Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

La Certosa di Parma
La Certosa di Parma
La Certosa di Parma
Ebook648 pages10 hours

La Certosa di Parma

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Questo romanzo disincanto e ironico denuncia il vuoto di valori che seguì la disfatta napoleonica. Parma, principato da operetta, è lo scenario delle piccole manovre di una corte che sarebbe grottesca se non fosse anche doppiamente inquietante: perché i potenti, spaventati dalla loro stessa piccolezza, esercitano la violenza dei deboli, e perché l’ideale repubblicano, contaminato dalla malinconia (incarnata dal personaggio di Palla), si esaurisce nelle vane follie della Sanseverina.

FONTE: Microsoft Encarta® 2009.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMay 21, 2019
ISBN9788831622011
La Certosa di Parma

Related to La Certosa di Parma

Related ebooks

Classics For You

View More

Related articles

Reviews for La Certosa di Parma

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    La Certosa di Parma - Stendhal

    Indice

    LA CERTOSA DI PARMA

    Stendhal

    Il realismo

    Opere

    Pubblicate in vita

    Postume

    Teatro

    Epistolari

    Diari

    La Certosa di Parma

    Trama

    Libro primo

    L’infanzia di Fabrizio del Dongo

    Le idee politiche

    Fabrizio in fuga per Waterloo

    Il ritorno a Griante e il primo incontro con Clelia Conti

    Fabrizio diventa monsignore e raggiunge Parma

    La continua ricerca dell’amore

    L’amore per Marietta e l’omicidio di Giletti

    L’amore per Fausta

    Libro secondo

    L’arresto e il trasferimento alla Cittadella di Parma

    Il secondo incontro con Clelia Conti

    La prigionia nella Torre Farnese

    La fuga

    La vendetta

    Il ritorno a Parma

    La nuova prigionia

    Il tentato avvelenamento

    La libertà amara

    La duchessa fugge da Parma e diventa la contessa Mosca

    La svolta

    La fine

    LA CERTOSA DI PARMA

    AVVERTIMENTO

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    XXI

    XXII

    XXIII

    XXIV

    XXV

    XXVI

    XXVII

    XXVIII

    STENDHAL


    LA CERTOSA

    DI PARMA

    TRADUZIONE DI

    FERDINANDO MARTINI

    Il presente ebook è composto di testi di pubblico dominio.

    L’ebook in sé, però, in quanto oggetto digitale specifico,

    dotato di una propria impaginazione, formattazione, copertina

    ed eventuali contenuti aggiuntivi peculiari (come note e testi introduttivi), 

    è soggetto a copyright. 

    Edizione di riferimento: La Certosa di Parma / Stendhal; traduzione di Ferdinando Martini (1841 – 1928). - Milano-Verona: A. Mondadori Edit. Tip., 1930. - 16. p. 691 con ritratto. - (Biblioteca romantica / diretta da G. A. Borgese; 1). 

    Immagine di copertina: Dolce Far Niente di John William Godward (1861–1922). Immagine di pubblico dominio: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:John_William_Godward_-_Dolce_Far_Niente_(1904).jpg

    Elaborazione grafica: GDM.

    Stendhal

    Marie-Henri Beyle, noto come Stendhal (Grenoble, 23 gennaio 1783 – Parigi, 23 marzo 1842), è stato uno scrittore francese.

    Amante dell’arte e appassionato dell’Italia dove visse a lungo, esordì in letteratura nel 1815 con le biografie su Haydn, Mozart e Metastasio, seguite nel 1817 da una Storia della pittura in Italia e dal libro di ricordi e d’impressioni Roma, Napoli, Firenze. Quest’ultimo fu firmato per la prima volta con lo pseudonimo di Stendhal, nome forse ispirato alla città tedesca di Stendal, dove nacque l’ammirato storico e critico d’arte Johann Joachim Winckelmann.

    I suoi romanzi di formazione Il rosso e il nero (1830), La Certosa di Parma (1839) e l’incompiuto Lucien Leuwen, scritti in una prosa essenziale che ricerca la verità psicologica dei personaggi, fanno di Stendhal, con Balzac, Hugo, Flaubert, Maupassant e Zola, uno dei maggiori rappresentanti del romanzo francese del XIX secolo: i suoi protagonisti sono giovani romantici che aspirano alla realizzazione di sé attraverso il desiderio della gloria e l’espansione di sentimenti appassionati.

    Il realismo

    I temi principali della sua produzione letteraria furono una marcata sensibilità romantica ed un fervido spirito critico, che dettero vita alla filosofia della Chasse au bonheur, egotismo tipico di tutti i suoi personaggi. L’analisi delle passioni, dei comportamenti sociali, l’amore per l’arte e per la musica, nonché la ricerca epicurea del piacere, venivano espressi attraverso una scrittura personalissima, nella quale il realismo dell’osservazione oggettiva ed il carattere individuale della sua espressione si fondevano in maniera armonica. Per tutti questi motivi Stendhal fu quasi ignorato dai suoi contemporanei, con l’eccezione di Honoré de Balzac, ma venne poi adorato dai posteri.

    Miscelando sapientemente l’ambientazione storica e l’analisi psicologica, i suoi romanzi descrivevano il clima morale ed intellettuale della Francia. Stendhal fu considerato l’iniziatore del romanzo moderno, che ispirò la grande narrativa di costume dell’Ottocento. Tra gli scrittori moderni, viene considerato l’autore meno invecchiato dell’Ottocento. Il Rosso e il Nero e Lucien Leuwen sono un disegno crudo della società della  Restaurazione, come indica il sottotitolo nel primo, Cronaca del 1830. Lucien Leuwen è il racconto della Monarchia di Luglio francese. La Certosa di Parma è ambientata tra i disegni politici delle monarchie italiane del XIX secolo. Sono quindi romanzi politici non per la presenza di riflessioni, ma per l’ambientazione dei fatti.

    La rappresentazione dei costumi di Stendhal non è motivata da una volontà sociologica, ma per far cadere le falsità e mostrare la «verità» del suo tempo. Nonostante il suo realismo, Stendhal non entra nei dettagli dei luoghi, poco si sa dell’Hôtel de la Mole o di Milano o del castello del Marchese del Dongo, ma narra lo stretto necessario per l’azione. La prigione di Fabrizio nella Certosa è descritta con cura perché essenziale nel contesto del racconto.

    Anche i personaggi sono descritti sommariamente, ma sono figure romantiche. L’eroe Julien è intelligente, nutre profondo odio per i suoi contemporanei ed è ambizioso fino alla follia. Fabrizio è un giovane esaltato e passionale.

    Lucien è idealista e sicuro di se stesso.

    Inoltre la politica nella Certosa è sicuramente meno importante che nel Rosso e il nero o nel Lucien Leuwen. È soprattutto la storia che gioca un ruolo importante: Waterloo, l’arrivo delle truppe francesi a Milano nel 1976.

