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La casa di Posillipo
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La casa di Posillipo

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About this ebook

La storia nasce nel micro universo della famiglia Costabile e della casa di Posillipo costruita nel 1920. Vicenda che corre in un arco di tempo, che partendo dal presente torna agli anni Trenta e alla Seconda guerra mondiale. Tutto ha inizio per via del breve soggiorno a Napoli di Amedeo Costabile, ultimo discendente, che risiede e lavora da alcuni anni a Londra. L'occasione del rientro è il disbrigo della pratica di vendita della casa di Posillipo. Quest'operazione, che sembra già decisa, finirà invece per diventare il fulcro di riflessioni e ripensamenti da parte del giovane, che si ritroverà a rievocare tutto il passato della famiglia e della casa dov'è vissuta. Tutto torna e Amedeo deve fare i conti con la Pace, la speranza, l'avvento del fascismo e del nazismo, ma anche con le radici e la contrapposizione tra l'esigenza moderna di valicare confini e legacci territoriali e la necessità di mantenere e rinsaldare il valore delle proprie origini. Il senso di appartenenza, che regola drammaticamente i rapporti interpersonali, non può non subire l'influsso catartico della città di Napoli con le sue caratteristiche peculiari come la spontaneità, l'estroversione, la familiarità.
LanguageItaliano
Release dateMay 27, 2019
ISBN9788899735944
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    La casa di Posillipo - Ciro Pinto

    Gibran

    La città obliqua. Settembre 2016

    La città si affaccia nei vetri delle porte automatiche che ci aspettano in fondo alla sala degli arrivi, pronte ad aprirsi per sputarci fuori, nella luce del giorno. Noi avanziamo con gli occhi appannati e le gambe un po’ rigide in una specie di processione melensa, animata soltanto dal tlac tlac tlac delle rotelle dei nostri bagagli sul pavimento. Ci avviciniamo alle porte caracollando di sonno. Davanti a me un tizio in pantaloncini, con le scapole stranamente sporgenti e i polpacci ricoperti da peli biondicci e rizzati dall’aria condizionata, armeggia con il cellulare trascinando il trolley con stizza, come se quello fosse un bambino recalcitrante a seguirlo. Ogni tanto rallenta all’improvviso e ogni volta cerco di non finirgli addosso.

    Durante il volo, pensieri rumorosi come mosconi si sono sbizzarriti a tenermi con le palpebre sbarrate. Adesso la traiettoria disordinata di quelle ronzanti riflessioni sta sprofondando in una melma soporifera che inghiotte ogni ragionamento. Tutta la mia energia è profusa nello stringere il manico del trolley mentre gli occhi cercano di reggere l’impatto con la luce.

    Fuori c’è una lunga fila di taxi con le portiere aperte e gli autisti che fanno capannello. Discutono animatamente di qualcosa che anche da lontano pare divertente perché se la ridono e si danno grosse pacche sulle spalle. Quando si accorgono che il sottoscritto e un centinaio di passeggeri stanno uscendo dal settore degli arrivi, appena sbarcati dal volo 395 della British Airways che da Londra porta direttamente qui, si fiondano nelle vetture e mettono in moto. S’incolonnano in un lungo corteo che si muove come un serpente minaccioso nella nostra direzione.

    L’autista del taxi che tocca a me avrà all’incirca la mia stessa età, anno più anno meno, insomma una trentina ce li ha di sicuro, ha una t-shirt attillata, i muscoli poderosi e l’occhietto furbo. Dice che c’è un po’ di traffico, che perciò è meglio prendere la tangenziale, anche se allungheremo il percorso. La domenica mattina a quest’ora di sicuro le strade saranno vuote come quelle della City e forse di tutte le città del mondo. Ma preferisco non fare obiezioni, gli rispondo che può decidere come meglio crede. Di certo non sarà una manciata di euro in più a rovinarmi la giornata. Il tassista ha un guizzo di soddisfazione negli occhi che gli rubo dallo specchietto.

    Va bene così, meglio lasciarsi andare e godersi la passeggiata.

