotenente e sorrise. «Che cosa potrebbero fare che io non sia in grado di impedire? Sono vinti, umiliati e in catene; non c’è alcuna ragione per cui debba temerli.»

    «Gerrold è una serpe velenosa e solo quando sarà morto potrà essere considerato inoffensivo. Segui il mio consiglio, sire, falli giustiziare domani stesso.»

    «No, amico mio, ancora non è arrivato il momento, tuttavia intendo infliggere una dura lezione a Gerrold. Ordinerò di accecarlo e di mozzargli la lingua.»

    «È un provvedimento crudele, sire, e non farà che aumentare il suo astio nei tuoi confronti.»

    «Può darsi, ma non credo che se lui si trovasse al mio posto si farebbe degli scrupoli. Giustiziarlo adesso mi priverebbe della soddisfazione di trascinarlo incatenato al mio carro e non ho combattuto tutti questi anni per comportarmi in modo magnanimo. Voglio che la gente capisca che non ho paura di lui.»

    «Perdonami, sire, ma penso che tu stia per commettere un errore.»

    «Forse, ma ormai ho deciso e non intendo cambiare idea.»

    Il giorno dopo Gerrold venne prelevato da un plotone di soldati e condotto al centro dell’accampamento. Il suo volto era teso e tradiva l’ansia e il timore del destino che lo attendeva, ma non oppose resistenza e si lasciò guidare docilmente. Lungo il percorso indirizzò cenni di saluto ai guerrieri che conosceva, uomini di cui in passato era stato amico e verso i quali non provava alcun risentimento. Quelli distolsero il volto, incapaci di sostenere il suo sguardo e timorosi che potesse leggervi la pietà che provavano. In fondo ai loro cuori ammiravano quell’uomo che aveva saputo ribellarsi e contendere al re il diritto al trono; non avevano dimenticato il tempo in cui avevano condiviso la durezza delle campagne di guerra, le vittorie, i saccheggi e i bottini che aveva sempre equamente ripartito fra tutti. Ora lo vedevano andare incontro a un destino peggiore della morte e si dolevano per lui, che non meritava un simile oltraggio. A loro avviso il re aveva calcato un po’ troppo la mano.

    Quando vide che erano presenti Aris e l’intero stato maggiore, il prigioniero ritenne di essere stato condotto al patibolo, ma poi si accorse del braciere su cui si arroventavano i ferri e notò che il carnefice era assistito da un chirurgo, riconoscibile per il simbolo tatuato sulla fronte. Colpito da un improvviso e terribile sospetto, si sentì agghiacciare il sangue nelle vene.

    I suoi occhi incontrarono quelli adamantini di Aris e di colpo capì, capì la ragione per cui gli sarebbe stata inflitta quella atroce e crudele punizione. Aris intendeva renderlo totalmente impotente e dare a tutti una dimostrazione. Ma se sperava che lo supplicasse di risparmiarlo, era in errore. Mai e poi mai si sarebbe piegato. Tutti sarebbero stati testimoni che non era un codardo.

    Gerrold venne fatto inginocchiare e all’ordine del re due soldati lo afferrarono saldamente per le braccia, mentre il carnefice prendeva il primo dei ferri, una tenaglia, e gli si avvicinava. Il chirurgo lo costrinse ad aprire la bocca e gli tirò fuori la lingua. Non un muscolo del corpo del prigioniero tremò, ma i suoi occhi rimasero inchiodati in quelli di Aris, che non avrebbe più potuto dimenticare quello sguardo terribile per il resto dei suoi giorni.

    Il suppliziato venne meno per l’atroce sofferenza, ma fu fatto rinvenire in modo che fosse cosciente nel momento in cui sarebbe stato accecato. Il carnefice si avvicinò con il punteruolo incandescente, ma prima di portare a termine l’orribile mutilazione si voltò a guardare il re, quasi attendendo un contrordine. Invano, gli fu confermato di procedere e quello ubbidì. Gerrold lanciò un urlo straziante e perse i sensi. Il chirurgo si accertò che fosse ancora vivo, poi ad un cenno di Aris il corpo esanime fu portato via.

    Sull’accampamento era calato un profondo, impressionante silenzio. Sui volti di coloro che lo circondavano il re lesse sgomento, paura, riprovazione e persino orrore. Pochi avevano compreso la vera ragione del suo gesto, ma non si era aspettato che capissero; aveva voluto dare una dimostrazione tale da incutere timore e non c’era dubbio che fosse riuscito nel proprio intento.

