Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Niccola Nisco: Una vita per la patria e l'amore coniugale
Niccola Nisco: Una vita per la patria e l'amore coniugale
Niccola Nisco: Una vita per la patria e l'amore coniugale
Ebook336 pages4 hours

Niccola Nisco: Una vita per la patria e l'amore coniugale

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Questo libro racconta la “storia di vita” di un personaggio poco noto del Risorgimento italiano, ma che fu tra i primi a desiderare ardentemente e operare audacemente – anche con Cavour – per l’indipendenza e l’unità della patria. Per affrettarne la libertà e il progresso scrisse di storia e di economia; e, come Settembrini, Poerio, Pironti, divenne settario e subì il carcere. L’amor di patria – con l’amore coniugale e familiare – fu il motivo di fondo della sua fervida vita, nettamente distinta in un prima e un dopo 1848: borbonico e cattolico liberale prima, filosabaudo e anticlericale poi. L’Autore, quindi, nel contesto storico-antropologico del paese natale e, per dirla con Leopardi, sullo sfondo di «un secolo superbo e sciocco», ma anche teso a «magnifiche sorti e progressive», ne svela luci e ombre, finora ignote o ignorate. Provando, così, a chiarire diffuse visioni di una storiografa risorgimentale – e delle carceri borboniche in particolare –, spesso inflazionata o “avvelenata”, cui concorse anche Niccola Nisco, “osservatore partecipante”, nonché patriota e politico meridionale.
LanguageItaliano
Release dateApr 12, 2019
ISBN9788838247989
Niccola Nisco: Una vita per la patria e l'amore coniugale

Related to Niccola Nisco

Related ebooks

Historical Biographies For You

View More

Related articles

Reviews for Niccola Nisco

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Niccola Nisco - Angelomichele De Spirito

    Angelomichele De Spirito

    Niccola Nisco

    Una vita per la patria e l'amore coniugale

    ISBN: 9788838247989

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    PRESENTAZIONE

    I. IL PAESE NATALE TRA RESTAURAZIONE E SOCIETÀ SEGRETE

    1. Lo stato del nuovo Regno da Waterloo a Gaeta

    2. Dieci secoli di storia e gli uomini con i baffi

    3. Un villaggio nella memoria e la qualità della vita

    4. Dalla mobilità viaria alla mobilità sociale

    II. I BENI DEI PRINCIPI SPINELLI E IL VERBO «NISCARE»

    1. L’abate amministratore e proprietario

    2. Versi avversi ma rivelatori

    3. I terreni demaniali di Vico di Pantano

    4. Lui e gli altri per il proprio paese

    III. GLI AVI DEVOTI E LA FANCIULLA BELLA

    1. Preti, notai e il protettore san Nicola

    2. In seminario come Mancini, Massari e altri

    3. Studente a Napoli sulle orme di Vico

    4. Cattolico liberale e cavaliere del re

    5. Nella buona e nella cattiva sorte

    IV. LE IDEE DI UN NEOGUELFO

    1. Gli scritti giovanili e gli elogi al re

    2. Oltre Gioberti e la modernità dei papi

    3. I «Gesuiti di campagna» e la plebe abbandonata

    4. Fede, patria e le domande di Massimo d’Azeglio

    V. E VENNE IL QUARANTOTTO

    1. Il giorno delle barricate e la mutata rotta

    2. Quei ritorni a casa e la marcia interrotta

    3. Il settario-cassiere e il lungo processo

    4. Tra beghe paesane e ideali politici

    VI. CARCERE DURO E SORVEGLIANZA SPECIALE?

    1. Case e carceri nell’Ottocento

    2. Le fake news di un lord inglese

    3. Il menù dei carcerati e il mondo attorno

    4. Le frequenti visite e dei servitori personali

    5. Lo Spielberg che non c’era e le grazie del re

    VII. L’AMOR DI PATRIA E LA STORIA AVVELENATA

    1. I rapporti con Cavour e le prime delusioni

    2. L’attività parlamentare e il racconto dei tre re

    3. La promessa disattesa e le accuse agli altri storici

    4. Lo storico militante e i giudizi su di lui

    VIII. PER TENER DESTI I VIVI

    APPENDICE

    RICORDANZE DI ADELE DE STEDINGK

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    PUBBLICAZIONI DI NICCOLA NISCO

    BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

    ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI

    INDICE DEI NOMI

    CULTURA

    Studium

    148.