    Me ne scendo pigramente lungo lo schienale del sedile, stendo le gambe e penso a Daryl. Probabilmente se ne starà ancora a letto sommersa dai suoi cuscini o starà dando da mangiare a Cyril fuori sul terrazzino scrutando in direzione del London Eye con la speranza di bucare la nebbia. Invece qui il sole è abbagliante, il vento di settembre pulisce l’aria e la rende trasparente. Questa mattina una sorta di sfera luminosa si è posata sulla città. Il riverbero della luce accarezza Pizzofalcone e San Carlo alle Mortelle, si cala lungo i fianchi di Posillipo e del Vomero fino a raccogliersi sulla costa. I grattacieli di vetro del centro direzionale brillano di mille riflessi, sembrano braccia alzate verso il cielo. Ma la città più che cercare il cielo scivola a mare nella tentazione continua di tuffarcisi portandosi dietro i vicoli stretti e cialtroni, le piazze ampie e persino le colline.

    Questa città mi è sempre parsa obliqua anche se non lo è.

    Mi chiamo Amedeo, come mio nonno. Me ne sono andato da qui una decina di anni fa, all’incirca. Ogni tanto ci sono tornato e una volta ci ho portato anche Daryl, due anni fa o forse l’anno scorso. In questo momento non riesco a essere preciso, forse per colpa del sonno che sto accumulando da un po’ di giorni.

    Me la ricordo Daryl a Napoli, frastornata e felice, come se si fosse trovata in un grande videogame.

    Questa volta non è venuta con me. Devi decidere da solo, mi ha detto. Come se poi non la riguardasse la mia decisione. E invece sì. Potrebbe dover traslocare, con tutte le sue lentiggini, i capelli rossi e arruffati, i tre cuscini a cui si aggrappa per dormire a prescindere se ci sia anch’io nel nostro letto. E dovrebbe portare con sé Cyril, l’unico pappagallo londinese che non spiccica una parola. It isn’t even stammering, mi fa Daryl tutte le mattine quando si avvicina a lui e lo assale con una sfilza di good morning con la speranza che ripeta o che almeno balbetti qualcosa.

    E per non parlare poi del suo lavoro e dei suoi clienti, come potrebbe mai trasferirli qui?

    Comunque l’ipotesi è remota. Ho già deciso, non voglio essere invischiato in questa storia, non rientra nel mio life plan, e anche la città non ne fa più parte da quando sono andato via. Quando mi sono trasferito a Londra per partecipare a un master in finanza, sapevo già che non sarei più tornato a vivere qui. L’ultima volta che ci sono venuto è stato sei mesi fa. Dovetti prendere un aereo in tutta fretta. Imma mi aveva chiamato al telefono e mi aveva detto: venga dottore, venga presto. Ma non feci in tempo. Quando arrivai, mio padre era già morto. Trovai sulla sua scrivania una pila di fogli e delle foto. Imma mi riferì che erano per me, che mio padre le aveva raccomandato fino all’ultimo di consegnarmeli.

    Siamo arrivati. Il tassista mi elenca una serie di supplementi da aggiungere alla cifra che appare sul tassametro, ho il vago sentore che se li stia inventando di sana pianta, ma gli chiedo il totale senza fare storie. E ci aggiungo pure qualche moneta di mancia. Se ne va con gli occhi trionfanti.

    In questa città funziona sempre allo stesso modo, dovresti guardarti il culo da tutti. Ma oggi non è il caso, lascio perdere. Comunque, poco male, tra qualche giorno firmerò quello che devo firmare e me ne tornerò a Londra, sperando di poterci restare.

    Clive, il mio capo, che poi anche lui ha un capo e il suo capo ne ha un altro, -insomma Clive è a livello 1 di una lista alta come la Tower 42, invece io, insieme a una folla di altri promoter finanziari come me, sto a quello 0- pensa che non sia così facile restare a Londra. Ieri, mi fa col suo accento cockney: vai al Sud? Sì. Ma poi torni? E certo. E ti conviene? mi fa con lo sguardo obliquo. Non ho risposto. Ha bevuto un sorso del suo power drink, ha rimesso la faccia dietro al pc e ha sbuffato deluso. Di sicuro gli avranno dato una mission: buttare fuori quanta più poltiglia -noi promoter- possibile. E lui ci si è ficcato a capofitto. Ha già fatto in modo che un paio di promoter abbiano alzato le chiappe e lasciato le scrivanie. Uno se n’è tornato nel suo paesino del Galles in cerca di un improbabile riscatto nel settore turistico. L’altro si è messo a vendere polizze assicurative. Ha creato un sito sfavillante che si apre con un good luck che abbaglia. Per il momento gli unici iscritti al suo sito sono degli spammisti con nomi impronunciabili e nickname esotici.