    2

    Il grande accampamento che negli ultimi tempi aveva ospitato il re e le sue truppe fu smantellato in vista della partenza ormai imminente ed entro qualche giorno i preparativi sarebbero stati ultimati.

    Aris era ansioso di andarsene. Adesso che tutto era finito non c’era alcuna ragione al mondo per cui dovesse ancora trattenersi lontano da Redhae e da suo figlio. Mentre si affacciava per l’ultima volta sulla soglia della tenda, pensò che la gioia del ritorno sarebbe stata più completa se ad attenderlo ci fosse stata la sua regina, ma lei gli era stata crudelmente strappata via. Il dolore per la perdita si era ormai sopito, sostituito da un pacato rimpianto, ma soprattutto subordinato ad esigenze ben più prioritarie. Tuttavia un re, specialmente se ancora giovane e vigoroso, aveva bisogno di una sposa con cui condividere onori ed oneri e dopo il suo ritorno sarebbe stato opportuno che prendesse in esame la possibilità di riammogliarsi. Decise che ci avrebbe riflettuto durante il viaggio e che si sarebbe consigliato con suo cugino Vilfredo, il quale già da qualche tempo insisteva su quel punto.

    Finalmente tutto fu pronto e l’armata s’imbarcò sulle navi, che salparono dalle coste della Britannia e presero subito il largo, sospinte da un vento favorevole. Il re, ritto sulla tolda della nave ammiraglia, puntò lo sguardo verso il mare aperto, ansioso di veder apparire la terra dalla quale era partito sette anni prima.

    Le prime ore di navigazione trascorsero tranquille. Il mare era increspato dalla brezza e le prore dei navigli ne solcavano la superficie sollevando spruzzi di spuma. Dopo un tramonto infuocato, che rese l’acqua simile a una distesa di metallo incandescente, scese l’oscurità e milioni di stelle si accesero nella volta celeste. La notte era quieta e la visibilità perfetta. Soltanto le luci di posizione delle navi fendevano il buio come fuochi fatui.

    A bordo la maggior parte degli uomini dormiva, ma il re e Vilfredo erano fra quelli che, troppo irrequieti per riuscire a trovare riposo, erano inclini a trascorrere le ore notturne bevendo e parlando.

    «Ho deciso di risposarmi», annunciò Aris mentre sorseggiavano del sidro seduti nei pressi del castelletto di poppa.

    Mancò poco che Vilfredo si strozzasse e fra un colpo di tosse e l’altro domandò: «Che cos’hai detto, sire?»

    «Che ci trovi di strano?»

    «Nulla, se non fosse che fino a poco tempo fa non volevi neppure sentirne parlare.»

    «È vero, ma ho riflettuto e ho cambiato idea. Una moglie è esattamente ciò di cui ho bisogno.»

    «Hai pensato a come potrebbe reagire tuo figlio?»

    «Naturale, ma credo che capirà. Ivain ormai è abbastanza cresciuto e saprà mostrarsi ragionevole.»

    Vilfredo annuì lentamente, ma non era del tutto convinto. «Sai già chi sarà la fortunata?»

    «Come potrei? Sono stato lontano troppo tempo, ma mi consiglierò con Grimold a questo proposito. Poiché si tratta di un matrimonio dettato dalla ragion di stato e dato che ho troppe cose da fare, mi limiterò a scegliere una delle candidate che mi saranno presentate.»

    «Temo che la lista sarà piuttosto lunga, sire.»

    «Non credo», sorrise Aris, «non voglio sposare una ragazza che potrebbe essere scambiata per la sorella di mio figlio.»

    Furono distolti dalla conversazione dall’improvviso e sinistro bagliore di un lampo, subito seguito dallo scoppio fragoroso del tuono. La quiete della notte venne infranta dall’inaspettato scatenarsi della tempesta. Il mare, fino a pochi istanti prima tranquillo, prese ad agitarsi sempre più violentemente e spumeggianti marosi percossero le fiancate delle navi. Ben presto tutti furono destati dal sonno e l’iniziale sorpresa si tramutò in sgomento e poi in paura.