    Storia

    ANGELOMICHELE DE SPIRITO

    NICCOLA NISCO

    Una vita per la patria e l’amore coniugale

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Copyright © 2019 by Edizioni Studium - Roma

    ISBN 9788838247989

    http://www.edizionistudium.it/

    PRESENTAZIONE

    Il prof. Angelomichele De Spirito, con questo volume: Niccola Nisco. Una vita per la patria e l’amore coniugale , offre un contributo notevole alla storia del Risorgimento italiano, ma anche alla storia della comunità di San Giorgio del Sannio.

    Quest’opera, costata molti anni di lavoro e redatta con forte, indicibile cura, attraverso la consultazione di una ricca bibliografia, ma soprattutto mediante l’analisi di fonti inedite e rare, costituisce un testo fondamentale per la biografia di Niccola Nisco. Essa viene documentatamente e puntualmente ricostruita nel contesto storico-antropologico ottocentesco del suo paese natale e in relazione alle vicende socio-politiche della risorgente nazione italiana.

    L’attenta lettura di queste pagine, scorrevoli e chiare – se lette sine ira et studio, e senza fretta –, dimostra ancora una volta la competenza e la serietà scientifica dell’Autore, che ha al suo attivo numerosi libri e saggi di antropologia culturale e di storia delle tradizioni popolari. Condotti con adeguata metodologia, pazienza certosina e razionale acribia, essi riguardano tematiche che spaziano dall’antropologia della famiglia meridionale alla religiosità popolare, dalla magia nel Sannio campano agli studi di comunità del Sud Italia e del Nord del Madagascar.

    Alcuni anni fa, il prof. De Spirito ha offerto ai cultori di storie locali, e soprattutto ai sangiorgesi, un altro volume, sponsorizzato dalla precedente Amministrazione Comunale, illustrato da oltre 80 immagini e intitolato: San Giorgio del Sannio. Storia di eventi e di antiche famiglie (2012). Ma già dalla fine degli anni Settanta, egli aveva pubblicato articoli e monografie di personaggi e istituzioni sociali e religiose dell’ultramillenaria storia del nostro paese. Alcuni di essi sono indicati nella bibliografia del presente volume. In particolare, si segnalano la biografia e la riedizione completa (2006) delle opere settecentesche del filosofo e teologo sangiorgese Tommaso Rossi, amico di Giambattista Vico, che lo disse «degno della più famosa Università dell’Europa»; e che fu ricordato e molto apprezzato, un secolo dopo, anche da Luigi Settembrini.

    In questa storia di vita del conterraneo Niccola Nisco, il prof. De Spirito ha ben evidenziato con dovizia di fatti – molti dei quali del tutto inediti – il profilo interno e l’ambiente intorno, come egli scrive, del patriota e politico meridionale. Ma ha messo in luce, altresì, la sua figura di sposo e di padre, quale risulta dalle Ricordanze di Adele de Stedingk, scritte da Nisco nel 1891, e opportunamente riportate dall’Autore in questo volume, corredato da molte significative immagini, come quella romantica dei due sposi, posta in copertina.

    Detenuto per motivi politici nelle carceri di Nisida, Ischia, Montefusco e Montesarchio, lontano dalla vita sociale della Napoli-bene e dalla propria famiglia, Nisco scriveva al suocero: «Ho in questo mondo tutto perduto quanto di più caro può avere un uomo e soffro il massimo dolore di vedere, per cagione mia, infelice una moglie amatissima; ma l’unico bene che mi resta è la mia dignità in rapporto a tutti». Dichiarando, così, che un vero patriota non solo combatte per determinati ideali, ma vive sulla propria pelle la conseguente dolorosa esperienza.

