Una vita in secca
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Anteprima del libro
Una vita in secca - Aljoša Curavić
COLOPHON
Tutti i diritti riservati
Copyright ©2019 Oltre edizioni
http://www.oltre.it
ISBN 9788899932459
Titolo originale dell’opera:
Una vita in secca
di Aljoša Curavić
Collana Oltre confine
Sommario
autore
I – Dalla parte dell’acqua
What a Wonderful World
1– Oseka
2 – Linea n.2
3 – Morte per acqua
4 – Morte per siccità
5 – Sulla via del ritorno
6 – Joe Santo
7 – Il mare in una piscina
8 – Un fiume in fondo al mare
9 – Goodbye
10 – Disney è morto, viva Disney
11 – Caro amico ti scrivo...
12 – Il canto delle sirene
II – Dalla parte della laguna
13 – Colazione al Lido di Venezia
14 – L’elegia HIV positiva
15 – Il corpo di Davide
16 – Antipasto
17 – Cent’anni per non morire
18 – Mohamed Alì Babà
III – Dall’altra parte
19 – Linea n.2
20 – Il doge deve morire
21 – Il cenacolo
22 – Da Krogla a Boccia
23 – Dilemma di un moribondo
24 – Il quasi
25 – La Madonna e il mezzano
26 – Linea n. 2
27 – Davide e Filip
IV – Exit
28 – Camminare sull’acqua per affogare
29 – America America
30 – A proposito di omicidi di frontiera
31 – Sanja
32 – L’Ugola
33 – Anatemi e interpellanze
34 – Come ti rovino un candidato
35 – Furti d’arte parte prima
36 – Dragan
37 – Furti d’arte parte seconda
38 – Linea n.2
39 – Testamento
40 – Furti d’arte parte tre
41 – Bassa marea
V – Uscita di emergenza
Aljosa Curavić
Nato a Umago d’Istria. Laureato in Letteratura italiana contemporanea presso l’Università di Lettere di Firenze con una tesi su Scipio Slataper. Per dieci anni caporedattore del programma informativo di TV Capodistria. Attualmente caporedattore responsabile del programma radiofonico per la comunità nazionale italiana della RTV Slovenia, radio Capodistria.
Ha pubblicato:
Il saggio Firenze a Trieste, La Battana 1988. Il romanzo breve Sindrome da Frontiera, MEF Firenze; il libro è stato tradotto in croato e pubblicato dalla biblioteca di Pisino con il titolo Graničnisindrom. Il romanzo A occhi spenti, edito dalla casa editrice Edit di Fiume. Entrambi i libri hanno ricevuto una menzione speciale al concorso triestino Scritture di frontiera
. Il racconto Jesi li naviosat - Hai caricato l’orologio, pubblicato sulla rivista culturale di Sarajevo Sarajevskesveske - Quaderni di Sarajevo
, 2010. Il romanzo Istriagog, edito da Besa editore, Salento books. Il libro bilingue Portami i fiori - Prinesi mi rože, edito dalla Biblioteca centrale di Capodistria e dalla Libris di Capodistria, che raccoglie elzeviri e commenti giornalistici scritti in italiano e sloveno nell’arco di un decennio. Con la silloge Silenziario ha vinto il premio Istria nobilissima
. Alcune poesie sono pubblicate sul sito Imperfetta ellisse
, blog di poesia e altro.
Alcune poesie e alcune pagine di prosa sono state pubblicate nell’antologia Izjezika v jezik - Da lingua a lingua, dell’Associazione degli scrittori sloveni.
Ha collaborato con quotidiani in lingua italiana e slovena.
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I – DALLA PARTE DELL’ACQUA
What a Wonderful World
Dalle mie parti se piove di notte, il giorno dopo viene giù un mondo di acqua, dal cielo e dagli alti argini del Mississippi. Io, un giorno di giugno del 2017, dopo una notte di tempesta, ho trovato, scaraventata davanti all’uscio ancora umidiccio della mia casa, insieme al giornale del mattino e alle solite bollette, una busta gialla.