    A bordo dell’ammiraglia la situazione era più tranquilla perché Aris sapeva come tenere sotto controllo gli uomini impauriti, ma sulle altre navi regnava il panico e i comandanti incontravano sempre maggiori difficoltà a mantenere l’ordine e la disciplina. A un certo punto, nel momento in cui la tempesta raggiungeva il culmine e vere e proprie muraglie d’acqua si accanivano sulle navi ormai in completa balia degli elementi, fu perso ogni contatto. Smarriti nell’oscurità impenetrabile, ormai privi di controllo, i navigli andarono alla deriva allontanandosi e disperdendosi.

    Il re fissava con espressione sconvolta il mare che infuriava e pregava il dio degli abissi di risparmiare la vita a tutti loro. Si rifiutava di credere che dopo essere sopravvissuti alle battaglie e alle traversie di una guerra lunga sette anni fossero destinati a perire tanto miseramente, inghiottiti dai flutti impietosi e divorati dai pesci. Vegliò tutta la notte, pregando, confortando e rassicurando gli uomini annientati dal terrore, salvando la vita a quelli che stavano per essere spazzati via dalle ondate e facendo del suo meglio per essere presente dovunque fosse necessario.

    Soltanto all’approssimarsi dell’alba finalmente la violenta tempesta si placò e al chiarore incerto e caliginoso che inondava la superficie del mare di nuovo tranquillo Aris, Vilfredo e gli uomini riuniti sul ponte videro la flotta al completo, miracolosamente intatta. Sebbene avessero subito danni, le navi erano ancora in grado di tenere il mare e le perdite, a quanto risultò, erano state molto limitate fra gli equipaggi e la truppa, ma assai più ingenti fra i prigionieri stipati nelle stive. Con gratitudine il re rivolse una silenziosa preghiera al dio del mare e si augurò che il resto della traversata proseguisse senza altri inconvenienti.

    Quel giorno stesso, sospinte dal vento favorevole, le navi approdarono sulla costa austrasiana, a qualche miglio dalla città portuale di Alancur. Aris sbarcò insieme ai suoi e ordinò che venisse eretto un accampamento per la notte, poi inviò un messaggero a Redhae con la notizia del suo vittorioso ritorno. Rapidamente fu allestito un ampio recinto nel quale furono raggruppati i prigionieri, alcuni dei quali furono utilizzati per il lavoro.

    Trovandosi nel loro territorio il re non ritenne necessario adottare misure di sicurezza particolarmente severe, anche se Vilfredo pensava che un re fosse più esposto a rischi di aggressione nel proprio regno che altrove. Si limitò perciò a dare istruzioni per la sorveglianza del campo, lasciando ampia libertà al cugino di organizzare i turni e i vari servizi.

    Da parte sua Vilfredo era costantemente preoccupato per la sicurezza del re. Sebbene non sussistessero fondati motivi per temere aggressioni, non si poteva escludere un attentato da parte di qualche fanatico sostenitore del ribelle e, in conseguenza di ciò, ritenne opportuno prendere tutte le precauzioni necessarie. In qualità di comandante delle guardie scelte, era sua precisa responsabilità garantirne la sicurezza. Dopo essersi accertato che le disposizioni date fossero state eseguite alla lettera, Vilfredo si recò al padiglione reale per fare il consueto rapporto. L’oscurità si addensava già fitta e nel campo ardevano grandi fuochi crepitanti sui quali giravano gli spiedi. L’aroma del fumo di legna e degli arrosti impregnava l’aria frizzante mescolandosi al profumo del mare.

    La tenda reale era illuminata e riscaldata dai fuochi accesi nei bracieri di bronzo. L’ambiente era piacevolmente tiepido e confortevole: neppure durante gli spostamenti delle campagne di guerra il sovrano rinunciava del tutto alle comodità.

    «Eccoti qua, amico mio, ti stavo aspettando», lo accolse Aris sollevandosi un poco dal triclinio e interrompendo con un cenno il lavoro del massaggiatore. Questi, un gigante bronzeo solido come una roccia, prese congedo inchinandosi. Aveva perso l’uso della parola a causa di una mutilazione subita nell’infanzia ed era al servizio del re da quando ne era stato salvato. Fedele e silenzioso, lo seguiva come un’ombra e talvolta dormiva ai piedi del suo letto per proteggerlo.