    Nel ripercorrere l’itinerario spirituale, culturale e politico di Niccola Nisco, illustrato in modo ampio, originale e approfondito dal prof. De Spirito, sento di doverlo cordialmente ringraziare a nome dell’Amministrazione Comunale. Ma non posso non essergli altrettanto grato per aver voluto dedicare gran parte della sua attività scientifica alle laboriose ricerche di storia locale, e per il tenace impegno profuso nella loro divulgazione. Esse trovano suggello e compiutezza proprio in quest’opera. Per cui, si può dire che la comunità sangiorgese riscopre il suo underground storico in una visione del passato, dove primeggia la figura di Nisco, sposo e padre affettuoso, ma anche fervente e indefesso patriota risorgimentale.

    Il Sindaco

    Prof. Mario Pepe

    L’odierno San Giorgio del Sannio in una cartina del Settecento (da G. B. Pacichelli).

    Napoleone alla battaglia di Waterloo.

    La patente di un maestro carbonaro.

    I. IL PAESE NATALE TRA RESTAURAZIONE E SOCIETÀ SEGRETE

    1. Lo stato del nuovo Regno da Waterloo a Gaeta

    Quando il 29 settembre 1816 a San Giorgio la Montagna – dal 1860 in provincia di Benevento e dal 1929 denominato San Giorgio del Sannio – nasceva Niccola Nisco, da Giacomo e Onorata Corona, nel Sud d’Italia sorgeva una nuova entità statale: il Regno delle Due Sicilie; il cui re, Ferdinando IV di Borbone, prese il nome di Ferdinando I. L’anno innanzi era terminato il Congresso di Vienna, che, segnando la fine dell’impero napoleonico in Europa, dopo la battaglia di Waterloo, aveva sancito il consolidamento della Restaurazione e dei sovrani assoluti anche in Italia. Il nuovo assetto politico, deciso dalle potenze vincitrici: Austria, Russia, Prussia e Inghilterra, si articolava in dieci Stati, il più antico e il più popoloso dei quali era il Regno di Napoli e di Sicilia con 6 milioni e 700 mila abitanti su di un totale di 20 milioni; e comprendeva tutto il Meridione, ad eccezione di Benevento, che fin dal 1077 apparteneva allo Stato pontificio.

    In quello stesso anno 1815, erano falliti anche i tentativi di Gioacchino Murat – dal 1808 re di Napoli per volere del cognato Napoleone –, di sollevare le popolazioni italiane contro la dominazione austriaca e creare una nazione unita e indipendente. Per questo, nel Proclama di Rimini, del 30 marzo, egli aveva spronato gli italiani affermando: «L’ora è venuta in cui debbono compiersi gli alti destini d’Italia. La Provvidenza vi chiama ad essere una nazione indipendente [...]. Stringetevi saldamente ad un governo di vostra scelta». Certamente, quel proclama, ritenuto in seguito il punto di partenza del Risorgimento italiano, era l’espressione dei sentimenti di uomini appartenenti ad una aristocrazia colta e geniale, come Pellegrino Rossi, che lo aveva scritto, o come Silvio Pellico, Cesare Balbo e Alessandro Manzoni, che lo evocava nei versi:

    O delle imprese alla più degna accinto,

    Signor che la parola hai proferita,

    che tante etadi indarno Italia attese…

    Ma, altrettanto certamente, quel pressante invito non rispecchiava i sentimenti e le idee di tutto un popolo. Il quale, al di là della mala volontà dei suoi governanti, si trovava a subire proprio in quei due anni e in tutta Europa anche la carestia, il cui impatto sulla situazione economica suscitava, in diverse parti d’Italia, manifestazioni di malcontento, e perfino tumulti, prontamente repressi. Né mancavano diffuse epidemie, come i molti casi di peste verificatisi soprattutto in Puglia.