    Clive non è cattivo, ma ha una fede cieca nella priorità del secolo: salvarsi il culo. E il suo culo evidentemente resterà al sicuro se riuscirà a buttare fuori quanta più gente è possibile. Di sicuro questo gli avranno promesso quelli dei piani alti, ognuno intento a proteggersi il proprio di culo. Ha iniziato un mese fa con manovre subdole, girando ogni tanto tra le scrivanie e facendo osservazioni vaghe, buttate lì, come se fossero banalità. Tipo: ragazzi così non va bene, guardiamoci intorno, c’è la crisi, eccetera eccetera. Poi, pian piano, ha rincarato la dose prospettando scenari sempre più foschi fino a veri e propri finali apocalittici.

    Una settimana fa si è messo al centro della sala e con lo sguardo stretto e le labbra piegate all’ingiù ha preso a pontificare. Sarà un’evacuazione generale, tutto il cuore pulsante del business, la nostra City, si sgonfierà d’un tratto come una palla bucata, come in una maxi-esercitazione contro gli attentati terroristici. Poi ci ha guardato con gli occhi da pesce lesso e se n’è ritornato dentro il suo gabbiotto, ma ha continuato a scrutarci da dietro il vetro. Insomma cerca di demolire in tutti noi ogni speranza residua che nel nostro settore si possa sopravvivere. E così quelli più a rischio, quelli che i numeri proprio non riescono a farli, hanno cominciato a guardarsi intorno.

    Ormai in giro c’è aria di smobilitazione. Tutto questo perché dopo l’esito del referendum sarà dura per tutta la City restare il motore finanziario dell’Europa se nell’Europa non ci sta più. Come dire che un’auto ha il motore in un’altra auto di una casa costruttrice concorrente.

    Le società come quella in cui lavoro già pensano al dopo Brexit. E pensano di andarsene, di sbaraccare. In giro si parla di Francoforte. Finirà che dovremo trasferirci lì, io, l’inglesina e il pappagallo. Ma a Daryl Francoforte non piace. Meglio Napoli, mille volte meglio, dice. A lei piace assai. Ogni tanto mi domanda facendo la voce azzeccosa: quando mi porti nella tua città? Mi manca tutta quella ammoena. Ammuìna, si dice ammuìna, mi limito a risponderle.

    Ma a Napoli che lavoro farei mai? Boh.

    Il taxi se n’è andato. Davanti a me un cancello di ferro cromato nasconde alla mia vista tutto quello che c’è dietro. È alto e con la vernice scrostata in qualche punto dove comincia a formarsi della ruggine. Di lato, un cartello con il segnale di pericolo avvisa di fare attenzione perché il cancello è automatico. Da qualche anno in questa casa non ci abita più nessuno. L’ultimo inquilino ci aveva messo delle telecamere, una a ogni lato del cancello, ma i fili sono strappati e una ha l’obiettivo spaccato. Ora sono cieche.

    Mi prende la voglia di girare le spalle, di andarmene via e mollare tutto. Dietro il cancello c’è la casa con tutti i suoi cento anni, poco più o poco meno. Novantasei, per essere precisi. Si vede che comincio a svegliarmi.

    Dovrebbe venire qualcuno per farmi entrare, qualcuno con le chiavi, e insieme a lui mi dovrei cacciare nel passato, in tutto il passato della mia famiglia. Mi tremano le gambe, più che un tremore, mi prende un fastidio, un’insofferenza a stare fermo. È sempre stato così fin da piccolo. Sono le gambe la parte del mio corpo che per prima si ribella quando una cosa non mi va. Bè, una decisione difficile da prendere se già le gambe vorrebbero fuggire.

    Mi controllo, devo aspettare.

    Mi guardo intorno. La strada è deserta. Sul terrapieno che sta un paio di metri più su di fronte alla casa, il parco privato con le palazzine basse ed eleganti sonnecchia ancora a quest’ora. Mi arriva nel naso il profumo penetrante dell’eucalipto che sta qui da anni e anni. La luce, i colori, gli umori di questa città sono sempre gli stessi, sembra che abbiano qualcosa a che fare con la resilienza. Sì, resistono a tutto, stanno sempre là, appesi al suo cielo, e non puoi non farci caso, sia che stai tra la gente sia che te ne stai da solo come me in questa mattina strana. Devo ammettere che questa città mi ha sempre preso. Insomma non mi è mai stata indifferente, e non penso dipenda dal fatto che sia la città dove sono nato.