    Opere

    Pubblicate in vita

    Lettres écrites de Vienne en Autriche, sur le célèbre compositeur Jh Haydn, suivies d’une vie de Mozart, et de considérations sur Métastase et l’état présent de la musique en France et en Italie, Paris, Didot l’aîné 1814 (ma 1815)

    Histoire de la peinture en Italie, Paris, Didot l’aîné 1817

    Rome, Naples et Florence, en 1817, Paris, Delaunay 1817

    De l’amour, Paris, Librairie Universelle de P. Mongie l’aîné 1822

    Racine et Shakespeare I, Paris, Bossange père, Delaunay, Mongie 1823

    Vie de Rossini, Paris, Auguste Boulland et C.ie 1824 (ma 1823)

    Racine et Shakespeare II, Paris, Dupont et Rorel 1825

    D’un nouveau complot contre les industriels, Paris, Sautelet et C.ie 1825

    Rome, Naples et Florence, Paris, Delaunay 1826

    Armance, ou Quelques scènes d’un Salon de Paris en 1827, Paris, Urbain Canel 1827

    Promenades dans Rome, Paris, Delaunay 1829

    Vanina Vanini, ou Particularités sur la dernière vente de carbonari découverte dans les Etats du Pape, in «Revue de Paris», IX, 1829

    Le Coffre et le Révenant. Aventure espagnole, in «Revue de Paris», XIV, 1830

    Le Philtre, in «Revue de Paris», XV, 1830

    Le Rouge et le Noir. Chronique du XIXe Siècle  (Il rosso e il nero), Paris, Levavasseur 1831 (ma 1830)

    Vittoria Accoramboni, duchesse de Bracciano (Vittoria Accoramboni (Stendhal)), in «Revue des Deux Mondes», IX, 1837

    Les Cenci, in «Revue des Deux Mondes», XI, 1837

    La duchesse de Palliano (La duchessa di Paliano), in «Revue des Deux Mondes» , XV, 1838

    Mémoires d’un touriste, Paris, Ambroise Dupont 1838

    L’Abbesse de Castro  (La badessa di Castro) in «Revue des Deux Mondes», XVIII, 1839

    La Chartreuse de Parme (La Certosa di Parma), Paris, Ambroise Dupont 1839

    Idées italiennes sur quelques tableaux célèbres (con Abraham Constantin), Florence, Au Cabinet scientifique-littéraire de J. P. Vieusseux 1840

    Postume

    San Francesco à Ripa (1831), in Romans et nouvelles, Paris, Michel Lévy Frères 1854

    Philibert Lescale, in Romans et nouvelles, Paris, Michel Lévy Frères 1854

    Mina de Vanghel, in Romans et nouvelles, Paris, Michel Lévy Frères 1854

    Souvenirs d’un gentilhomme italien, in Romans et nouvelles, Paris, Michel Lévy Frères 1854

    Les Tombeaux de Corneto, in Chroniques Italiennes, Paris, Michel Lévy Frères 1855

    La Comédie est impossible en 1836, in Chroniques Italiennes, Paris, Michel Lévy Frères 1855

    Le Juif (1831), in Nouvelles inédites, Paris, Michel Lévy Frères 1855

    Féder. Le Mari d’argent (1839), in Nouvelles inédites, Paris, Michel Lévy Frères 1855

    Essai sur le Rire, in Mélanges d’art e de littérature, Paris, Michel Lévy Frères 1867

    Vie d’André del Sarto, in Mélanges d’art e de littérature, Paris, Michel Lévy Frères 1867

    Vie de Raphaël, in Mélanges d’art e de littérature, Paris, Michel Lévy Frères 1867

    Salon de 1824, in Mélanges d’art e de littérature, Paris, Michel Lévy Frères 1867

    Journal d’un voyage en Italie, in Mélanges d’art e de littérature, Paris, Michel Lévy Frères 1867

    Notes d’un dilettante, in Mélanges d’art e de littérature, Paris, Michel Lévy Frères 1867

    Lamiel, incompiuto, Paris, Librairie moderne 1889

    La vie de Henri Brulard (1834), incompiuta, Paris, G. Charpentier et C.ie, Éditeurs 1890

    Souvenirs d’égotisme (1832), incompiuti, Paris, G. Charpentier et E. Fasquelle, Éditeurs 1892

    Lucien Leuwen, incompiuto, Paris, E. Dentu 1894

    Trop de faveur tue (1839), Revue de Paris, 1912

    Suora Scolastica (1842), incompiuta, Paris, André Coq 1921

    Une position sociale (1832), incompiuto, Paris, S. Kra 1927

    Voyage dans le Midi de la France (1838), incompiuto, Paris, Le Divan 1930

    Pensées. Filosofia nova, Paris, Le Divan 1931

    Écoles italiennes de peinture, Paris, Le Divan 1932

    Mélanges de politique et d’histoire, Paris, Le Divan 1933

    Les privilèges (1840)

    L’Italia nel 1818

    Mémoires sur Napoléon (1836-1837), 1876

    Pages d’Italie, 1932

    Courrier anglais, 1935-1936

    Mélanges intimes et Marginalia, 1936

    Le Rose et le Vert (1837), incompiuto, 1928

    Le Chevalier de Saint-Ismier (1840)

    Chroniques italiennes (Cronache italiane), raccolta postuma di racconti, pubblicati separatamente fra il 1829 e il 1842

    Le lac de Genève

    Paul Sergar

    Teatro

    Alcune pièces teatrali sono raccolte, in 2 tomi, in Théâtre (postumo, 1931): Les quiproquo, Le ménage à la mode, Zélinde et Lindor, Ulysse, Hamlet, Les deux hommes, Letellier, Brutus, Les médecins, La maison à deux portes, Il forestiere in Italia, ecc.

    Epistolari

    Nel 1855 uscì, a cura del cugino Romain Colomb, la Correspondance inédite de Stendhal, un regesto composto da lettere, appunti, frammenti di manoscritti incompiuti, notevolmente manipolati a bella posta.

    Nel 1908 fu predisposto un nuovo compendio, Correspondance de Stendhal publiée par A. Paupe e P.-A.Cheramy sur les originaux de diverses collections.

    L’apparizione di altre lettere inedite portò alla pubblicazione in 10 tomi, Correspondance, a cura di Henri Martineau, presso le celebrate edizioni Le Divan fra il 1933 e il 1934.

    Tra il 1962-1968 apparvero 3 volumi di lettere stendhaliane, a cura di Victor Del Litto e Henri Martineau, sempre con aggiunte di missive ritrovate.

    Col titolo Correspondance générale, 6 volumi furono pubblicati tra il 1997 e il 1999 dall’editore Champion. Il primo volume di questa monumentale edizione è uscito in italiano nel 2016, titolato Il laboratorio di sé. Corrispondenza (1800-1806), tradotto e curato da Vito Sorbello per Nino Aragno Editore, presso il quale appariranno gli altri tomi.

    Diari

    Il Journal fu pubblicato in 5 tomi nel 1888; l’editore Le Divan lo ripubblicò nel 1937.

    La Certosa di Parma

    Secondo la tradizione, fu composto a Parigi, in un edificio al numero 8 di rue Caumartin, fra il 4 novembre e il 26 dicembre 1838, durante una volontaria reclusione dell’autore durata 52 giorni. Sembra che lo scrittore, trincerato nel suo studio, diede ordine alla servitù di rispondere il signore è a caccia a qualsiasi importuno venisse a cercarlo e a turbare così la sua produttivissima prigionia. Inoltre, sempre secondo la tradizione, tale romanzo non fu direttamente scritto da Stendhal, bensì dettato, parola per parola, ad un abile copista, unico estraneo autorizzato a ficcare il naso nel rifugio dell’artista.