    Va però ricordato che dalla Restaurazione del 1815 fino all’assedio di Gaeta del 1860 – in quasi mezzo secolo di governo borbonico –, nel regno non si ebbero aumenti di tributi; che anzi spesso diminuirono. C’erano: una sola tassa diretta, la fondiaria, che in gran parte fu messa durante il decennio francese, e quattro indirette: una sulla dogana dei tabacchi, sali, polveri da sparo e carte da gioco, e tre sul registro, la lotteria e le poste. «Provammo co’ fatti – scrive lo storico Giacinto de’ Sivo (1814-1867) – il miglior governare esser quello che costa meno. Calcolate le imposte sulle popolazioni, ogni Napolitano pagava lire 14 di tasse all’anno, dove ogni Piemontese ne pagava 28». Sulla buona tenuta delle finanze napoletane, che al momento dell’unificazione contribuirono più d’ogni altro Stato ad arricchire l’Italia, dà conto anche Francesco Saverio Nitti (1868-1953), notando i 443 milioni di lire oro corrisposti dal Regno delle Due Sicilie a fronte di neppure la metà del resto della Penisola. Il Mezzogiorno, poteva egli dire, «nel 1860, era un paese povero, ma aveva accumulato molti risparmi, avea grandi beni collettivi, possedeva, tranne la educazione pubblica, tutti gli elementi per una trasformazione». E questa non avvenne; anzi fu ostacolata dai nuovi governanti unitari.

    È vero che c’era il «protezionismo borbonico», di cui parla anche Niccola Nisco, ma quella politica protettiva – scadente talvolta nel paternalismo –, almeno inizialmente era l’unica possibile, data la scarsità di materie prime essenziali, per avviare il regno a dotarsi di proprie industrie, formare manodopera specializzata, acquisire tecnologie e rafforzare l’indipendenza e la neutralità. Tuttavia, che si possa parlare di una tradizione industriale del Mezzogiorno, lo dimostrano non pochi studi, iniziati a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, i quali evidenziano come il settore più avanzato fosse quello siderurgico e metalmeccanico. L’opificio di Pietrarsa, tra Portici e San Giovanni a Teduccio, dava lavoro a più di 1.000 operai, disponeva di una fonderia, produceva artiglierie navali e terrestri, macchine a vapore, locomotive ecc.; e servì da modello – sei anni dopo – a quello di Sampierdarena, vicino a Genova, ma con soli 480 operai. Lo stesso dicasi per le dimenticate ferriere e fonderie di Mongiana in Calabria; o dei primi pozzi artesiani introdotti in Italia, come riferisce Giuseppe Buttà. All’indomani dell’unificazione, il primo censimento del Regno d’Italia registrava nell’ex territorio borbonico un numero complessivo di occupati nell’industria pari a 1.189.000, a fronte degli operai di Lombardia, Piemonte e Liguria, che raggiungevano appena gli 810.000.

    La marina mercantile siculo-napoletana, che nel 1856 contava 11.500 legni, era per tonnellaggio la terza in Europa, e tra le 25 Compagnie di navigazione primeggiava la «Società delle Due Sicilie», anche a detta di Nisco «la più poderosa in Italia». I Cantieri Reali di Castellammare costituivano l’eccellenza mondiale per la fabbricazione di navi da guerra. L’industria molitoria, con oltre 300 impianti e le più grandi fabbriche di paste alimentari; la lavorazione di pelli e cuoio, tanto diffusa da poter fare a meno della importazione; il settore tessile, con l’industria della seta, facevano concorrenza a quelle estere; mentre lo stabilimento di San Leucio, vicino a Caserta, voluto nel 1789 da Ferdinando IV, e in origine direttamente comunicante col parco della reggia, era divenuto famoso anche per l’organizzazione del lavoro e il buon governo di quella comunità.