    Ma allora perché sono andato via?

    Nun o’saccio cchiù, mi viene di pensare, così, all’improvviso, nel mio dialetto. Da ragazzo ci ero legato. Ricordo che in certi momenti mi entrava nella pelle e la sentivo dentro di me, dentro la mente e la pancia. Sentivo che la gente era la mia gente, che una bestemmia, una mala parola, un sorriso erano miei, come il cielo, il mare, le colline, i vicoli, la monnezza, ’o cafè, eccetera eccetera. Insomma tutte queste fregnacce qua. Dovunque la trovavo, dentro le pietre delle vecchie chiese, sotto i vasoli di piperno delle strade antiche, nello sguardo degli altri che mi appartenevano come io sentivo di appartenere a loro, la sentivo mia. In quei momenti così non mi sembrava possibile vivere in nessun’altra parte del mondo. E non m’importava se ogni tanto la città diventava scorbutica, ruvida come la carta vetrata. Se c’era brutta gente che ti guardava con lo sguardo appestato. Gente con la fottuta voglia di sopraffarti, di buttarla sempre in casino.

    Eppure, sono andato via e adesso, in questo momento, non lo so più perché ho lasciato questa città.

    Apro una tasca del trolley, tiro fuori una pila di fogli, dei quaderni e delle foto. Tutta roba che è appartenuta a mio padre. Mi casca un foglio ripiegato in quattro. Era ficcato, schiacciato in tutto quell’ammasso di carta. C’è scritto qualcosa con la mia grafia. Lo rivedo dopo tanto tempo. Mi raccomando, papà, in gamba! Questo c’è scritto. Ed è stato il mio saluto quando sono partito. Un rigo su un A4, il resto sfacciatamente bianco.

    Finché ho vissuto qui, ci ho vissuto con mio padre, l’avvocato Armando Costabile. Mia madre? Bè, lei ci lasciò quando ero appena riuscito a capire come fare a camminare, in pratica avrò avuto un anno.

    Il tizio che devo incontrare mi chiama sul cellulare, mi dice che ha un po’ di ritardo, si scusa, sta arrivando. Mi alzo sulla punta dei piedi per cercare di vedere qualcosa oltre il cancello, ma è troppo alto. Intravedo soltanto la parte superiore della facciata principale fino al lastrico solare con sopra un’antenna parabolica. Non riesco a vedere la quercia, chissà se c’è ancora.

    Conosco un sacco di storie di questa casa, in pratica tutte le storie della mia famiglia. Mio padre ha incominciato a dieci anni a scrivere di tutte le cose che gli sono capitate di cui aveva memoria, cioè da quando di anni ne aveva quattro. La sua grafia da piccolo, un po’ ordinata e un po’ no, mi ha riempito gli occhi in questi ultimi giorni. E ha continuato a scriverne anche dopo, fino a quando di anni ne aveva quaranta all’incirca. Ah, poi si è preso pure la briga di riassumere le storie avvenute prima della sua nascita, partendo da quando la casa di Posillipo è stata costruita, cioè dal 1920. In pratica un secolo fa. A leggerlo sembra un romanzo. Mio padre ci ha messo tutti i racconti che gli faceva suo nonno, che si chiamava come lui: Armando.

    Tutta questa sequela di fatti, di giorni e di anni l’ha lasciata a me. Bè, ogni tanto ha tentato di raccontarmela a voce fin quando sono rimasto a vivere con lui, ma io con la testa non c’ero mai, ero sempre da qualche altra parte, dove non mi serviva conoscere le sue storie.

    Questi fogli scritti fitto fitto che ho letto e riletto strappando le ore al sonno, e queste foto ingiallite e logore delle persone che sono state la mia famiglia mi hanno intontito. Intanto il notaio aspettava una mia telefonata. Ma io ho preso tempo, sono stato a pensarci dei giorni, e infine sono venuto qui, per capire, per decidere. E ora che sono davanti alla casa, le mie gambe continuano a essere incerte, instabili. La verità è che non ci voglio entrare in questa storia di tenermi la casa. C’è un secolo di vita qui dentro, ma è tutta roba andata, finita. C’è tutto quello che loro hanno provato, vissuto, c’è la loro storia e la storia delle altre persone che l’hanno abitata o semplicemente frequentata, ma è tutta gente che non c’è più.