Oseka. È la prima parola di un plico di carte trovato dentro lo schedario contenete le cartelle cliniche dei pazienti di Luca Sinicovich, il medico veneziano sparito, durante una missione con i Medici senza frontiere, in un’area africana compresa fra l’Egitto e l’Etiopia. La cronaca giornalistica di quell’evento è ancora più precisa nel localizzare la sparizione. Durante il volo partito dal Cairo e diretto ad Addis Abeba, in un punto sopra il confine eritreo, prima di entrare nello spazio aereo etiope, il velivolo, con a bordo un’equipe di medici e alcuni funzionari locali, scomparve nel nulla, inghiottito in un baratro spazio temporale senza lasciare alcuna traccia. Neanche la traccia di un residuo qualsiasi, uno di quei residui che di solito si trovano una volta metabolizzata la consapevolezza che di nuovo un aereo è stato sopraffatto, per una ragione o un’altra, dalla gravità. Del Tupolev 154 nessuno trovò mai niente. Niente di niente, né un residuo di fusoliera, né di ali o altri pezzi. La notizia, dopo lo sgomento, la rabbia, i commenti e i pianti che di solito seguono queste situazioni, finì dove vanno a finire tutte le notizie: in quell’archivio immenso che si chiama dimenticatoio. Che poi non è altro che un espediente, uno dei tanti, per arginare il caos che si abbatterebbe su di noi se non fossimo allenati a dimenticare.
Nella bruma del caos lucido e organizzato, come lo è di solito il mondo di uno scienziato, spicca un’ombra proiettata sul mare, leggermente inclinata sui flutti. Una forma che si dissolve come un miraggio sull’orizzonte del mare in ritirata,la forma leggermente tremolante, nascente, di Davide, il personaggio principale delle carte lasciateci dal medico.
Le carte, trovate in una busta dove c’era scritto il mio nome e il mio indirizzo, Johnny K. Paries, Esplanade avenue 6666... New Orleans, mi sono arrivate durante una di quelle mattinate piovose e afose di fine giugno quando anche i grandi e spettrali alberi davanti alla mia casa di legno sembra piangano. Nelle carte, che sono una specie di diario romanzato, il medico, dopo una breve introduzione in prima persona, racconta la storia di Davide Santin, il suo alter ego, in una sorta di sdoppiamento che non lo estranea del tutto ma lo proietta nella doppia dimensione di chi osserva e di chi è, nel contempo, osservato. Ci sono le sue riflessioni sul mondo, sulle letture che faceva. A proposito, devo dire che era un uomo di ottime letture, almeno stando ai libri che cita in queste carte.
Mi ricordai quasi subito di Luca. L’avevo incontrato qualche anno prima a New Orleans durante un convegno. Voleva sapere tutto ciò che potevo dirgli dell’uragano Katrina e del suo impatto sulla gente; delle reazioni, degli attimi in cui chi sta per affogare cerca di sopravvivere. Mi aveva colpito la sua propensione filosofica, letteraria, nell’affrontare questioni mediche. Aveva gli occhi miti, belli. Sì, ho un bel ricordo di lui. Superato lo scoglio di oseka
, ciò che segue è il racconto di una vita vissuta fra le risacche linguistiche e culturali di due mondi a me, geograficamente, lontani. Le carte, così come si sono presentate a me dopo che ho aperto la busta, sono ordinate per capitoli. Il personaggio immaginato dal suo autore si muove in un mondo oscuro e difficile da cogliere per chi non è abituato a vivere in quel regno di mezzo scontroso, refrattario, spesso violento, come di solito sono i territori di frontiera. Un mondo pieno di infiltrazioni e secche improvvise, come la Louisiana, che in questi giorni sembra un asciugamano inzuppato.
1– Oseka
Dove va il mare quando c’è la bassa marea? Ce lo chiedevamo da bambini, quando si ritirava per far emergere la nera opacità dei suoi fondali. Allora i moli e le rive che usavamo come trampolini per tuffarci nel mare azzurro, cristallino, puro come le nostre vite, si trasformavano in paurosi dirupi esposti sulle nere ganasce di un mondo alterato, duro e pericoloso. Durante le giornate di bassa marea il nostro mondo immacolato scompariva dietro l’orizzonte.