    Last but not least, ancora dal suddetto censimento si apprende che, se al Nord c’erano 7.087 medici per 13 milioni di cittadini, al Sud ce n’erano 9.390 per 9 milioni. E in tempi e luoghi di economia essenzialmente agricola – non solo nel Sud –, di pauperismo globalizzato e di situazioni igienico-sanitarie oggi inimmaginabili, accadeva che all’inizio del Novecento i livelli più bassi di mortalità infantile si registravano proprio in Campania, negli Abruzzi e in Sardegna; mentre fino alla fine dell’Ottocento i più alti esistevano in Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna. Che sono le regioni citate esemplarmente da Nisco, per «quelle istituzioni civilizzatrici di cui – a suo dire – erano dotati i loro villaggi». Ma, nonostante quanto fin qui sommariamente esposto, egli, divenuto antiborbonico dopo il 1848, osava malignare, parlando di «un paese – il Regno delle Due Sicilie – dai Borboni economicamente sgovernato per poi sbrigliatamente tiranneggiarlo».

    Riguardo all’ ordinamento etico-politico, grazie all’opera di alcuni ministri illuminati, come il cardinale Ercole Consalvi a Roma o Luigi de’ Medici a Napoli, in quei primi anni vennero impediti gli eccessi di una restaurazione intransigente; che, anzi, talvolta riusciva a trovare una certa continuità con il riformismo settecentesco. Pertanto, se Pio VII, rientrato a Roma dalla prigionia francese, soppresse la tortura e abolì diritti e privilegi feudali; Ferdinando IV, rientrato a Napoli dalla Sicilia, graziò i 250 compagni dell’ultima impresa di Murat, espellendoli dal regno, che essi volevano riconquistare. Ma a lui il re dovette comminare la pena capitale, il 13 ottobre 1815, in forza di quel codice penale dallo stesso Murat precedentemente promulgato, contro chi si fosse macchiato di atti rivoluzionari. Nacque così il detto popolare: «Giacchino facette ’a legge e Giacchino murette acciso», a significare che chi è causa del suo male pianga se stesso. Un monito ben noto pure a Nisco e a molti suoi contemporanei e compagni di sventura. Anch’io l’ho ascoltato più volte nella mia infanzia. Ma solo dopo molti anni ho potuto capire chi fosse realmente quel misterioso e ambiguo «Giacchino».

    Intanto nel regno, sebbene fosse stata sciolta la setta reazionaria dei Calderari, che, a difesa di una piena restaurazione, raccoglieva baroni dell’aristocrazia meridionale ed anche elementi provenienti dalle bande brigantesche borboniche, negli ambienti liberali i nostalgici dell’età napoleonica, i costituzionalisti e i rivoluzionari non cessavano di riorganizzarsi in società segrete con ascendenze massoniche e diversi gradi di iniziazione. Al riguardo, l’8 agosto 1816, cinquanta giorni prima che Nisco nascesse, fu emanata una legge, che – regolarmente pubblicata anche sul Giornale dell’Intendenza di Principato Ulteriore – si rivelò quasi un presagio o un saggio avvertimento, che un giorno lo avrebbe personalmente riguardato e privato, per alcuni anni, della libertà, perché sarà arrestato e «condannato come settario».

    Il re Ferdinando, infatti, su proposta del ministro di grazia e giustizia, il marchese Donato Tommasi, e udito il Consiglio degli altri ministri, vietava «le associazioni segrete che costituiscono qualsivoglia specie di setta, qualunque sia la loro denominazione, l’oggetto ed il numero de’ loro componenti»; e le dichiarava «manifesti attentati alla legge». Puniva i trasgressori con «la pena del bando da’ nostri reali dominj da cinque a venti anni»; e per chi concedeva la propria abitazione per le riunioni, da tre a dieci anni, più una multa da dieci a cinquecento ducati. Anche chi conservava «emblemi, carte, libri o altri distintivi della setta» sarebbe stato punito con la prigione da uno a cinque anni.