    Il romanzo è stato suddiviso in due parti: Libro Primo e Libro Secondo.

    Trama

    Libro primo

    L’infanzia di Fabrizio del Dongo

    Il romanzo, ambientato sullo sfondo dell’Italia della Restaurazione, in buona parte immaginaria, ha per protagonista il giovane nobiluomo milanese Fabrizio del Dongo, figlio naturale di una gentildonna milanese e di un soldato napoleonico, Robert, ospitato dalla famiglia durante l’occupazione francese di Milano.

    Fabrizio, bello e spigliato, trascorre i primi anni della sua infanzia al castello di Griante (antica dimora quattrocentesca della famiglia Valserra del Dongo) dove vive «facendo spesso a pugni con i ragazzini del paese, senza imparare niente, neanche a leggere». Per la sua educazione viene mandato a Milano presso un collegio di gesuiti. Qui, però, il suo unico interesse è rappresentato dalla lettura di un volume di famiglia dove sono narrate le imprese eroiche dei suoi antenati: i Valserra (marchesi del Dongo). Si anima così di un forte spirito cavalleresco. Così, richiamato dal marchese del Dongo al castello di Griante, «al suo ritorno in quell’imponente palazzo edificato dai suoi antenati più bellicosi, Fabrizio non conosceva altro che gli esercizi militari e le passeggiate a cavallo». Qui cresce fra le attenzioni della madre e della zia, la contessa Gina Pietranera, trasferitasi nell’antico castello di famiglia alla morte del marito, un generale di divisione ucciso in un duello nato per futili motivi. Di tutte le attenzioni di cui è circondato il giovane Fabrizio si adombra il fratello Ascanio, il quale comincia a nutrire nei suoi confronti un forte risentimento e una profonda gelosia.

    Le idee politiche

    Il marchese del Dongo e il primogenito Ascanio sono dei conservatori convinti, strenui sostenitori del governo austriaco tanto da fungere per esso da informatori ufficiali riguardo alle mosse di Napoleone e dei suoi sostenitori sul suolo italiano. Di idee totalmente opposte è invece Fabrizio, il cui animo si accende agli ideali di libertà di cui Napoleone si faceva portatore e per il quale nutre una stima e ammirazione appassionate e sincere, al punto che decide di armarsi e di andare a combattere al fianco dell’Imperatore, in Belgio. Sua zia, la contessa Pietranera, dirà dell’amato nipote:

    Fabrizio in fuga per Waterloo

    Fabrizio fugge dal castello di Griante, all’insaputa del padre putativo, che lo avrebbe ostacolato e punito. Arrivato a destinazione, animato dal desiderio di incontrare Napoleone in persona, in realtà si scontra subito con la prima delusione: insospettiti dal suo italiano, i militari francesi lo scambiano per una spia, lo arrestano e conducono in prigione. Per fortuna la moglie del guardiano della prigione, impietosita dalle vicende sfortunate del giovane e allo stesso tempo colpita dall’ardore militare che lo anima, lo aiuta e Fabrizio riesce a fuggire vestendo i panni di un soldato ussaro. Si mette quindi di nuovo alla ricerca di un battaglione di Napoleone a cui accorparsi, ma di nuovo una serie di disavventure lo perseguita (più volte gli viene rubato il cavallo) e, se non fosse per l’aiuto e i consigli di una bonaria vivandiera, non riuscirebbe a sopravvivere.

    Dopo mille peripezie riesce ad unirsi all’esercito, ma si troverà solo ad essere l’attonito spettatore di una battaglia che diventerà fin troppo famosa, quella di Waterloo. Ma la Waterloo di Fabrizio è una Waterloo confusa, guardata con l’occhio stupito ed inesperto di un ragazzo che non si rende conto di quello che sta succedendo, fra palle di cannone fischianti, disertori allo sbaraglio, furti di cavalli e assordanti cariche di fanteria prussiana. Lo stesso Napoleone, per conoscere il quale Fabrizio ha lasciato la casa paterna e ha percorso molte miglia, non è altro che un’incerta, ingobbita apparizione cui il protagonista non riesce a dare più di una fuggevole occhiata.

    Il ritorno a Griante e il primo incontro con Clelia Conti

    Alla fine della battaglia, sconfitto Napoleone e disperso l’intero esercito francese, Fabrizio si ritrova a girovagare senza meta, fino a giungere davanti ad una locanda, il Cavallo Bianco. Qui gli viene chiesto, dal Generale dei Dragoni Le Baron, di fermare chiunque tentasse di attraversare il ponte e di farlo entrare nella locanda. Ferito ad un braccio e ad una coscia nel tentativo di bloccare la strada a chi era fermamente intenzionato ad attraversare il ponte, Fabrizio viene mandato nella locanda a riposare. Il giorno dopo, al suo risveglio scopre che la locanda è in fiamme; nel caos generale, decide di montare a cavallo e di fuggire via. Stremato per le ferite subìte, riesce a malapena a raggiungere un’altra locanda, dove riceve le prime cure. Tornato al suo vecchio albergo a Parigi, scopre, grazie alle lettere scritte dalla madre e dalla zia, che deve fare subito ritorno a Milano, ma stando attento a seguire degli accorgimenti precisi, perché su di lui era stato emanato un ordine di cattura. L’invidioso fratello di Fabrizio, Ascanio, lo aveva infatti denunciato alla polizia di Milano con l’accusa di essere una spia di Napoleone. Ricercato dalla polizia, preoccupato, ma allo stesso tempo eccitato all’idea di essere considerato una spia dell’Imperatore, Fabrizio, seguendo prudentemente le istruzioni delle lettere, riesce a raggiungere il castello di Griante, dove finalmente può riabbracciare la madre, la zia e le sorelle. Da qui, però, in attesa di trovare una soluzione per far ritirare l’ordine di cattura, Fabrizio fugge in Piemonte, a Romagnano, nei pressi di Novara. Durante la sua fuga fa la conoscenza di una giovane e affascinante dodicenne da cui rimane colpito: Clelia Conti. Una volta giunto in Piemonte riceve la notizia che la contessa Pietranera sua zia, grazie alla sua influenza, è riuscita a far accordare al nipote l’impunità, a patto di rispettare alcune condizioni per dimostrare di non essere un cospiratore.

    Fabrizio diventa monsignore e raggiunge Parma

    Fabrizio viene preso sotto l’ala protettrice della zia Pietranera e del suo nuovo spasimante, il conte Mosca della Rovere Sorezana, «ministro della guerra, della polizia e delle finanze di Ernesto IV, principe di Parma», conosciuto al teatro La Scala di Milano. Innamoratosi perdutamente di lei, il conte Mosca chiede alla Pietranera di trasferirsi alla corte di Parma. Entusiasta all’idea di poter rivivere gli antichi fasti della perduta giovinezza (lei è appena trentenne), Gina acconsente ad andare a vivere a Parma, accettando pure la condizione imposta dal conte per salvare le apparenze (lui è sposato, seppure separato, mentre lei è un’attraente giovane vedova): quella di accettare un matrimonio di facciata con il duca Sanseverina-Taxis, un sessantottenne con l’aspirazione di diventare ambasciatore. Presentata alla corte parmense come la duchessa Sanseverina, Gina riesce ben presto a conquistarsi l’intera corte (o comunque i personaggi di maggiore spicco). Consigliata dall’amante Mosca, invita il nipote Fabrizio ad abbandonare le sue velleità militari per abbracciare una ben più sicura (e degna dei suoi antenati) carriera ecclesiastica. Fabrizio accetta a malincuore. Viene così mandato all’Accademia ecclesiastica di Napoli e, dopo tre anni, ricevuta la nomina di monsignore, viene introdotto con tutti i fasti all’interno della corte parmense.