    Ora, a essere onesti, non so dire quante siano le verità e quante le bugie, quante cose siano diventate nei loro racconti più belle di quanto lo fossero davvero, o più brutte, né posso chiedere a mio padre, visto che non c’è più. E certo né lui né il mio bisnonno potevano conoscere i pensieri, le intenzioni, le angosce e le gioie più nascoste di tutte le persone che hanno vissuto con loro. Le verità, quelle vere, è soltanto questa casa a conoscerle. È lei che li ha sentiti respirare affannarsi sperare dannarsi. Nelle sue pareti ci sono nascosti i pensieri e le emozioni di tutti quelli che hanno calpestato il suo pavimento.

    Ma lo ripeto, io non voglio essere invischiato in questa storia. Sono venuto qui, mi sono lasciato un po’ di giorni per decidere. Ma so che ho già deciso.

    Aspetto il tizio delle chiavi.

    La facciata della casa, almeno la porzione che riesco a scorgere dietro il cancello, mi appare con la vernice scolorita e sfibrata dagli anni, la parabola sul tetto è inclinata e arrugginita.

    Le gambe continuano a fremere.

    Vorrei tornamene a Londra, carezzare la pelle di Daryl, darle un bacio mentre tenta per l’ennesima volta di estorcere a Cyril uno straccio di good morning.

    Il tizio non arriva.

    Mi siedo a terra, accanto al mio trolley che invece resta ritto e imperturbabile. Una brezza leggera mi carezza il collo. Chiudo gli occhi e mi dico ancora una volta che devo restare fuori da questa storia.

    Però anche Chet, come Clive, mi ha detto il contrario, venerdì in ufficio, mentre stava come sempre con gli occhi ficcati dentro la Big Mama.

    La Big Mama è la schermata che appare sui nostri pc con le quotazioni di titoli e valute in real time che comandano l’andamento dei mercati internazionali della finanza. A chiamarla così per la prima volta è stato Abramy, un pezzo di ragazzo color cioccolato con due scintille come occhi. Abramy è un giamaicano di terza generazione, vive nel quartiere di Brixton e fa parte della squadra di pulizia che si occupa di limitare i danni del lerciume che produciamo in ufficio. Qualche tempo fa, mentre passava con il suo straccio e la bottiglietta di alcool tra le scrivanie, dove noi sfatti finivamo di bruciarci gli occhi davanti ai pc come sempre ben oltre l’orario di lavoro -ma ce l’abbiamo mai avuto un orario di lavoro? mi chiedo- ammiccava e ci diceva in continuazione: ragazzi, la Big Mama vi tiene per il cravattino, senza il suo permesso non andate nemmeno a pisciare. Anche per me era così, ci disse con l’aria di saperla lunga. Facevi il promoter? Gli domandammo in coro. Ma no, la mia Big Mama era una vera big mama. Era mia nonna. È arrivata qui da Philadelphia per seguire il marito che dopo il grande sbarco nel ’43 decise di rimanere in Europa, perché dopo averla salvata dai nazisti e dai fascisti se la sentiva anche un po’ casa sua. Anche lui aveva avuto la sua Big Mama. Era una sagoma scura, una nave con un tratto di strada al posto dei ponti. Una cazzo di portaerei. Lui e gli altri, dopo una serata di bagordi, strafatti di whisky, stavano sul molo a guardarla da lontano e aspettando le lance che venissero a riprenderli per portarli a bordo e scaricarli in qualche altro inferno. Era la loro prigione e la loro salvezza. E anche per me mia nonna era una prigione e una salvezza. Non ricordo quante volte mi abbia infilato la testa nel water per farmi cacciare fuori le schifezze arrotolate nei miei succhi gastrici quando rientravo la notte impasticcato e fuori di testa. E intanto mi prendeva a pugni e calci. Ah, lei era una vera Big Mama. Non riuscivamo a capire che c’entrassero la nonna e la portaerei con la nostra scheda riassuntiva dei mercati. Ma il buon Abramy quel giorno era in vena di chiacchiere e ce lo spiegò. Per voi quella benedetta schermata è una cosa simile alla Big Mama: è il vostro dio cattivo e qualche volta la vostra nonna salvaculo.

    Bè, in effetti aveva ragione: è lei che segna il ritmo delle nostre giornate e del nostro livello di testosterone. È sempre lei che ci ficca a letto con la voglia di non svegliarci più oppure ci regala momenti di entusiasmo da farci diventare megalomani.