Oseka... oseka, ancora prima di conoscere il significato letterale di questa parola, che gridavano intorno a me i ragazzi del luogo, ne percepii il pericolo che emanava con la sua durezza, come una sincope, come una scimitarra che si abbatteva sul nostro mondo per tagliarlo in due. La bassa marea per me avrà sempre la consistenza dura della parola dal suono orientale, oseka, che in lingua slovena e croata non vuole dire niente altro se non che il mare è in secca.
Ora, come in quei momenti di mare in secca, mi sento ossessionato dalla purezza delle cose, da una giornata perfetta, da un mondo immacolato che non c’è più. Se mai c’è stato.
Mi tormenta il ricordo di un viaggio in treno che feci tanti anni fa, durante il quale fui testimone di un brutto incidente. Dopo un po’ che eravamo usciti dalla stazione di Bologna, il treno fischiò un paio di volte e rallentò all’improvviso. Proseguì a singhiozzo per un breve tratto e si fermò, come una caffettiera spenta. Abbassai il finestrino e mi affacciai. A fianco del binario, proprio sotto il finestrino, vidi il busto di un uomo. Un uomo tagliato perfettamente a metà. La parte inferiore del corpo si era probabilmente incastrata fra le ruote della locomotiva. Bianco come un lenzuolo, dissanguato, il busto sbucava dalle rotaie. Non c’era sangue intorno. Come il mare durante le basse maree, si era ritirato chissà dove. La bocca, spalancata, sembrava un buco nero e inespressivo. Non riuscivo a togliere gli occhi da quella spaventosa visione che, dal tanfo della morte, emanava un certo candore immacolato. Un candore dal quale non riuscivo a distogliere lo sguardo, e questo mi spaventò ancora di più.
Il candore mi attrae, come il dolce galoppo di un Lipizzano, come la sfera luminosa e bruciante del sole. È così, e punto. Senza una ragione precisa. È un’idea, quella della purezza, che, come l’ossessione per il divino, cerca una radice nella carne, nella speranza che la trascenda oltre la putrefazione, che la elevi verso cime siderali. Non importa che sia umana, può essere anche carne di qualche altro animale, o carne trasfigurata in macchinari. Sì, la purezza è un’ossessione, per noi bastardi. Perché è giusto che lo sappiate: io faccio parte di una antica e irrequieta razza bastarda che si immagina la purezza come un grumo appiccicato da qualche parte, aggrappato all’adipe, come un gonfiore nella carne, come un nodo nel sangue, un corto circuito nel sistema nervoso, un cancro infallibile. È un‘ossessione che ci fa correre, correre come pazzi, come se volessimo uscire dal nostro corpo, o entrarvi per stravolgere la forma. È una rincorsa pazza, la nostra, verso la purezza perduta, mai posseduta. Una rincorsa felice ma disperata, come quella del cane che rincorre una palla calciata dal padrone. Una rincorsa folle che nella palla vede qualcosa che non è palla, che non è oggetto in movimento, ma l’eco di un suono lontano, che non c’è più. Tac! Come è felice il cane quando sente questo suono che lo fa scattare! Come è disperato, quando lo azzanna per riportarlo indietro al padrone, come cosa che non gli interessa più, inappetibile, indigesta, come una preghiera recitata male da ripetere all’infinito, nella speranza che finalmente si incarni in qualcosa di meno stupido di una palla, in qualcosa di carnoso, grondante di sangue.