    Qui Stendhal fa sfoggio di tutta la sua fantasia, inventando un fantomatico Principato storicamente mai esistito (giacché a quell’epoca Parma era compresa nel Ducato di Parma e Piacenza), nonché della sua colossale abilità letteraria riuscendo a ritrarre in maniera esemplare il complesso microcosmo della corte, con tutti i suoi delicati equilibri, le sue malcelate ipocrisie, i suoi rapporti di forza, le servitù, le clientele, gli amori, le figure dominanti.

    In questa foresta sociale il giovane monsignor del Dongo si muove agevolmente, seppur a volte un po’ incautamente, ma all’occorrenza sempre rintuzzato o protetto dalla zia, che, seppure molto più anziana di lui, ne è visibilmente innamorata.

    Da questo momento in poi, il romanzo non verterà più soltanto sulla figura di Fabrizio, poiché la Sanseverina acquisterà sempre maggior rilievo, diventando il secondo perno della narrazione.

    La continua ricerca dell’amore

    Fabrizio, intanto, è tormentato dalla continua ricerca dell’amore, che non gli è mai riuscito di vivere se non nell’aspetto della pura passione fisica:

    L’amore per Marietta e l’omicidio di Giletti

    Se da un lato Fabrizio passa da un letto all’altro nel disperato tentativo di trovare il vero amore, dall’altro sa di avere un legame di complicità molto forte (a tratti persino equivoco) con la zia, e quando il conte Mosca se ne accorge, se ne ingelosisce al punto da temere che i due siano amanti. Per distogliere la sua attenzione dalla zia, Fabrizio, dimentico dei doveri e divieti propri di un prelato, frequenta un teatro dove rimane affascinato da una giovane attrice che scoprirà chiamarsi Marietta Valserra. Scopre altresì che la giovane attrice è sotto la protezione di un attore follemente geloso di nome Giletti. Il brivido della conquista fa intestardire ancor più Fabrizio, pronto a sfidare Giletti pur di avere Marietta. Nonostante i tentativi del conte Mosca di allontanare da Parma la compagnia teatrale (e quindi lo stesso Giletti), Fabrizio ne farà un incontro del tutto fortuito a Sanguigna (dove si era recato per sovrintendere a degli scavi archeologici per il conte Mosca). Giletti, appena riconosciuto Fabrizio, gli si scaglia contro con il chiaro intento di ucciderlo. Fabrizio è costretto a difendersi e gli infligge un colpo mortale con un coltello consegnatogli qualche istante prima da Marietta. La morte del Giletti causerà una necessaria latitanza per Fabrizio, che si vedrà costretto a scappare di città in città sotto falso nome, passando per Ferrara e fermandosi a Bologna, dove vivrà per qualche tempo sotto il nome di Giovanni Bossi. Proprio in quest’ultima città incontra Marietta (che si era recata lì nella speranza di incontrarlo) e i due diventano amanti.

    L’amore per Fausta

    La sfrenata, incessante e spesso irresponsabile ricerca dell’amore, comune a molti dei personaggi stendhaliani, fa invaghire Fabrizio questa volta di una certa Fausta, famosa cantante dotata di una splendida voce. Proprio quella voce da usignolo fa innamorare follemente Fabrizio, il quale crede di avere trovato in lei finalmente l’amore. Decide allora di conquistarla, pur sapendo dell’esistenza di uno spasimante, anch’egli (come Giletti) fortemente geloso, e certo non disposto a cedere la donna amata. Il culmine della rivalità tra i due sfocerà in un duello da cui Fabrizio uscirà vincitore, limitandosi solo a ferire e spaventare il rivale.

    Libro secondo

    L’arresto e il trasferimento alla Cittadella di Parma

    L’eco dell’omicidio di Giletti raggiunge la corte parmense. Qui il principe di Parma, innamorato perdutamente della duchessa Sanseverina e quindi gelosissimo di Fabrizio (poiché l’unico capace di catturare il cuore della donna), vede subito nella situazione una preziosa occasione per allontanare una volta per tutte Fabrizio e, allo stesso tempo, infliggere un duro colpo all’altera duchessa, rea di avere rifiutato di divenire la sua amante. Dal canto suo, la Sanseverina sfrutta la sua influenza presso il principe (il quale, nonostante i fermi propositi, non riesce a rimanere insensibile al fascino della donna) per farsi promettere, attraverso la firma di un documento, di non procedere contro Fabrizio. Il principe finge di acconsentire, ma il giorno dopo (grazie anche ad un vizio di forma del documento firmato che lo rende nullo) firma l’ordine d’arresto di Fabrizio e, allo stesso tempo, mostra la sua clemenza firmando la riduzione della condanna da venti anni a dodici anni di fortezza. L’ordine viene immediatamente eseguito: Fabrizio viene prelevato a Bologna e condotto in catene alla Cittadella di Parma.

    Il secondo incontro con Clelia Conti

    Qui, prima di essere condotto in prigione, Fabrizio fa un secondo incontro (il primo era avvenuto cinque anni prima sul lago di Como) con Clelia Conti, figlia del generale Fabio Conti, governatore della cittadella parmense. I due rimangono colpiti l’uno dall’altra e Clelia, capendo che Fabrizio si trova nei guai, si sente in dovere di aiutarlo, in nome della gentilezza e del soccorso che il giovane le aveva prestato cinque anni prima. Clelia, inoltre, sa bene che oltre alla pura e semplice prigionia, Fabrizio rischia di essere avvelenato o impiccato pubblicamente; infatti, in seguito ad un colloquio tra il principe di Parma e il governatore, alla domanda di Clelia su cosa avesse detto il sovrano, il governatore rispose: «La bocca ha detto: ‘prigione’. Lo sguardo: ‘morte’».

    La prigionia nella Torre Farnese

    Rinchiuso in una cella all’interno della Torre Farnese, Fabrizio, ancora stordito dall’incontro con la ragazza, rimane immediatamente estasiato dallo spettacolare panorama che gli si presenta dalla finestra della cella (da lì può vedere, infatti, la catena delle Alpi, da Treviso al Monviso). Il suo animo si rallegra ancor più quando scopre che può anche scorgere il palazzo del governatore della prigione e, in particolare, la finestra di una stanza usata come uccelliera da Clelia Conti. Con suo grande stupore quella posizione privilegiata gli permette di vedere a più riprese la ragazza e, persino, di comunicare con lei. In quello stato d’animo febbrile dettato dall’amore (questa volta vero amore), Fabrizio riesce addirittura ad apprezzare l’angusta e deprimente cella in cui si trova, chiamata Camera dell’Obbedienza passiva: «Ma è una prigione, questa? È questo ciò che avevo tanto temuto? […] Come mai, io che avevo tanta paura della prigione, adesso sono dentro, e mi scordo di esser triste?»

