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La stella di Geq
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La stella di Geq

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About this ebook

Un ragazzo, sceso nella stazione del mondo con la valigia più scassata che si possa immaginare – dentro vi erano disseminate in maniera sgangherata la bruttezza fisica e l’incapacità mentale – riesce a superare l’impasse esistenziale avvicinandosi al mondo dei libri. Così, come per magia, il bello che giorno dopo giorno assimila tramite le letture e l’interesse per le scienze, per l’arte, etc. si trasferisce sulla sua persona. È così che, il brutto anatroccolo, grazie ai libri e alla cultura, accede al mondo dei cigni. Avviene una clamorosa trasformazione che porta il personaggio a diventare un campione del sapere e un idolo del cinema. Purtroppo, quando la patologia del gioco d’azzardo si impossessa di Geq – questo è il nome del protagonista – si ha l’esatto processo contrario: il ritorno al vecchio status. Era giunto nel mondo che sembrava una mosca caduta nel latte. Nonostante fosse riuscito a venirne fuori, ci ricadde. 
 
LanguageItaliano
Publisherlfapublisher
Release dateMay 16, 2019
ISBN9788833431499
La stella di Geq

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    La stella di Geq - Mimmo Parisi

    MIMMO PARISI

    La Stella di Geq

    Ognuno ha dentro di sé la propria leggenda

    MIMMO PARISI

    LA STELLA DI GEQ

    (Ognuno ha dentro di sé la propria leggenda)

    PRIMA EDIZIONE

    ISBN - 978 - 88 - 3343 - 149 - 9

    Quest’opera è frutto di fantasia ogni riferimento a fatti,

    persone o luoghi è puramente casuale.

    LFA Publisher

    Via A. Diaz, 17 -80023-

    Caivano -Napoli, Italy

    Partita Iva 06298711216

    www.lfaeditorenapoli.it --- info@lfaeditorenapoli.it

    Distribuzione cartacea Libro Co. Italia -Firenze-

    Impaginazione a cura di L. Giordano

    « Non era mia intenzione logorare le figure dipinte a tinte eroiche che, nel bene e nel male, attraversano la vita di ognuno. Vorrei solo che tutti, a iniziare da me stessa, si passasse per il mondo dando il giusto valore alle cose.

    E soprattutto alle persone.

    Non ci sono dei o semidei sotto questo cielo. »

    Jade Scudi, personaggio del romanzo

    A tutti i brutti anatroccoli di questo mondo che,

    a un certo punto della loro storia,

    « Ma anche Basta! »

    Prologo

    Per definire un personaggio singolare dovrebbero bastare tre date: quella della nascita, quella della sua maggiore impresa epica, quella della sua morte.

    Per un eroe, dovrebbero essere sufficienti queste informazioni.

    Tuttavia, avercene di eroi!

    Non è più tempo di eroi, questo.

    Non importa più a nessuno se uno con la faccia di Ulisse osi andare al di là delle Colonne d’Ercole. E poi, quali colonne?

    Non ci sono più colonne da sfidare. Lì, di fronte all’addomesticato oceano Atlantico, ci sono solo una Spagna e un Portogallo in crisi europea. E le crisi non hanno niente di eroico.

    No, non è proprio più tempo.

    La verità è che i bambini – e anche gli adulti – non frequentano quasi più la parola eroe. Ci avete fatto caso? Si citano solo nomi come Flash, Superman, Batman, Wonder Woman, Aquaman e Lanterna Verde. E ancora, Silver Surfer, Hulk, Tempesta, Capitan America, Wolverine, Quicksilver, Elektra, Sub-Mariner, Jubilee, Thor e l’Uomo Ragno.

    Questo è il tempo dei supereroi.

    Ormai.

    Okay. Vabbè, a essere precisi e forse, bisognerebbe togliere dall’assiepato mazzo la figura di Batman. In fondo, Batman è uno senza effetti speciali. Non vola. Non corre alla velocità della luce. Non sa parlare il ragnese come Spiderman. Insomma, forse è l’unico rimasto ancorato al vecchio e superato concetto di eroe. Fa tutto quel che fa a causa di un’intelligenza incredibile. E lo fa da uomo. Insomma, è un pipistrello vero come una moneta da due euro e ventisette centesimi.