    La cosa ci piacque e oggi non c’è nessuno in ufficio che non chiami la nostra schermata Big Mama.

    Ma torniamo a Chet. Lui lavora due scrivanie dietro di me, è un ragazzo di quarant’anni, single dei più convinti, e perennemente alle prese con le svariate tacche che tagliuzzano i bordi della sua scrivania. Sul lato lungo di un metroesessanta ogni tacca testimonia il suo personale grande slam (primo della speciale classifica dei promoter per vendita, per miglior prezzo e per maggior numero di azioni vendute). Sul lato verticale di manco un metro ci sono le ragazze. Tutte quelle che gliel’hanno data. Questo non è certificato, però. E in ogni caso, le tacche sono molto meno che dall’altro lato.

    Chet dice di essere londinese ma Clive non fa che ripetere che è un provinciale, che è cresciuto tra le pecore in una contea rurale, che a Londra ci è venuto soltanto quando gli sono spuntati i peli in faccia e sul pube. Dice pure che da vicino si sente ancora la puzza di sterco di pecora. Clive disprezza Chet perché non sopporta che il cafone ora spadroneggia nella City con la sua faccia da culo.

    Eh sì, perché Chet è il miglior promoter che abbiamo in azienda. Passano giorni interi che non sai dove sia, poi torna, mette su la faccia del superman, e segna le sue tacche sul bordo orizzontale. Quando sta in ufficio, passa tutta la giornata davanti al desktop di un pc a scrutare la Big Mama. Se la Big Mama riporta numeri buoni lui mette su una faccia accettabile, prende il telefonino e manda messaggi a tutte quelle che secondo lui smaniano dalla voglia di dargliela, e dice loro di tenersi pronte. Se i numeri sono cattivi rimane con gli occhi sgranati, spippola in continuazione sul pc per cercare notizie sull’andazzo dei mercati internazionali e intanto bestemmia e continua a ripetere che le sue ragazze dovranno aspettare, perché con quei numeri ora ce l’ha moscio, morto e seppellito nelle mutande.

    Dicevo che secondo lui questa storia della casa di Posillipo è una figata, una fortuna last minute come smaltire bond super gonfiati tipo popcorn un attimo prima della chiusura dei mercati, cioè prima che scoppino. Mi ha detto con la voce sudigiri che non c’è più molto tempo. Dalla sua scrivania, due file dietro la mia, mi ha gridato che bisogna scappare da Londra, che è una cazzata restarsene nella City. Che è tutto una cazzata. Non hai niente da decidere, togli il culo da qua, qua sta andando tutto a puttane, mi ha detto e poi ha riso amaro.

    Ho guardato anch’io la Big Mama. Ha ragione. Sta andando tutto a puttane. Non mi sono nemmeno voltato a guardarlo, Chet, due scrivanie dietro la mia, per non vedere la sua faccia lunga come il Gherkin, il grattacielo a forma di cetriolo che si vede dalla vetrata del nostro ufficio. Ma ho immaginato tutte le smorfie che fa quando le cose girano storte.

    Insomma sto qua, seduto davanti alla casa di Posillipo, con gli appunti di mio padre ai miei piedi, aspettando il tizio delle chiavi, e comincio a pensare che la cosa non è così semplice. Che forse devo pensarci bene prima di firmare. A Londra sta andando tutto a puttane, ha detto Chet. E lui non ha nessun ingaggio da parte dei capi per spaventarci, lui è uno di noi. Se dice così vuol dire che è vero. Lui sta sul pezzo da vent’anni, è scampato alla bolla e a tutti i crack degli ultimi anni galoppando come un ranger nel fondo del canyon sotto una pioggia di frecce apache. Chet dice che ormai la City è un inferno, e non c’è bisogno della Big Mama o degli analisti con le loro seghe mentali per rendersene conto. Lui sta sul pezzo, lui ha in tasca i bigliettini da visita di tutti quelli che contano. E perciò se dice che è un inferno, e che le fiamme ormai scottano troppo pure per i diavoli, allora vuol dire che è vero.

    È tutto maledettamente vero.

    La casa della pace. 1920-1943

    1.