Le due idee, quella della purezza e quella dell’impuro, sono riuscite a incarnarsi alla perfezione nel mondo del migliore amico dell’uomo. Il cane, oggi, è la nostra ossessione. Non so perché, ma me ne son fatto una ragione, come del fatto incontestabile che la solitudine e la morte sono il nostro destino. Le sole due cose veramente pure che ci vengono concesse. Scusatemi se ora chiamo in aiuto Thomas Mann. Non lo faccio per civetteria intellettuale o spiccia saccenteria, ma per pura praticità, visto che proprio mentre sto scrivendo queste righe, che ancora non so dove mi porteranno, mi son trovato fra le mani il racconto Cane e padrone. Con toni apparentemente pacati e tranquillizzanti, Thomas Mann racconta, nelle prime pagine del libro, le peculiarità anomale che rendono il suo un cane visibilmente bastardo. Il ricciolo sul petto, le chiazze di colore grigiastro, conferiscono a Bauschan un aspetto quasi ridicolo. Impuro è non soltanto il cane ma anche il luogo dove vive insieme al padrone. Un luogo dove si scontrano due paesaggi contrapposti: quello della natura e quello della città. Una natura sopraffatta dalla corsa inesorabile della città, così come la città è sopraffatta dall’inarrestabile moto della natura. Scontro che svela le fondamenta selvagge di tutto ciò che cova sotto la superficie delle nostre certezze. Quelle fondamenta sono un fiume in piena che, quando trabocca ed esonda, è peggio della siccità, e trasforma la centralità della città e della natura in periferia del dolore.
Da Lubecca a Castello-Kaštel, la cittadina immaginaria costruita su coordinate reali, che sto per descrivervi, il passo non è poi così lungo. Così come non è lungo il passo dalla purezza alla putrefazione, o dal caos alla forma. In fondo, nascere e morire è la stessa cosa.
Dov’è finito oggi quel fiume che senza posa lambisce le nostre fondamenta? Recentemente ho letto un articolo sull’evoluzione del cane negli ultimi cento anni. Ci sono un centinaio di razze create dall’uomo. Razze modificate nel tempo, secondo i gusti, secondo le mode. Musi allungati o accorciati, zampe tozze o meno tozze, più o meno inarcuate, a seconda del gusto estetico del tempo. Sono l’espressione dell’ossessione umana per creare il cane perfetto. Ma, si tratta poi di cane perfetto
o di qualche cosa di altro? O è quel Dio che, sfuggito dalla nostra mente, si è insediato in una irraggiungibile forma canina? Un Dio che, stanco della sofferenza dell’uomo inchiodato sulla croce, si è reincarnato nel migliore amico dell’uomo: in un cane, nell’idea di un cane.
Io, da parte mia, esaurita ormai la passione per i cani, ho scolpito, goffamente e con molta imprecisione, la figura di Davide, che poi altri non vuole essere se non un’idea di me.
2 – Linea n.2
... durante una giornata piena di sole del 2015, l’autobus rosso della linea urbana n. 2 di Castello-Kaštel, si ferma, con uno scricchiolio, davanti ad una palazzina grigia e scalcinata. Sul display della fiancata si alterna la scritta luminosa, in italiano e in sloveno, che indica la destinazione: Ospedale...Bolnišnca... Ospedale... Bolnišnica.
Le portiere, aprendosi, emettono un rumore attutito, asmatico. Dalla parte opposta della strada, coperta dalla lunga sagoma dell’autobus, alcune palme striminzite, strapazzate dal vento del mare, mescolano le loro ombre alle ombre dei radi passeggeri che si intravedono all’interno della corriera. Nessuno sale. Nessuno scende. Dopo un po’, con lo stesso sbuffo e con lo stesso scricchiolio,l’autobus riprende la sua corsa. L’ospedale si trova su un monte, fuori città, in mezzo a un campo incolto sospeso sul mare, verso ponente, nelle retrovie di quell’avamposto ex veneziano, ex austriaco, ex italiano, ex jugoslavo arroccato sul confine sloveno italiano, incuneato a nord, sopra l’ultimo lembo del mare adriatico. C’è ancora un po’ di strada da fare.
Tutto d’un tratto, un uomo in toga esce dall’angolo di una via sventolando due ampie maniche verso l’autobus. Impacciato, apre entrambe le braccia verso la postazione dell’autista, quando bastava