    Non solo. Fabrizio riesce persino a comunicare con la duchessa Sanseverina, la quale aveva trovato un modo molto semplice, ma non per questo meno pericoloso, di contattare il nipote: si recava, nottetempo, in cima ad una torre che poteva essere vista dalla cella del prigioniero e da lì dapprima gli trasmetteva messaggi attraverso segnali luminosi intermittenti (che corrispondevano alle singole lettere dell’alfabeto) e poi, dopo aver corrotto un soldato di guardia, attraverso palle di piombo contenenti lunghe missive, scagliate all’interno della prigione con la fionda proprio dall’abile soldato. In questo modo la Sanseverina, oltre ad avere la certezza della sopravvivenza del nipote (spesso venivano diffuse notizie sulla sua morte), poteva rivelargli tutto quanto accadeva a corte, compresa la necessità, sempre più incombente, di tenersi pronto per la fuga: il principe di Parma, infatti, volendo infliggere il colpo di grazia alla duchessa, aveva incaricato un suo uomo di fiducia, il fiscale generale Rassi (uomo privo di scrupoli), di occuparsi della morte di Fabrizio, da indurre col veleno.

    Dapprima Fabrizio rifiuta categoricamente l’idea della fuga, poiché avrebbe significato allontanarsi, forse per sempre, dall’unica donna capace di risvegliare in lui l’amore. Sarà proprio Clelia Conti, nel frattempo divenuta alleata della duchessa e per questo a conoscenza di tutti i suoi piani, a convincere Fabrizio a cambiare idea e a farsi giurare da lui che, quando fosse venuto il momento, non avrebbe esitato a fuggire.

    La fuga

    Dopo nove lunghi mesi di prigionia Fabrizio riceve il segnale convenuto per la fuga. Approfittando di una fitta nebbia che era calata su Parma e approfittando dello stato di ubriachezza in cui versavano i soldati in occasione di un festeggiamento, Fabrizio, attraverso una serie di corde, si cala dalla Torre fino a raggiungere terra. Qui, provato per la stanchezza e la tensione, sente che le forze lo abbandonano, quando due uomini mandati dalla duchessa Sanseverina lo aiutano e lo portano in salvo. Fabrizio viene sistemato a Locarno, in Svizzera, dove la duchessa può incontrarlo quotidianamente (per stare vicino al nipote aveva preso una casa presso Belgirate). Accanto alla felicità di averlo lì con sé sano e salvo, la duchessa è però straziata dalla serietà innaturale del nipote e dal dubbio che il suo cuore fosse rimasto a Parma. Capisce che, per quanto lei abbia fatto tutto il possibile per liberarlo dalla prigione, l’unica vera persona che aveva davvero salvato Fabrizio (convincendolo a fuggire) era la giovane Clelia. Capisce, quindi, di avere perduto per sempre l’amato nipote.

    La vendetta

    Accecata dalla gelosia, la duchessa sfrutta i pochi contatti che le sono rimasti a corte per accelerare le nozze tra Clelia Conti e il ricchissimo marchese Crescenzi (in modo che Fabrizio dimentichi, e in fretta, la giovane figlia del governatore). Giunge, intanto, a Belgirate, la notizia della morte del principe: la duchessa non è sorpresa, poiché ne è direttamente coinvolta. Non molto tempo prima, infatti, aveva assoldato un vecchio medico, nonché poeta e tribuno del popolo, Ferrante Palla (innamorato di lei e per la quale si sarebbe macchiato di ogni delitto) per uccidere, attraverso il veleno, il carnefice di Fabrizio: il principe di Parma in persona.

    Il ritorno a Parma

    La morte del principe di Parma scatena nella città parmense una serie di rivolte popolari contro la Cittadella, il fiscale Rassi e la vecchia amministrazione in generale. Questo subbuglio permette al conte Mosca di agire in favore di Fabrizio imponendo il silenzio sulla sentenza del giovane a tutti i giudici incaricati del processo (pena l’immediata impiccagione). Aiutando Fabrizio, il conte favorisce di certo anche il ritorno dell’amata duchessa, ora nominata dal nuovo principe di Parma Ranuccio Ernesto V (figlio del principe defunto) duchessa di San Giovanni e prima dama di compagnia della principessa madre Clara Paolina. Un ultimo ostacolo bloccava il ritorno a Parma di Fabrizio in qualità di uomo libero: egli avrebbe dovuto sottoporsi al processo ed essere prosciolto da ogni accusa e, prima di questo, presentarsi alle prigioni della città (comandate dal conte Mosca e quindi sicure) per costituirsi.

    La nuova prigionia

    Tutto il piano per restituire la libertà a Fabrizio era stato studiato nei minimi particolari dal conte e dalla duchessa, ma senza tenere conto di un fatto certo: Fabrizio era innamorato e l’amore rende imprevedibili, impavidi e avventati. Fabrizio, infatti, si era sì presentato per costituirsi, ma non alle prigioni controllate dal conte Mosca, bensì direttamente alla Cittadella, nella speranza di rioccupare la sua vecchia cella e di vedere di nuovo Clelia (oramai prossima alle nozze col marchese Crescenzi). Questa mossa lo rende inevitabilmente esposto al rischio concreto di una vendetta da parte di Fabio Conti, il governatore della Cittadella, che vede nella situazione un’occasione unica per riscattarsi dal ridicolo di cui si era coperto al momento della fuga del prigioniero.

    Il tentato avvelenamento

    Il governatore decide così di uccidere Fabrizio del Dongo facendogli avvelenare il pasto della sera. Ma ancora una volta Fabrizio viene salvato dalle due donne che lo amano: Clelia, che, accortasi di quello che stava succedendo e dimentica del voto fatto alla Madonna (quello di sposare il marchese Crescenzi e non rivedere più Fabrizio), corre alla Torre Farnese ed irrompe direttamente nella cella di Fabrizio per impedirgli di mangiare la cena avvelenata; e la duchessa, che cede al ricatto del giovane principe di Parma accettando di diventare la sua amante in cambio della vita di Fabrizio. Il giovane del Dongo viene così graziato dal principe e salvato da morte certa. Il principe di Parma, del tutto all’oscuro e inorridito di fronte alle macchinazioni e tentativi di avvelenamento che si tramano alle sue spalle, decide di infliggere una esemplare punizione ai colpevoli: il generale Conti viene destituito assieme al Rassi, ed entrambi costretti anche all’esilio in Piemonte.

    La libertà amara

    Nel frattempo Fabrizio si sottopone al giudizio dei giureconsulti, i quali, dopo un regolare processo, lo prosciolgono da ogni accusa. Tornato in libertà, Fabrizio viene nominato - dal principe in persona - coadiutore dell’arcivescovo Landriani con futura successione e acquisisce pure il titolo di Eccellenza. Ma tutti quei titoli pomposi ed onori non importano nulla a Fabrizio, ora che si vede di nuovo allontanato dall’amata Clelia, la quale, saputo in salvo l’amato, ritorna nella sua fermezza di sposare il marchese Crescenzi, per dovere nei confronti del padre e per dovere nei confronti del voto fatto alla Madonna.