    La città sonnecchiava ancora nelle vie eleganti, ma dentro i suoi vicoli e vicino al mare molti si erano scetàti e accuminciàvano a fare i travagli loro. Pure Armando Costabile, medico chirurgo agli Incurabili, si svegliò presto quella mattina, nonostante abitasse in un palazzo nobiliare di San Pasquale a Chiaia. Si preparò senza fare rumore per non svegliare Franca che dormiva ancora profondamente e il loro bambino che nella culla di lato al letto emetteva un suono soffice che gli riscaldò il cuore. Lanciò verso di loro uno sguardo premuroso, un incrocio tra la gratitudine e la preoccupazione, poi richiuse la porta. Attraversò il lungo corridoio in punta di piedi, dalla camera dei suoi genitori usciva prepotente il ronfo di suo padre, la oltrepassò con un sorriso e uscì.

    Era un bel giorno quello, perché teneva da fare una cosa che gli piaceva assai. Prese l’automobile nuova di fabbrica e si diresse sul lungomare prima di passare dalla barberia.

    A Mergellina volle fermarsi, scese dalla macchina e si guardò intorno. Dopo due anni ancora sentiva il bisogno di starsene per qualche momento da solo con attorno la sua città. Nel naso gli arrivava l’odore penetrante che saliva dal mare, che con un moto leggero cunnuliàva le barche legate ai corpi morti davanti alla spiaggia. Sulla riva quattro scugnizzi facevano ammuìna tuffandosi dagli scogli o schizzandosi con l’acqua tra le bestemmie dei pescatori che sbrogliavano le reti, seduti sulla rena accanto alle barche tirate a secco. Uno di loro si alzò e gli bestemmiò i morti appresso, ma loro continuavano senza rispetto e l’ammuìna aumentava.

    Più in là sulla rena due popolane friggevano pastacrisciute nell’olio cocente che schizzichiava in una grossa padella di rame sopra i carboni, e ogni tanto dicevano male parole quando gli schizzi bollenti centravano la loro faccia. Un’altra preparava i cuoppi con la carta di giornale, cantando Palomma ‘e notte e Torna a Surriento. Quando lo vide, la donna che cantava sporse il braccio con un cuoppo appena riempito e gridò con la voce squillante: Eccellenza, accattàteve ’e pastacrisciute co’ zuccàro, accattàteville. Intanto, le parole stampate sul foglio di giornale venivano inghiottite dalla macchia d’olio che si espandeva. La donna continuava a offrirgli il cuoppo con la voce che stava diventando aspra, cattiva.

    Armando girò le spalle. Si voltò indietro per guardare il profilo del Golfo che curvava dal Castel dell’Ovo al Molo sotto il Maschio e poi alle fabbriche del Pascone, fino al Vesuvio. Il lungomare era quasi deserto, a parte pochi passanti frettolosi.

    Prima della guerra le signore eleganti al braccio di uomini impettiti si godevano la passeggiata accanto al mare, qualche automobile passava ogni tanto spaventando i cavalli dei calessi e delle carrozze che ancora si vedevano in giro. Ciorme di ragazzini aspettavano alla fermata che il tram elettrico passasse per saltare sul predellino e farsi portare in giro senza pagare. Nelle stradine che dalla Riviera di Chiaia salivano fino alla strada nobiliare della città l’odore di bucato, lavato col sapone buono, quello di Marsiglia, arrivava fin dentro le narici dei passanti. Il profumo del pane ancora caldo usciva malizioso dalla bottega del panettiere che si inchinava dinanzi a ogni signora per bene che varcava la sua soglia e la ringraziava di andare a comprare da lui che teneva le spasèlle di pane più belle del quartiere.

    Ma ora non era più così.

    Erano passati due anni dalla fine della guerra, quella guerra lontana che aveva portato via gli uomini in terre furastiére, che li aveva seppelliti o li aveva restituiti dopo avergli strappato la salute e a volte pure l’anima. Che aveva portato fame e miseria, che aveva scavato la faccia della gente. E ora, che era finita, ancora appestava la città. Le fabbriche del Pascone erano ferme, le loro ciminiere asciutte come le pance dei disgraziati tornati dal fronte che ora stavano senza lavoro e non sapevano come fare per dare a campare alle famiglie loro. I prezzi aumentavano e quelle poche lire che giravano non bastavano mai. E così erano iniziati gli scioperi e i tafferugli tra gli operai e le forze dell’ordine. Gli squadristi del fascio napoletano erano sempre più numerosi e prepotenti e facevano paura.