    Usa il costume da chirottero solo per fare « sciò! » nella notte di Gotham City, la più cupa città di tutta l’America. D’altra parte, il lungimirante Batman, sa di non potersi presentare agghindato come un ballerino della Scala nei vicoli pericolosamente dark. Il crimine nascosto negli anfratti urbani lo canzonerebbe. In definitiva, anche se si è bravi a menare le mani, in certe città si ha bisogno di un certo look. Superman se lo può permettere il costumino multi colorato perché agisce a Metropolis, la città della luce e della tecnologia. Batman, nella tenebrosa Gotham, no.

    Tuttavia e purtroppo, il quadro agiografico che si tenta di fare intorno a questa figura – nella vita bisogna pur tentare di salvar qualcosa –, deve tenere conto del fatto che, ahimè, il signor Bruce Wayne in arte Batman, è un ricchissimo uomo d’affari. E quest’ultimo particolare entra in conflitto profondo con la tesi di una sua probabile e immarcescibile figura di eroe romantico di vecchio stampo.

    Insomma, diciamola tutta: avere un mucchio di soldi è un superpotere?

    Silenzio assoluto... !

    Al bando la timidezza e il falso pudore: la risposta al quesito è sì.

    Eccome!

    Quelli che li hanno, i dobloni, direbbero sì (a meno che la bugia non risultasse il loro sport preferito).

    E, soprattutto quelli che i soldi non li vedono nemmeno dopo una visita oculistica fatta da un valente professionista, raddoppierebbero l’assenso con un doppio sì convinto.

    Quindi niente. Bisogna mettersi il cuore in pace.

    Batman è come gli altri.

    Anzi, forse, il suo potere è ancora più potente di quello degli altri suoi colleghi.

    Senza forse.

    Quindi...

    Non resta nessuno.

    Non è più tempo di eroi.

    E, respiro di sollievo, forse è anche meglio.

    In fondo era una vitaccia competere con gli eroi.

    Quelli erano uguali a te. Con due gambine, due manine uguali alle tue, eppure ti combinavano l’ira di Dio. Si era costretti a chiudere il libro. A uscire dal cinematografo. A spegnere la tv. Si era uguali a loro ma non si riusciva mica, come Giasone ad esempio, a farsi un viaggetto nella Colchide per scippare il vello d’oro. Lui, Giasone, si divertiva come un matto a fare cose strane come arare un campo facendo uso di due tori dalle unghie di bronzo che spiravano fiamme dalle narici; oppure, giusto un secondo dopo aver arato con l’aiuto dell’amico dalle narici fumogene, seminare nel campo appena arato i denti di un draghetto, i quali, germogliando, generavano – miracolo dei miracoli! – un’armata di guerrieri. Ovviamente, il vello d’oro, fu conquistato con semplicità. L’eroe spruzzò all’animale una pozione ricavata da alcune erbe; il drago si addormentò ed egli poté conquistare il vello d’oro. E che ci vuole?

    Ci vuole che, poi, quando si provava a ripetere le gesta del Giasone di turno, non si trovavano mai uno straccio di drago o dei miseri tori con un po’ di fumetto nelle narici. Giusto un po’ di peperoncino da accostare al naso di Fido che scappava come un fulmine in cerca d’acqua.

    Era svilente.

    Veramente!

    Nel terzo millennio, invece, a chi verrebbe mai in testa di porgere i polsi verso un muro per sputargli addosso un getto di tessuto ragnoso? A nessuno. Sei mai stato punto da un ragno modificato geneticamente, tu? No. Al massimo da una zanzara in estate. E con la loro puntura non vai lontano. Al massimo alla farmacia all’angolo, per comprare qualcosa adatto ad alleviare il pizzicore. Quindi niente. Le avventure di Spider-man te le leggi e amen.

    Ti diverti.

    Non devi dimostrare niente.

    A nessuno.

    Nemmeno a te stesso.

    Poi, non facciamocene un cruccio di quell’epoca favolosa. Non era tutto oro quello che luccicava. Lo dice anche il poeta Lucio Dalla in Ayrton: « ... Ho capito che era tutto finto ho capito che un vincitore vale quanto un vinto. » Be’, ma allora, a che gioco giochiamo? Nessuno aveva mai avvisato i bambini vissuti all’epoca degli eroi che vinti e vincitori fossero ambedue sfigati. Quanta fatica sprecata a cercare di essere il trionfatore!