    «Ho eseguito gli ordini, sire, ma per prudenza ho fatto rafforzare la sorveglianza intorno al recinto dei prigionieri.»

    Aris indossò la tunica di morbida lana e agganciò in vita la cintura borchiata. «Approvo senz’altro la tua decisione. Spero che vorrai rimanere a cena con me. Mi sono preso la libertà di dare disposizioni in tal senso.»

    «È sempre un onore e un piacere stare in tua compagnia, sire.»

    «Considero un privilegio avere un amico come te», rispose il re con un sorriso. I lunghi capelli biondi gli ricadevano in ciocche lucenti sulle spalle: soltanto nell’intimità si concedeva il vezzo di portarli sciolti. Sedette e invitò Vilfredo ad accomodarsi di fronte a lui, «Vogliamo bere un po’ di vino in attesa che ci servano la cena?»

    «Volentieri, mi sono alquanto infreddolito là fuori.»

    «Ormai l’inverno è alle porte, ma mi conforta sapere che lo trascorrerò a Redhae. Confesso che questa campagna così lunga mi ha affaticato.» Chiamò il coppiere e qualche momento dopo si presentò un ragazzo dall’aria un po’ impacciata che reggeva un vassoio su cui erano disposte coppe e caraffa. Avanzò con passi incerti, seminascosto dagli ingombranti oggetti che portava. Depose il vassoio sul basso tavolino e, dopo essersi inchinato, indietreggiò rapidamente, forse un po’ troppo.

    Vilfredo, sempre sospettoso, balzò in piedi. «Ehi, aspetta un momento!»

    Invece di ubbidire, il ragazzo eseguì un precipitoso dietro front e guadagnò l’uscita. Sotto lo sguardo sorpreso di Aris il luogotenente inseguì il coppiere che, pur correndo come una lepre, si trovò bloccato dalle guardie. Ne seguì una breve colluttazione nella quale il ragazzo ebbe la peggio, quindi le guardie lo consegnarono a Vilfredo che lo ricondusse al padiglione del re.

    «Vuoi spiegarmi che cosa sta succedendo?» chiese Aris, che nel frattempo si era affacciato sulla soglia.

    «Questo non è il solito coppiere, vero?» chiese Vilfredo costringendo il ragazzo a sollevare la faccia.

    Il re lo osservò e scosse il capo. «Non l’ho mai visto prima.» Gli si avvicinò e lo afferrò per una spalla. «Chi sei? Dov’è Coriano?» domandò scuotendolo.

    Il giovane serrò le labbra e rimase muto fissando il suo interlocutore con espressione di sfida. Vilfredo gli sferrò un pugno nello stomaco. «Avanti, parla! Per quale ragione ti sei sostituito a Coriano? Volevi assassinare il re? Confessa!» Non ricevendo risposta il luogotenente guardò Aris. «Lo consegniamo a Ranuzio? Lui saprà certamente come sciogliergli la lingua, sire.»

    «Mi ripugna farlo, è solo un ragazzo.»

    «Se è grande abbastanza per tentare di ucciderti, lo è anche per Ranuzio», sentenziò Vilfredo.

    Il re non nascose la propria riluttanza, ma dopo qualche attimo di riflessione diede il suo consenso e il ragazzo fu trascinato via. Aris rientrò nella tenda per prendere la spada e indossare il mantello, poi uscì di nuovo e accompagnato dalla scorta si diresse verso la zona del campo in cui era stato portato il prigioniero per essere interrogato.

    Gli uomini, spinti dalla curiosità di sapere ciò che stava accadendo, avevano creato un assembramento e si spingevano l’un l’altro per vedere, facendo commenti. All’apparire del re si aprì un varco nelle file e il vociare confuso si azzittì all’istante, mentre tutti lo salutavano. Aris li oltrepassò e varcò la soglia della tenda in cui Ranuzio stava preparando gli arnesi per l’interrogatorio.

    Il prigioniero, saldamente legato, era terreo, ma continuava a mantenere un atteggiamento sicuro, quasi di sfida. Il re stava per rivolgersi al carnefice quando sopraggiunse un soldato che portava sulle braccia un cadavere insanguinato e praticamente irriconoscibile. Lo depose a terra davanti al re e si genuflesse. «Lo abbiamo trovato in fondo a un dirupo, ai piedi della scogliera. Non credo che sia stato un incidente, sire.»

