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Windjigo
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Horror - romanzo breve (79 pagine) - Una guerra tra tribù preistoriche, una lotta contro la Creatura del male.


Tre cacciatori sono in missione: Chogan, il guerriero, Wematin, l’esploratore, e Arkay, un giovane arciere privo del battesimo del sangue. Una semplice guerra tra tribù nelle lande del Canada preistorico si trasforma in una disperata lotta per la sopravvivenza contro qualcosa di più oscuro. Negli antichi boschi la fame e il gelo hanno un’intelligenza propria, e lo spirito dei luoghi desolati è sempre presente dietro ogni albero…


Luca Guiso è nato a Bologna 29 anni fa e tuttora vive nei pressi, a Monterenzio. È laureato in giurisprudenza. I suoi autori preferiti sono Stephen King, H.P. Lovecraft, Alastair Reynolds e George R. R. Martin. Scrive con costanza solo dal 2013 e ha avuto la sua primissima esperienza di pubblicazione sulla rivista Altrisogni con il racconto La solitudine degli estranei. Nel 2015 il suo racconto Lo sguardo vuoto è stato inserito nell'antologia Tenebrae, patrocinata dalla scrittrice Barbara Baraldi. Nel 2019 ha pubblicato il racconto di fantascienza Ouroboros – L’ultima luce sull’antologia Prisma di Moscabianca Edizioni.

Come autore si dedica principalmente ai generi horror e fantascienza.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateMay 28, 2019
ISBN9788825409130
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    Windjigo - Luca Guiso

    fantascienza.

    1.

    Arkay udì qualcosa, sepolto sotto l’ululato del vento che serpeggiava tra gli abeti ghiacciati. Si fermò e aprì la bocca nell’aria gelida, per captare meglio i suoni.

    Un lamento mugghiante si diffuse nell’aria, morendo in un brontolio iroso, come il gemito che fanno i tronchi marci quando scricchiolano. Debole, distante. Un alce, forse. Lo stomaco digiuno di due giorni gli brontolò al solo pensiero di una succulenta bistecca.

    Catalogò mentalmente i versi di animali che conosceva, non trovando riscontri.

    Forse era stata la sua pancia a suggerire che quel verso potesse assomigliare a quello di un alce.

    Suo padre si girò verso di lui quando la corda che trascinava si tese al massimo; la slitta improvvisata, nient’altro che due rami legati assieme, si piantò nella neve fresca. Lo sguardo sul volto scuro di Chogan vagò con malcelata preoccupazione tra le colonne lignee delle conifere.

    – Continua a tirare – ordinò, greve. – Dobbiamo trovare un punto per accamparci prima che scenda la notte.

    Arkay distolse l’attenzione dalle ombre crepuscolari della foresta; incrociò gli occhi di suo padre e annuì, abbassando subito lo sguardo. Indugiò sul fagotto di pelle di cervo e funi di iuta legato alla slitta. Ricominciò a tirare, sentendo le lacrime affollarglisi negli occhi. Se le spazzò per non farsi vedere da Chogan, e anche perché non ghiacciassero. Quel gelo assoluto non era normale, né lo era la velocità con la quale la neve aveva iniziato a ricoprire le terre di caccia. Voleva chiedere consiglio al padre, ma non si azzardava ad aprir bocca.

    Non mentre lo zio Wematin, il grande esploratore della tribù, giaceva morto su quella slitta come una crisalide colta dall’inverno. Forse dopo i riti, forse dopo che suo padre avesse pianto la morte del fratello e avesse trovato consolazione nel sapere la sua anima in viaggio sull’aurora verso le praterie del cielo. Ma non ora.

    Forse allora Chogan avrebbe potuto perdonare la debolezza del suo unico figlio.

    2.

    Dopo un lungo tratto in piano, Chogan si arrestò. Davanti a loro c’era solo foschia immacolata. Feriva gli occhi, disorientava; Arkay aveva la sensazione di camminare sulle nuvole.

    Il padre si girò verso di lui, il volto duro, attraversato da un intrico di butterature e piccole cicatrici, incorniciato nel cappuccio di pelliccia e attraversato dai segni bianchi della pittura di guerra.

    – Dovremmo essere vicino a dove ho lasciato l’ultimo segno. Lasciamo la slitta qui per un attimo. Muoviti e aiutami a trovarlo.

    Arkay annuì e lo seguì nella neve. – Qui è dove abbiamo avvistato gli Omigache giù nella vallata? Come fai a esserne sicuro?

    Il padre indicò un abete spaccato a metà da un fulmine, con una pietra alla base. – C’era quell’albero, quando siamo partiti all’assalto di quei dannati ladri. Presta attenzione ai punti di riferimento, d’ora in avanti. Persino un cucciolo di lupo ha gli occhi più aperti di te.