    Adottando un travestimento Fabrizio riesce ad incontrare Clelia e i due finalmente si chiariscono: lei gli spiega il motivo del suo comportamento schivo e la necessità di non vedersi più. Per Clelia era inoltre necessario non rimandare ancora le nozze con il marchese Crescenzi, essendo questo l’unico modo per far ritornare il padre alla corte parmense (la stessa duchessa si sarebbe adoperata personalmente per il reintegro del generale a governatore della Cittadella, a condizione, però, che le nozze venissero celebrate il prima possibile). Questa notizia e la ferma decisione di Clelia di mantenere fede all’impegno preso, gettano monsignor del Dongo in uno stato di «tristezza senza speranze», di rassegnazione quindi, che lo spinge ad isolarsi e a ritirarsi presso il convento di Velleja, poco lontano da Parma. Questo isolamento dalla vita di corte, dalla mondanità e il silenzio in cui si era forzatamente rinchiuso, assieme all’estrema magrezza, lo fanno amare dalla gente comune, che arriva addirittura ad avvertire in lui l’odore della santità: «tutta la sua condotta, unicamente ispirata dal dolore per le nozze di Clelia, fu presa come il frutto di una religiosità semplice e sublime». Tornato a Parma per adempiere ai suoi doveri di coadiutore, Fabrizio ha l’occasione di rivedere Clelia, ora marchesa Crescenzi, ad un ricevimento presso il principe e la fiamma tra i due innamorati si riaccende più viva che mai.

    La duchessa fugge da Parma e diventa la contessa Mosca

    La duchessa si trova ora costretta ad adempiere al giuramento fatto al principe (quello di divenire la sua amante), non riuscendo a convincerlo a fare altrimenti (nonostante la minaccia di fuggire da Parma e non farvi più ritorno). Scappa quindi dalla città per rifugiarsi a Bologna. Dopo pochi giorni sposa a Perugia il conte Mosca, diventando così la contessa Mosca della Rovere. I due si trasferiscono a Napoli, mentre Fabrizio rimane alla corte parmense, dove riesce a conquistarsi la piena fiducia del giovane principe. Proprio il pieno favore acquisito presso il principe, assieme al favore incontrastato che gode presso il popolo in qualità di eccellente predicatore, gli permette di aiutare il conte Mosca e sua moglie, gettando il seme per un loro futuro ritorno in pompa magna. Ma la felicità di Fabrizio del Dongo di aiutare il conte Mosca è offuscata dall’ottuso silenzio e isolamento in cui si era relegata per l’ennesima volta Clelia, ora incinta del primogenito, ora più che mai decisa a non rivedere più Fabrizio.

    La svolta

    Gelosa di una giovane borghese di nome Annetta Marina, innamorata persa di Fabrizio, e sui quali circolavano voci di una relazione, Clelia si risolve finalmente ad assistere ad una predica di monsignor del Dongo. Così, dopo quattordici mesi di lontananza forzata, i due si rivedono e l’aspetto emaciato di Fabrizio, in netto contrasto con la passione delle parole da lui pronunciate, convince Clelia ad incontrarlo. Gli dà appuntamento per la notte seguente all’aranceto di palazzo Crescenzi, dove finalmente i due dichiarano apertamente il loro amore.

    La fine

    A questo punto Stendhal fa un balzo in avanti di tre anni. L’autore ci informa che nell’arco di questo periodo i due amanti hanno continuato a vedersi di nascosto (rigorosamente di notte per non venire meno al voto fatto alla Madonna di non vedere mai più Fabrizio) e che da questa relazione segreta è nato un bambino, Sandrino, il quale viene però cresciuto dal marchese Crescenzi (che lo crede suo figlio). Dopo due anni Fabrizio confessa a Clelia il desiderio di avere con sé almeno il figlio, non potendo vivere apertamente con la donna amata. Così le suggerisce di far fingere a Sandrino una malattia, che si sarebbe aggravata fino a provocare la morte del bimbo (in realtà portato al sicuro in un’altra casa). All’inizio riluttante, Clelia finisce con l’acconsentire al tanto diabolico quanto disperato piano. Le cose sembrano andare esattamente come previsto, ma quando Sandrino viene trasferito e si simula il lutto, il bambino si ammala veramente e muore dopo soli pochi mesi, seguito in capo a qualche mese dalla madre, distrutta dal dolore della perdita e del castigo subìto. A questo punto Fabrizio non vede altra soluzione che dimettersi dal suo ufficio all’arcivescovado e, dopo aver dato disposizioni sulla divisione patrimoniale, si ritira nella Certosa di Parma «situata nei boschi nei pressi del Po, a due leghe da Sacca», dove morirà dopo un solo anno.

    Stendhal, alla fine, ci informa anche su quanto accadde alla contessa Mosca. Ella aveva acconsentito affinché il marito tornasse a Parma per riprendere il suo ministero, ma senza fare lei stessa ritorno, in nome del giuramento di non mettere più piede negli Stati del principe fatto il giorno della violenza subìta. Vive perciò presso Vignano (in territorio austriaco) in un palazzo fatto costruire appositamente per lei dal conte Mosca. Lì trascorre un periodo tutto sommato felice. Alla morte dell’adorato nipote, però, la contessa non gli sopravvive che pochissimo tempo.

    Stendhal chiude il romanzo informandoci che a Parma non ci sono più prigionieri, che il nuovo principe è amato e che il conte Mosca è diventato ricchissimo: magrissimo sollievo per gli "happy few", i pochi lettori eletti a cui l’autore ha dedicato l’opera:

    STENDHAL


    LA CERTOSA

    DI PARMA

    TRADUZIONE DI

    FERDINANDO MARTINI

    AVVERTIMENTO

    Questo racconto fu scritto nell’inverno del 1830, in luogo distante da Parigi trecento leghe. Molti anni prima, quando i nostri eserciti scorrazzavan l’Europa, il caso mi pose in mano un biglietto d’alloggio per la casa d’un canonico: s’era a Padova, fortunata città in cui, come a Venezia, godersi la vita è la prima e maggior occupazione e non lascia tempo a sdegnarsi di vicinanze fastidiose. Il mio soggiorno si prolungò e il canonico ed io diventammo buoni amici.

    Verso la fine del 1830, ripassando per Padova, corsi alla casa del buon canonico: era morto, e lo sapevo; ma desideravo rivedere il salotto dove avevo passato tante gradevoli serate, così spesso rimpiante. Vi trovai un suo nipote e la moglie, i quali m’accolsero come un vecchio amico; altri vennero, e ci si separò molto tardi; il nipote del canonico fece portare dal Caffè Pedrocchi un ottimo zabaglione. Ma quel che soprattutto ci tenne desti fu la storia della duchessa Sanseverina, alla quale avendo un de’ presenti accennato, il padrone di casa si compiacque di raccontarla tutta intiera per me.

    «Nel paese ove vado – dissi agli amici – non troverò certamente una casa come questa; e per passar le lunghe serate, scriverò una novella sulla vostra simpatica duchessa. E farò come il vostro vecchio Bandella, vescovo di Agen, al quale sarebbe parso una colpa il trascurare i particolari veri delle sue storie o l’aggiungervene di nuovi»

    «Quand’è così, – soggiunse il nipote – io vi presterò gli annali di mio zio, che alla parola «Parma» raccontano parecchi intrighi di quella Corte, quando la Sanseverina vi spadroneggiava; ma badate! è storia tutt’altro che morale; e ora che in Francia v’è entrato l’uzzolo della purità evangelica, c’è il caso che, narrandola, vi acquistiate la peggiore delle nomée.»