    Comunque, vincitori e vinti, anche loro, sono tutte categorie sorpassate.

    Oggi, cosa vuoi vincere contro uno che ti vola in faccia o ti corre che nemmeno... un Flash!

    Però...

    Bisogna riconoscere che, paradossalmente, i supereroi hanno fatto fare un salto qualitativo all’umanità. Verso la semplicità. Verso l’essere individui normali in mezzo a milioni di individui normali. Si può dire anche ordinari.

    Che c’è di male a essere ordinari?

    Alcuni non vogliono sentir parlare di ordinarietà.

    Sono quelli destinati all’infelicità.

    La serenità e l’equilibrio abitano, a dispetto di quelli che sono sempre in affanno gratuito, nella normalità.

    Siate normali.

    La storia fatela fare agli altri.

    ... Che poi, se magari ci parli, ti diranno che loro, gli altri, non volevano nemmeno farla, la storia.

    E non si sta parlando di alunni impreparati.

    Vabbè.

    Non ci sono più eroi.

    Ci sono solo supereroi.

    E gente – finalmente! – ordinaria e normale.

    Felice!

    Ovviamente, è felice quando non è disoccupata e si può permettere, perfino, guarda te, una vacanzina: di questi tempi, è meglio segnalare la cosa.

    Diversamente si è solo ordinari e normali.

    Non particolarmente felici.

    A questo punto e detto tutto questo po’ po’ di roba, verrebbe da chiedere, perché lui – che non appartiene a nessuna delle categorie segnalate – è approdato su questo pianeta?

    Perché lui che non è eroe, supereroe, impiegato al catasto, disoccupato, impiegato o frequentatore di master pagato una mazza è arrivato qua?

    Poi, lui... Lui chi?

    Ci sono diverse tesi. Due fra quelle più accreditate sono le seguenti.

    Qualcuno doveva essere ubriaco quando lo fece nascere. Ovvero, prima ipotesi.

    È sabato sera. Da qualche parte dell’universo scoccano le vent’uno. Il barbone e i capelli bianchi svolazzano sotto la spinta del vento spirante da Alfa Centauri. Incurante del look, lui se ne sta col tunicone michelangiolesco e con i piedi nudi appoggiati sul pavimento. Un sigaro fa segnali di fumo incollato al lato della bocca. La sua casa, diversamente da quanto si potrebbe pensare, è di una semplicità estrema. Anche a volerci ricamare una descrizione all’altezza del personaggio rimane comunque una scarsa 40 metri quadri che comprendono una mini camera da letto, una cucina e i servizi. Ah, il bagno è senza chiave: tanto non ha mai ospiti. Il soffitto è bianco nuvola con al centro un lampadario in corda a forma di campana. La luce della lampadina accesa trapassa l’ordito disegnando mille ghirigori luminosi tutt’intorno. La parete più distante è ingombra di polverosi libri farinosi bloccati lì dalla notte dei tempi. Gli altri muri, salvo un poster di suo figlio trentatreenne che somiglia a Jim Morrison, sono del tutto vuoti. Moglie niente. Chi, parlando di lui, racconta di un luogo incredibile e concerti d’arpa con cori celesti è solo un adulatore in cerca di favori. Sul tavolo l’etichetta storta di Jack Daniels diventa spesso orizzontale tintinnando sul bicchiere di vetro compatto. L’odore del toscano ammorba l’aria. La settimana è stata lunga e laboriosa.

    Dopo l’ultimo gorgoglio nel bicchiere la testa gli si fa pesante e si accascia sul tavolo completamente ubriaco. Perché si è ubriacato? Boh! Avrà avuto anche lui i suoi problemi. Magari gli è andata storta qualcosa negli ultimi progetti o solo perché è fine settimana e lui festeggia così.

    Quindi, con Bacco e Dioniso farfuglianti e Morfeo che gli vendeva sogni a buon prezzo, chi si ricordava più dell’imminente parto che, sicuramente, doveva essere evitato?

    Qualcuno – probabilmente quello di prima - doveva essere distratto quando lo fece nascere. Ovvero, seconda ipotesi.