    Arkay tacque, rosso di freddo e di vergogna. Certo, quello doveva essere il punto dove avevano raggiunto i predoni della tribù Omigache, un paio di giorni addietro. Ricordò la furia e la voglia di riprendersi il maltolto che si erano impadronite di lui. Era scattato veloce davanti al padre e allo zio, una freccia in una mano e l’arco nell’altra; non c’era stato più tempo per incidere tacche nel legno per ritrovare la strada di casa.

    Era venuto il momento di inciderne altre nella carne del nemico. E poi… tutto era andato storto.

    – Per gli spiriti… – disse Chogan – Ma cosa…

    Arkay alzò la testa. Il padre era corso vicino a un albero e stava spazzandone la corteccia incrostata di neve. Quando lo raggiunse, un diverso tipo di gelo scese lungo la schiena del ragazzo.

    Chogan aveva inciso delle frecce nella corteccia con il suo coltello, Arkay lo ricordava bene.

    – Sarà stato un orso che si è affilato gli artigli – disse il ragazzo. – Padre, il prossimo albero segnato dev’essere qui vicino.

    – Sciocco. Se si fosse trattato di un orso, ci sarebbero tre o quattro segni paralleli di artigliate. Ma questo…

    L’albero era stato… la parola giusta era violentato.

    La corteccia era strappata ben oltre lo strato superficiale, come se qualcosa ne avesse staccato manate intere, riducendo il legno a una polpa di trucioli scavata.

    – Sei sicuro che fosse questo, l’albero?

    – Che l’ira di Maw’nitow possa cogliermi se sbaglio. – Chogan scrutò la foresta sepolta, indicò un punto e prese a marciare da quella parte.

    Albero diverso, storia identica. Trucioli e schegge di legno giacevano nella neve come frammenti di una deflagrazione. Chogan si guardò intorno; per lunghi secondi non uscì condensa dalla sua bocca.

    – Oh, potenti spiriti… – mormorò Arkay.

    Erano circondati. Ogni singolo albero a portata d’occhio era stato marchiato da quella furia inumana.

    Il padre si girò verso di lui. I suoi occhi brillavano di una tetra luce nel buio incombente.

    – Pensi ancora che si tratti di un orso?

    3.

    La pelle trafitta da spilli di gelo, il cuore in gola per la corsa, la neve ghiacciata negli stivali. Quando erano giunti a tiro dei sette Omigache era notte fonda. Era la prima volta che Arkay, nei suoi quattordici inverni di vita, vedeva i membri di un’altra tribù, e in un’altra occasione non sarebbe riuscito a distinguerli dai Takiwa. I cappotti e in pantaloni pesanti degli Omigache erano composti dallo stesso mosaico raffazzonato di pelliccia di caribù che avevano addosso lui, il padre e lo zio.

    Arkay sussultò quando un Omigache scrutò nella sua direzione con occhi che erano due buchi vuoti aperti sui lati di un cranio allungato, scarnificato. Una testa senza mandibola, un mezzo sorriso di denti appesi nel vuoto, bianca come la luna piena, sormontata da corna di…

    Si diede dell’idiota quando vide i legacci di tendine che fissavano i teschi di cervo sopra i cappucci del nemico.

    Wematin, giunto alle sue spalle, lo aveva rassicurato che gli Omigache non erano demoni: quello era solo un ornamento, anche se era certo che non usassero portarlo, prima che lui partisse per viaggiare in terre straniere. Arkay pensò lo stesso che i nemici, alla luce delle torce, avessero qualcosa di inquietante. Sembravano avere una voragine al posto del volto, dentro i cappucci di pelliccia grigia e bianca.

    Cadeva un nevischio leggero. Li superavano di numero, ma le quattro slitte con le provviste rubate li rallentavano. Per Wematin era stato uno scherzo seguirne le tracce, anche se camminavano in una singola fila e un uomo nella retroguardia trascinava un ramo verde di abete per tentare di nascondere le scie gemelle.

    Lo spirito dei Takiwa è quello dell’orso: forte ma non avventato, egli pensa al futuro, si prepara per i tempi duri. Lo spirito degli Omigache è quello della locusta. Privi di onore, razziano il frutto del sudore degli altri. E come locuste, li schiacceremo. Così aveva detto suo padre, sputando per terra, quando erano partiti all’inseguimento.

    Come locuste: così gli Omigache erano calati sull’accampamento dei Takiwa. L’inverno era alle porte, le provviste ammassate. Gli Omigache vivevano a nord, in terre più aspre; probabilmente la caccia era andata male, o la terra non era stata generosa nell’offrire i suoi doni.

    Per Arkay quella era stata

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