    Pubblico questo racconto senza mutar nulla al manoscritto del 1830; il che può produrre due inconvenienti.

    Il primo, per il lettore: i personaggi, italiani, probabilmente lo interesseranno meno: i cuori italiani son molto diversi dai francesi. Gli Italiani sono schietti, bonaccioni, e, quando non sospettosi o impauriti, dicono ciò che pensano; la vanità non la provano che per accessi; e allora diventa passione e si chiama «puntiglio». Infine, la povertà non è fra loro ridicola.

    Il secondo inconveniente è per l’autore.

    Confesso che ho osato lasciare ai personaggi le asperità dei loro caratteri; ma per compenso, lo dichiaro altamente, rovescio il biasimo della morale più rigida su gran parte delle loro azioni.

    A che scopo attribuir loro la moralità superiore e le grazie del carattere francese? I Francesi amano sopra ogni cosa il denaro e non si lasciano trascinare al peccato né dall’odio né dall’amore. Gli Italiani di questo racconto sono assai differenti. D’altra parte, mi sembra che come procedendo dal Mezzogiorno al Settentrione ogni ducento leghe il paesaggio muta di natura e di aspetti, così anche il romanzo ha da diversificare. La gentile nipote del canonico, che conobbe e molto amò la duchessa Sanseverina, mi prega di non cangiar sillaba alle sue avventure veramente biasimevoli.

    23 gennaio 1839.

    I

    MILANO NEL 1796

    Il 15 maggio 1796 il general Bonaparte entrò a Milano alla testa del giovine esercito che aveva varcato il ponte di Lodi e mostrato al mondo come dopo tanti secoli Cesare e Alessandro avessero un successore.

    I miracoli d’ardimento e d’ingegno che l’Italia vide compiersi in pochi mesi risvegliarono un popolo addormentato: otto giorni avanti che i Francesi giungessero, i Milanesi li credevano un’accozzaglia di briganti usi a scappar di fronte alle truppe di Sua Maestà Imperiale e Reale, che questo diceva e ripeteva tre volte la settimana un giornalucolo grande come il palmo della mano e stampato su una sudicia carta.

    Nel Medioevo i Milanesi furon prodi quanto i Francesi della rivoluzione e meritarono di veder la loro città rasa al suolo dagli imperatori tedeschi. Da quando divennero «sudditi fedeli», loro cura suprema era lo stampar sonetti su pezzoline di taffetas rosa per celebrar le nozze di qualche fanciulla nobile o ricca. La quale fanciulla, due o tre anni dopo quel gran giorno della sua vita, si prendeva un cavalier servente: qualche volta il nome del cicisbeo, scelto dalla famiglia del marito, era perfino onorevolmente registrato nel contratto di matrimonio. Che differenza tra questi costumi effeminati e le commozioni profonde suscitate dal giungere impreveduto dell’esercito francese! Costumi nuovi non tardarono a sorgere, passioni nuove a manifestarsi; e tutto un popolo, il 15 maggio 1796, si accorse che quanto aveva fino allora circondato del suo rispetto era sovranamente ridicolo, odioso talora. La partenza dell’ultimo reggimento austriaco segnò la rovina delle vecchie idee: l’esporre la vita venne di moda. E si fu persuasi che per esser felici, dopo secoli d’ipocrisia e di scipitaggini, era necessario amar qualche cosa con passione vera, e sapere al caso sfidare la morte. La continuazione del geloso dispotismo di Carlo quinto e di Filippo secondo aveva come sommersi i Lombardi in tenebre profonde; rovesciate le loro statue, si sentirono a un tratto inondati di luce. Da una cinquantina d’anni, e via via che il Voltaire e l’Enciclopedia sfolgoravano in Francia, al buon popolo di Milano i frati andavano strillando che imparare a leggere o imparare una cosa qualsiasi era fatica inutile; che, a pagar regolarmente le decime al curato, e a raccontargli coscienziosamente tutti i propri peccatucci, s’era press’a poco sicuri d’avere un buon posto in Paradiso. A finir poi di prostrare questo popolo, già cosí animoso, l’Austria gli aveva venduto a buon mercato il privilegio di non fornir reclute al suo esercito.

    Nel 1796, ventiquattro cialtroni vestiti di rosso costituivan la forza armata della città di Milano, e con quattro magnifici reggimenti ungheresi presidiavano la città. La licenza era estrema; le passioni assai rare; oltre al liberarsi dall’obbligo fastidioso di raccontare i fatti propri ai curati, desiderii assillanti i Milanesi del 1796 non ne avevano. Rimanevano ancora certi impacci monarchici un tantino vessatorii: per esempio, l’arciduca residente in Milano, che governava in nome dell’imperatore suo cugino, aveva avuto la proficua idea di far commercio di granaglie: quindi, divieto ai contadini di vender le loro finché fossero pieni i magazzini di Sua Altezza Imperiale.

    Nel maggio 1796, tre giorni dopo l’ingresso dei francesi, un giovine pittore di miniature, un po’ matto, e il cui nome, Gros, fu celebre più tardi, udita raccontare al Gran Caffè dei Servi – allora di moda – la gloriosa impresa dell’arciduca, che era un colosso, disegnò sul rovescio del listino dei gelati, stampato in brutta carta gialla, questo schizzo: un soldato francese con una baionetta forava la pancia del grosso principe: dalla quale invece di sangue usciva una enorme quantità di grano. Quel che noi diciamo schizzo o caricatura era ignoto in quel paese di dispotismo vigile e astuto. Il disegno lasciato dal Gros sur un tavolino del Caffè dei Servi parve un miracolo piovuto dal cielo: la stessa notte fu inciso e il giorno dopo se ne venderono ventimila esemplari. Il giorno stesso, con editto affisso ne’ luoghi pubblici, si imponeva una contribuzione di guerra di sei milioni, da sopperire ai bisogni dell’esercito francese il quale, dopo aver vinto sei battaglie e conquistato venti province, non difettava piú che di calzoni, di scarpe, di abiti e di cappelli. Tale contentezza irruppe nella Lombardia, tale letizia vi diffusero quegli spiantati Francesi che soli i preti e alcuni nobili s’accorsero della gravezza della contribuzione di sei milioni, presto seguita da parecchie altre. Quei soldati ridevano e cantavano tutto il giorno: avevano meno di venticinque anni, e il generale in capo, che ne aveva ventisette, passava per il più vecchio dell’esercito. E tanta gaiezza tanta giovinezza tanta spensieratezza parevan rispondere sollazzevolmente alle furibonde predicazioni dei frati che durante sei mesi avevano dai pulpiti dipinto i Francesi quali mostri, obbligati sotto pena di morte a incendiar tutto che si parasse loro dinanzi e a tagliar teste quante più potessero: per il quale esercizio ogni reggimento marciava con, in avanguardia, una ghigliottina. Per le campagne si vedevan sulle porte delle stamberghe soldati francesi occupati a cullare i bimbi delle contadine, e quasi ogni sera qualche tamburino, strimpellando un violino, improvvisava un balletto. E poiché le contraddanze parevan troppo complicate, affinché i soldati, che del resto non le sapevano, potessero insegnarle alle campagnole, provvedevano queste a insegnare ai Francesi la monferrina, il salterello e altri balli italiani.