    Il bar è piccolo. Tanto che, appena entri, ti scontri contro un bancone di legno che ha le radici nel pavimento di mortadella di marmo. A sinistra ci sono due tavolini, uno per il gioco e l’altro per leggere il giornale bevendo il caffè. Sulle pareti alcune mosche vanno e vengono, come lenti elicotteri pigri e ronzanti. Si sono rifugiate dall’afa opprimente dell’esterno. Ma neanche l’interno non scherza in quanto a caldo. Il bisbiglio asmatico di un vecchio ventilatore che a volte si ferma per riprendere fiato serve a poco. Alcuni di quei chicchi di caffè con le ali sono proprio stupidi: non riescono a stare lontani dall’elica di quell’aggeggio. Lo sanno che prima o poi ritorna a girare dannatamente. Ma loro niente. Eccole lì, le mosche, come eroine imbecilli a posarsi sulla plastica color zanna d’elefante per, appena le pale riprendono ossigeno e ricominciano a vorticare di nuovo, allontanarsi brancicando nell’aria inorridite e sgangherate come se avessero assistito a una novità. Il barista passa continuamente lo straccio sul banco. Anche se non ce ne sarebbe bisogno. Oltre a questa attività non proprio appassionante, l’uomo con la pezzuola, passa le sue giornate a osservare i giocatori intenti a giocare a carte. Questa volta i quattro sono presissimi come se l’universo dipendesse da ciò che hanno tra le mani. A onor del vero e almeno per uno di essi, la cosa è effettiva. Il tipo in questione è facile da riconoscere. Almeno due segni sono inoppugnabilmente legati alla sua professione: l’occhio che sbircia da un triangolo che lo sovrasta e, l’avere fra le mani un poker. Un poker da... Dio. Posa la bottiglia di birra Moretti mezza vuota.

    « Poker d’assi » dice.

    La dichiarazione si fa spazio tra i segnali di fumo che esalano dai portacenere.

    « Di legno o di truciolato? » chiede il compagno dirimpettaio. Uno solo ha l’ardire di aggiungere una cretinata alla cretinata: « No, da stiro » dice senza ridere.

    In quel bar si gioca tanto e si ride poco.

    Insomma, lui è lì. Indaffarato in un bar a giocare a carte con gli amici. È perfettamente legittimo. Però, diciamola tutta: come si fa, uno come lui, a uscire di casa senza dare prima una sbirciata alle imminenti date di nascita? E poi, visto i problemi che crea anche a se stesso, che bisogno c’era di inventare anche la sbadataggine? Poteva risparmiarsela.

    Poi, la si vuol dire tutta? Che senso ha per un graduato come lui appassionarsi a giocare sapendo l’esito dal principio?

    Se sa di vincere non è una gran cosa.

    Se sa di perdere non è una gran cosa.

    È il modo di consumare il tempo quello? Forse che il pescatore butta le reti sapendo che non tirerà su nulla? Certo, ci sarebbe la possibilità di imbrogliare. Giusto per passare il tempo. Tanto lui sa tutto, conosce le carte di ognuno. Sia del tipo che lo guarda in cagnesco alla sua destra, come della disperazione di quello che sta alla sua sinistra. Ma andiamo, imbrogliare non è da lui.

    Ancora qualche altro dubbio, ovvero, quali sarebbero poi questi amici coi quali potrebbe scambiarsi le carte se è l’unico Ente presente in tutte le galassie? Certo, ci sarebbero i sottoposti, angeli e diavoli. Con i secondi, per evidenti ragioni politiche, non ci giocherebbe di certo. Con i primi, bisognerebbe sapere se appartenga a quei datori di lavoro che si mischiano con gli operai. Mah... Ma poi, ci sono i bar sulle nuvole? E se sì, quando piove dove si trasferiscono? Passa qualcuno a dire che la nuvola sulla quale posa l’esercizio il giorno tot deve essere trasferito, perché si prevede che si trasformi in acquazzone autunnale e non ci può essere alcuna dilazione perché è stato già segnalato dal meteo? Tutte domande legittime. Purtroppo a parlare di lui e delle sue cose si rischia sempre di divagare senza speranza di alcuna risposta o certezza.