    Aris si chinò a esaminare il povero corpo martoriato e da un bracciale d’argento che egli stesso gli aveva regalato, riconobbe il suo coppiere. «È Coriano!» esclamò con voce rauca. Si rialzò e si girò a guardare Ranuzio con le mascelle serrate e uno scintillio d’acciaio negli occhi azzurri. «Costringilo a parlare. Voglio che riveli tutto ciò che sa.» Poi voltò bruscamente le spalle e uscì dalla tenda allontanandosi a lunghi passi. Gli uomini lo seguirono con lo sguardo, scambiandosi occhiate interrogative. Improvvisamente l’atmosfera dell’accampamento si era fatta gravida di tensione.

    Aris rientrò nella sua tenda e liberatosi del mantello sedette sul triclinio. Era in collera, non tanto perché avevano tentato di assassinarlo, quanto a causa della barbara uccisione del suo coppiere, un ragazzo che era al suo servizio fin dall’infanzia e a cui era molto affezionato. Il suo sguardo si posò sulla caraffa. Il vino era sicuramente avvelenato ed era stata una fortuna che Vilfredo si fosse accorto che il coppiere non era Coriano. Si augurò che Ranuzio riuscisse a sciogliere la lingua al prigioniero, ma non si sentiva ottimista ed era propenso a credere che il sicario avrebbe preferito farsi uccidere piuttosto che confessare.

    Era notte fonda. Gli ultimi fuochi languivano e nell’accampamento regnava una calma soltanto apparente: il silenzio era carico d’attesa. Le sentinelle vegliavano, attente al minimo rumore o movimento sospetto. Il cadavere di Coriano aveva avuto una sepoltura rapida e discreta e ancora nessuno, a parte i più stretti collaboratori del re, sapeva esattamente che cosa fosse accaduto. Tuttavia le voci avevano cominciato a circolare e una piccola eco era arrivata fino al recinto dei prigionieri. Qualcuno si premurò di riferire a Gerrold, ancora sofferente, che il re dardanide era stato assassinato. Dalla gola del prigioniero era uscito un grido strozzato, una specie di rantolo, poi le sue labbra gonfie e illividite si erano stirate nell’orribile parodia di un sorriso.

    Aris si era assopito sul triclinio da un paio d’ore quando fu destato da alcune voci provenienti dall’esterno. Incuriosito, si alzò e stiracchiandosi si affacciò sulla soglia. Vilredo e un ufficiale stavano discutendo a bassa voce ma animatamente e decise di intervenire.

    Si fece avanti rivelando la propria presenza e domandò: «Qualche problema, signori?»

    L’ufficiale si voltò e s’inchinò. «Mio sire, sono dolente di averti svegliato, ma…»

    «Credo che il principe sia venuto a farmi rapporto. Ritirati, se avrò bisogno ti chiamerò.»

    «Ai tuoi ordini, sire.»

    Il re e il luogotenente entrarono nel padiglione. Aris fece portare un’altra caraffa di vino e versò da bere per entrambi. «Sediamoci e beviamo; questo non è avvelenato.» Bevvero qualche sorso senza parlare, poi il re infranse il silenzio. «Dimmi, dunque, il prigioniero ha parlato?»

    «No, purtroppo. Il sicario è morto e ha portato con sé il suo segreto. Mi dispiace, sire.»

    «Com’è successo? Forse Ranuzio ha esagerato?»

    «No, sire, Ranuzio non lo ha neppure toccato. Il ragazzo si è suicidato. Non so in che modo ci sia riuscito, ma si è soffocato ingoiando la propria lingua. È accaduto tutto così rapidamente che non abbiamo potuto impedirglielo.»

    Il re lo guardò sorpreso. «Se non fossi tu a raccontarmelo, non ci crederei. E un’altra cosa che non capisco è come abbia potuto introdursi nel campo e mescolarsi a noi senza attirare l’attenzione.»

    «Sto indagando per scoprirlo, sire, e spero di riuscire a sapere qualcosa nei prossimi giorni.»

    «Potrebbe essere stato Gerrold a organizzare ogni cosa.»

    «Forse, ma disgraziatamente non è più in grado di dirci nulla, dopo il trattamento che gli hai riservato.»

    «Mi sembra di rilevare una sfumatura di rimprovero nelle tue parole.»