    Gli ufficiali che erano stati, fin dove s’era potuto, alloggiati nelle case de’ ricchi, avevan urgente bisogno di riaversi. Per citare un esempio, un tenente, di nome Roberto, ebbe un biglietto di alloggio per il palazzo della marchesa Del Dongo. Questo ufficiale, giovine «requisizionario» assai svelto, quando entrò nel palazzo possedeva per tutta ricchezza uno scudo da sei franchi, riscosso a Piacenza. Dopo il passaggio del ponte di Lodi, tolse a un bell’ufficiale austriaco, ucciso da una palla di cannone, un magnifico paio di calzoni, di nanchino novissimo, e non mai indumento venne in momento meglio opportuno. Le sue spalline eran di lana, e il panno della giubba cucito alle fodere perché gli sbrendoli stessero insieme; ma c’era di peggio: le suole delle sue scarpe eran fatte coi pezzi d’un cappello, preso anche questo sul campo di battaglia di là dal ponte di Lodi. E queste suole improvvisate aderivano alle tomaie con degli spaghi assai visibili; cosicché quando il maggiordomo si presentò nella camera del tenente per invitarlo a pranzare con la signora marchesa, questi si trovò in un impiccio addirittura terribile. Il suo attendente e lui passaron le due ore che li separavano dal pranzo fatale nel tentar di ricucire un po’ la giubba, e a tinger di nero – con l’inchiostro – i malaugurati spaghi delle scarpe. Infine giunse pure il momento tremendo. «Io non mi son mai trovato più a disagio – mi confessava più tardi il tenente Roberto; – le signore si immaginavano ch’io fossi uomo da incuter terrore col solo mostrarmi, e io tremavo più di loro. Guardavo le mie scarpe e non riuscivo a camminare con garbo. La marchesa Del Dongo – aggiunse – era allora in tutto lo splendore della sua bellezza: voi l’avete conosciuta, con quegli occhi così belli e d’una dolcezza angelica, con quei bel capelli d’un biondo scuro, che danno così bene rilievo all’ovale del volto incantevole. Io avevo nella mia camera un’Erodiade di Leonardo da Vinci, che era tutto il suo ritratto. Come Dio volle, fui così colpito da quella bellezza soprannaturale che non pensai più al mio abbigliamento. Da due anni non vedevo che cose brutte e miserabili per le montagne del Genovesato: osai dirle qualche parola sul mio incantamento.

    «Ma avevo ancora abbastanza buon senso per non durare a lungo in complimenti. Pur cercando d’elaborar belle frasi, vedevo in una sala da pranzo, tutta incrostata di marmi, dodici lacchè e camerieri in una tenuta che mi parve allora il colmo della magnificenza. Figuratevi che quei marioli non soltanto avevan delle buone scarpe, ma anche delle fibbie d’argento. Con la coda dell’occhio sbirciavo quegli sguardi stupidi fissi sulla mia giubba e forse anche sulle mie scarpe: e questo non mi andava giù. Avrei potuto con una parola sola farli sudar freddo, ma come metterli a posto senza rischiar di sgomentare anche le signore? Perché la marchesa per farsi un po’ animo, come ella mi disse tante volte dipoi, aveva mandato a prendere in convento, dove allora era educanda, Gina Del Dongo, sorella di suo marito, che fu più tardi la graziosissima contessa Pietranera: nessuno ne superò, a’ suoi bel tempi, la gaiezza e l’arguzia amabile, come nessuno pareggiò il suo coraggio e la serenità nell’avversa fortuna.

    «Gina, che poteva allora aver tredici anni, ma ne mostrava diciotto, vivace e franca, come voi la conoscete, aveva tale paura di scoppiare in una risata a guardarmi, e vedermi in quell’arnese, che non osava mangiare: la marchesa, all’opposto, mi opprimeva di cortesie un po’ forzate: scorgeva certo ne’ miei occhi qualche segno d’impazienza. Insomma, io facevo una stupida figura e mi rodevo lo scherno, cosa che dicono impossibile a un Francese. Finalmente un’idea scese dal cielo a illuminarmi: mi misi a raccontare alle signore le mie miserie, e quel che avevamo sofferto da due anni su per le montagne genovesi, dove ci trattenevano dei vecchi generali imbecilli. Ci distribuivano, dissi, degli assegnati che non avevan corso nel paese, e tre once di pane al giorno. Non avevo parlato due minuti, che la buona marchesa aveva le lagrime agli occhi e la Gina s’era fatta seria.

    «Come, signor tenente, – mi domandò – tre once di pane soltanto?

    «Sì, signorina; ma, per compenso, la distribuzione mancava tre volte la settimana; e siccome i contadini, presso i quali alloggiavamo, eran anche più disgraziati di noi, davamo loro un po’ della nostra razione.

    «Alzati da tavola, offrii il braccio alla marchesa, fino alla porta della sala; poi, tornando addietro rapidamente, diedi al domestico che m’aveva servito a tavola quell’unico scudo che era stato fondamento ai miei molti castelli in aria

    «Otto giorni più tardi, – continuò Roberto – quando fu bene accertato che i Francesi non ghigliottinavano nessuno, il marchese Del Dongo tornò alla sua villa di Grianta sul lago di Como, dove eroicamente s’era rifugiato all’appressar dell’esercito, abbandonando alle sorti della guerra la leggiadra e giovine moglie e la sorella. L’odio che questo marchese aveva per noi era uguale alla sua paura, così incommensurabile: e quando voleva dimostrarsi meco cortese, era divertentissimo a mirar la sua facciona pallida di bigotto. Il giorno dopo il suo ritorno a Milano, io ricevei tre canne di stoffa e duecento franchi sulla contribuzione dei sei milioni; mi rimpannucciai e divenni il cavaliere delle signore, poiché i balli incominciarono.»

    La storia del tenente Roberto fu a un dipresso quella di tutti i Francesi: invece di schernir la miseria di quei bravi soldati, n’ebbero compassione e li amarono.

    Questo periodo di gioia imprevista e d’ebbrezza non durò che un paio d’anni; la follia fu in quel tempo così generale e di tale eccesso ch’io non saprei darmene ragione se non per una considerazione storica e profonda: sull’anima di questo popolo gravavano cento anni di noia.

    La voluttà, naturale nei paesi meridionali, aveva regnato un tempo nella corte dei Visconti e degli Sforza. Ma dal 1624, da quando, cioè, gli Spagnuoli s’erano impadroniti di Milano, e impadroniti da padroni taciturni, sospettosi, superbiosi, sempre paurosi di rivolte, la gaiezza disparve. E i popoli, assuefacendosi ai costumi de’ loro padroni, pensaron più a vendicar con una pugnalata il menomo oltraggio che a goder dell’ora fuggente.

    La pazza gioia, l’allegria, la voluttà, l’oblio di tutti i sentimenti tristi o appena ragionevoli giunsero a tale – dal 15 maggio 1796 che i Francesi entrarono a Milano, all’aprile 1799 quando in conseguenza della battaglia di Cassano ne furon cacciati – che si ha memoria di vecchi mercanti milionarii, di vecchi strozzini, di vecchi notai, i quali durante questo periodo dimenticarono di seccare il prossimo e di guadagnar quattrini.

    Come eccezioni si potrebbero, al più, citare alcune famiglie dell’aristocrazia che si ritirarono nelle loro

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1