    Tuttavia, qualunque ragione abbia avuto per non assistere al parto con il zelo che ci si aspetta da uno come lui, quello che qui veramente interessa è sapere chi paga.

    Chi paga?

    Chi paga!

    A quale ufficio deve rivolgersi uno che atterra sulla Terra in condizioni disastrate?

    Capitolo primo

    Se la felicità è nascosta tra le piccole cose, allora sarebbe una sfiga realizzare un impero come quello di Alessandro Magno che, proprio piccola cosa, non era? Vabbè, ma anche a volare più basso e restando nei paraggi, quindi, sarebbe peggiore una nascita sotto una buona stella di quella sotto, diciamo, una così e così?

    « Dovevano aver finito tutte le stelle buone, mediocri e perfino quelle scalcagnate quando decisero di farlo venire al mondo: gliene diedero una precisa a lui, brutta e scema! »

    Rosaria pronunciò le parole allargando le braccia e avvicinando la schiena contro il muro, esasperata.

    In quel tardo pomeriggio, non c’era nessuno che la minacciasse con un fucile puntato, ma l’effetto era quello. Forse si sentiva minacciata dalla vita che le aveva affidato il compito esagerato di rapportarsi con un essere che non capisce. La donna era stanca.

    Dalla cucina si diffondeva l’odore di minestrone. Si era intabarrata nella sua solita mise di lavoro, scarpe di stoffa comprate per quattro soldi al mercatino del sabato, calze d’ordinanza delle donne del sud post seconda guerra mondiale tenute da un elastico sopra il ginocchio e vestaglia con paragrembo. Per i capelli aveva risolto tagliandoli alla maschile così non perdeva tempo e poteva stare dietro alla sua famiglia e a quella dove prestava servizio. Quel giorno, diversamente dal solito, il suo abituale sorriso pendeva al contrario sulle labbra cotte dal sole delle molte stagioni estive passate nei campi del grano biondo e vanitoso che a giugno maturava nel Tavoliere delle Puglie.

    « E non so più che fare con lui » aveva poi concluso sconsolata.

    Linda era rimasta seduta vicino al suo caffè fumante ad ascoltarla. Di fronte allo sfogo impaziente di Rosaria cercò di restare impassibile e si diede un tono scrollando qualche inesistente briciolo di biscotto dalla gonna azzurra che, se pur fuori moda, non sfigurava sulla sua esile figura. Poi si tastò i bottoni della camicetta per assicurarsi che fossero tutti regolarmente chiusi e si passò la mano tra i capelli naturalmente ondulati. Quando le parse il momento giusto si alzò e, mettendo una mano sulla spalla della sua collega di servizio in casa Scudi, le parlò.

    « Scusa, sai come ho risolto io? Il mattino mi alzo senza aspettative di riconoscimenti né da Geq né da altri. Se qualcuno mi regala un grazie va bene, se no, la giornata è lunga e va portata a termine. Il mio compito è quello di partecipare alla vita di questa famiglia che è diventata anche la mia, cerco di fare solo questo. In fin dei conti non si può fondare la propria esistenza sulla speranza di un atto di gratitudine da parte di qualcuno che incrociamo abitualmente o di rado. Tu prova a sorridere e a far venire sera con il massimo della letizia che ti è possibile. Solo così se ne viene fuori. In ogni modo ti capisco. È davvero frustrante non vedere riconosciuti i propri sforzi. Comunque via, Geq ha solo un aspetto e una mente diversi. Che ci vuoi fare, ognuno è quel che è. E poi, sono convinta che Geq sia un ragazzino... speciale! Nel bene e nel male » finì invitando l’amica a sedersi un attimo a farle compagnia.

    L’intervento di Linda ebbe successo e Rosaria si accomodò a bere anch’essa un po’ di caffè che, pur se non più tanto caldo, riuscì a tirarle su il morale.

    Il fatto era che il ragazzino si stava dimostrando davvero coriaceo anche per le possibilità di Rosaria. Ragazzino, era un puro eufemismo, niente di più. Sicuramente aveva il pisello, ma anche i conigli e le volpi l’hanno. Diciamo che era di genere maschile, con qualche riserva sulla sua appartenenza alla specie umana. Questa era la convinzione

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