    «Sono spiacente, ma non ti ho mai nascosto come la penso.»

    «Ed è una delle cose che apprezzo di più, ma sai bene quanto fosse necessario che io dessi una dimostrazione di forza. Non ho potuto evitarlo.»

    «Scusami, sire, ma ritengo che questa inutile crudeltà avrebbe potuto essere evitata. Un gesto magnanimo sarebbe stato accolto in modo favorevole.»

    «Ne abbiamo già discusso e non intendo tornare su questo argomento. Fa tutto ciò che ritieni necessario per scoprire il colpevole: ho piena fiducia in te.»

    La notizia del ritorno vittorioso del re non giunse gradita al Maestro di Palazzo, Grimold, che non appena ebbe congedato il messaggero prese a camminare avanti e indietro come una belva in gabbia.

    Grimold era un uomo astuto e intelligente, un politico di prim’ordine, e il re lo aveva designato ad assumere la reggenza proprio in virtù di queste sue doti, ma senza valutare con la dovuta attenzione un’altra qualità ben più subdola e pericolosa: l’ambizione. Infatti, Grimold era un individuo avido di potere e in quegli anni trascorsi alla guida del regno si era immerso totalmente nel proprio ruolo, assaporando il piacere di detenere quel potere per il quale sentiva di essere nato e al quale, tuttavia, non aveva diritto se non temporaneamente.

    Sempre più spesso, man mano che la guerra si protraeva, si era cullato nella speranza che il re non facesse più ritorno per poter ottenere, finalmente, la sola cosa per cui valesse la pena di vivere e lottare. Gerrold, il fratellastro del re, non avrebbe potuto costituire un ostacolo e neppure Ivain, il giovanissimo principe ereditario, poteva essere considerato un problema; non vi sarebbe stato nulla di più facile che eliminarlo. Ma con il re, ora più che mai era circonfuso di gloria, era tutt’altro affare.

    Tuttavia non era assolutamente disposto a rientrare nell’ombra, relegato a espletare i compiti, al confronto infimi, di Maestro di Palazzo. Ancora non sapeva in quale modo, ma intendeva mantenere quel potere che, a suo avviso, era degno e meritevole di amministrare. Era disposto a tutto pur di realizzare la sua più grande ambizione e non si sarebbe arrestato di fronte a nulla; non avrebbe permesso a nessuno di ostacolare i propri progetti.

    Si fermò ansimando leggermente per l’eccitazione, improvvisamente consapevole di aver compiuto una scelta e di essersi inoltrato su una strada dalla quale non gli sarebbe stato più possibile tornare indietro.

    Ivain fu pervaso da un senso d’esultanza quando apprese la notizia che attendeva da tempo, e per la gioia prese a saltare e a far capriole, abbracciando tutti quelli che gli capitavano a tiro, compresi il vecchio stalliere e il suo compassato ed imperturbabile precettore. Corse a informare Niarcus, l’astrologo di corte, che peraltro non si mostrò particolarmente sorpreso. Infatti, dall’interpretazione delle congiunzioni astrali lo studioso aveva tratto auspici favorevoli alla vittoria e al ritorno del re.

    Nell’euforia del momento Ivain dimenticò gli insegnamenti del Maestro d’Armi, dal quale si fece sorprendere seduto con le spalle alla porta, completamente indifeso.

    Il battente si aprì silenziosamente e il Maestro d’Armi avanzò senza fare rumore, con il passo leggero di un felino. Sul suo volto apparve dapprima un’espressione di stupito disappunto e subito dopo un guizzo di collera attraversò gli occhi grigio acciaio, mentre rapidamente decideva di infliggere una severa lezione all’imprudente allievo.

    Non ebbe modo di scorgere, però, il sorriso divertito apparso sulle labbra di Ivain, che intenzionalmente aveva finto di non sentirlo. «Non essere in collera, Maestro», disse il ragazzo cogliendolo di sorpresa. «Sapevo che eri tu ancora prima che varcassi la soglia.» Si voltò lentamente e il sorriso svanì non appena vide il Maestro avventarsi su di lui stringendo un pugnale. Nonostante la sorpresa si scansò fulmineo, ma l’altro aveva previsto la sua mossa e gli fu addosso. Ivain parò il colpo incrociando i polsi e gli sferrò una ginocchiata all’inguine, poi mentre il Maestro si piegava su se

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