    Con questi pensieri, Armando Costabile arrivò alla sua barberia. Era stato in quella barberia che suo padre lo aveva portato per fargli fare la prima rasatura. Se lo ricordava quel giorno. Si era seduto sulla sedia davanti allo specchio sotto il suo sguardo severo e aveva nascosto il fastidio per il bruciore, con la pelle che gli si arrossava a ogni passata del rasoio. L’emozione gli faceva tremare il cuore in petto, perché lo sapeva che quel fatto significava che era addiventàto un uomo. E fu sempre lì che era andato appena tornato dalla guerra, con la barba lunga e i capelli arruffati. Si era guardato in quello stesso specchio e ogni tanto aveva incrociato lo sguardo del barbiere e tutti e due avevano la meraviglia negli occhi ché la guerra era finita e loro stavano ancora là.

    Il barbiere, Alfonso, era sempre lo stesso e ormai andava per i sessanta, aveva ancora la sua smorfia di ironia sulla faccia e una parlantina che avrebbe stroncato anche un sordo. Il suo garzone, Tumiello, non era tornato dalla guerra. Quando era ancora vivo gli stava attaccato come un cagnolino dietro al padrone, e si staccava soltanto per spazzare via i capelli appena tagliati che si accumulavano sul pavimento. Dicevano che una granata gli aveva portato via la testa e che quelli della Croce Rossa non l’avevano più trovata. Da allora, Alfonso non aveva avuto cuore di cercare un altro apprendista.

    Armando stava assettato lui solo nella fila di sei sedie davanti alla tirata dello specchio. Era presto, è vero, ma forse di quei tempi per molta gente anche il barbiere era un lusso. Dietro di lui una stesa di quadretti dalla cornice dorata con dipinte le scene della marina: le barche, il mare, ’a rena, due fidanzatini accucciuliati annànze all’acqua. Erano stati pittati a olio da Tumiello, che quando teneva gènio era bravo assai con i penniélli.

    Alfonso passava con mano lesta il rasoio sulla coramella scrutandogli la faccia con fare professionale, senza mai smettere di parlare. Anche i mobili scuri, lo specchio, i quadri e le sedie in similpelle conoscevano a memoria i suoi discorsi, così come il povero Armando che ogni tanto si limitava a un cenno con la testa e non vedeva l’ora che la rasatura fosse finita. Quella mattina doveva andare al Casale per vedere a che punto era la costruzione della sua nuova casa. Come se gli avesse letto nel pensiero, il barbiere gli chiese come procedevano i lavori a Pusilleco. Lo sguardo del medico s’illuminò, succedeva sempre così quando si parlava della casa di Posillipo, e gli rispose che stava proprio andando al cantiere.

    Quando uscì, il sole si era alzato un altro poco, lui era bello rasato, con i baffetti fini e lucidi e con i capelli neri tutti impomatati. Nella strada c’erano pochi sfaccendati che parlottavano tra di loro e due vicchiarièlli sull’uscio di un basso che giocavano a carte. Il sole illuminava la Torretta facendo ombra sotto i balconi. Davanti ai bassi gli sfaccendati si sfottevano tra di loro e s’interrompevano soltanto per fare un fischio a qualche bella guagliona che passava di là.

    La gente si faceva coraggio contro la malasciòrta e aspettava che il Padreterno ci mettesse lui una mano.

    Armando Costabile era convinto che dopo quella guerra, che era stata una tragedia mondiale, niente di peggio potesse capitare. Nemmeno i fascisti, la disoccupazione e l’inflazione. Tutto sarebbe passato, com’era passata la guerra. Ci sarebbe stato un lungo periodo di pace. Per questo aveva voluto costruire la sua nuova casa sulla strada che da Capo Posillipo arrivava fino alla Torre Ranieri, proprio all’altezza della biforcazione con il rione del Casale, perché era venuto il tempo di pensare al futuro e la collina era il futuro della città.

    Salendo lungo i tornanti che da Mergellina portano su a Posillipo la brezza leggera gli soffiava in faccia e la sagoma color sabbia di Palazzo Donn’Anna sembrò che gli sorridesse. Su un balconcino una popolana stendeva i panni e cantava un’aria allegra, dalla riva gli schiamazzi degli scugnizzi arrivavano fin sulla strada. La guerra divenne all’improvviso un ricordo lontano. L’ospedale da campo, le tende bianche con la croce rossa, le garze, i feriti, la sega che amputava le gambe, tutto si allontanò dalla sua mente. Sì, sarà

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