    Queste rigide norme erano spiegate e motivate dal fatto che «gli sforzi che tali associazioni fanno per circondare di mistero l’oggetto delle loro instituzioni, i simboli religiosi che talune di esse fan servire a materie profane, spargono giustamente la pubblica diffidenza sulle loro operazioni». Sebbene all’inizio è possibile che si propongano finalità innocue, col passar del tempo e «secondo l’impulso delle circostanze, possono facilmente degenerare in unioni criminose». Infine, la loro reciproca opposizione sui princìpi che le regolano, «creano lo spirito di fazione, di turbamento e di discordia civile». Tuttavia, nonostante queste proibizioni, la Carboneria, diffusa particolarmente nel Sud, con le sue «vendite» o sezioni – nel 1820 solo in Irpinia 192 –, e con ramificazioni in altre parti d’Italia, continuava clandestinamente la sua attività. Per cui, cinque anni dopo, anche Pio VII, il 13 settembre 1821, la condannò, in quanto «imitazione, se non emanazione», della Società dei Liberi Muratori o Massoni.

    Oggi, senza voler completamente accogliere il poco generoso giudizio di George Bernanos, che, ne I grandi cimiteri sotto la luna (1938), opinava essere l’unificazione d’Italia «la creazione più pura della massoneria universale del diciannovesimo secolo», va quantomeno tenuto presente quel che, il 16 maggio 1925, alla Camera dei deputati, pure Antonio Gramsci faceva notare: «La massoneria in Italia ha rappresentato l’ideologia e l’organizzazione reale della classe borghese capitalistica». E ad essa appartennero sia uomini di Destra che di Sinistra: da Cavour, che fu Gran Maestro, a Garibaldi, Depretis, Crispi, Bixio, De Sanctis, Zanardelli e molti altri.

    In campo culturale e artistico, nel Regno borbonico, qui basti ricordare, ed emblematicamente considerare, come proprio nell’anno in cui nacque Nisco, la notte del 16 gennaio un incendio distrusse il San Carlo di Napoli, che aveva come direttore musicale Gioacchino Rossini. Era il più antico e uno dei più bei teatri lirici al mondo, voluto ottant’anni prima da Carlo III, che aveva regnato dal 1735 al 1759. Ricostruito ed inaugurato meno di un anno dopo, sarà il luogo dove – come vedremo –, il 12 gennaio 1848, alcuni estrosi liberali inscenarono una manifestazione patriottica, servendosi proprio del palchetto riservato a Nisco e consorte. In quell’anno e nel precedente, c’erano in cartellone due opere di Giuseppe Verdi: l’ Attila, con la cavatina del prologo Santo di patria indefinito amor; e il Nabucco, col celebre coro del Va’, pensiero. Ancora nel 1816, poco distante da quel teatro, prospiciente il Palazzo reale, Ferdinando I eresse la basilica di S. Francesco di Paola, dalla cupola solo inferiore a quelle di S. Pietro in Roma e di S. Maria del Fiore a Firenze. Là, in quel fatidico 1848, suo nipote Ferdinando II giurò solennemente la promessa Costituzione. E non molto lontano, al rione Pizzofalcone, nei primi anni del suo lungo soggiorno napoletano, dimorava lo studente Niccola Nisco.

    2. Dieci secoli di storia e gli uomini con i baffi

    La «casa palazziata» della sua famiglia di origine, era ubicata nella provincia di Principato Ulteriore – che dal 1806, dopo Montefusco, ebbe come capoluogo Avellino –, e afferiva al comune di San Giorgio la Montagna, che in una data tra quell’anno e il 1809 comprese anche i limitrofi comuni di Ginestra e di Sant’Agnese, dove abitavano i Nisco, o de Nisco, come spesso si trova registrato quel cognome, fino a Ottocento inoltrato. Posta difronte alla chiesa del villaggio, era a ridosso della strada mulattiera che portava in Puglia, e a pochi passi dalle «case proprie over palazzo» del barone Sellaroli Ventimiglia da un lato, e l’attuale vicolo Freddo dall’altro.

    Sui primordi del piccolo comune di Sant’Agnese, allora con qualche centinaio di abitanti, poi divenuto un quartiere di San Giorgio – oggi con circa 2.000 anime su 10.000 –, non si hanno molte notizie né altrettanto sicure. Per San Giorgio, risale al X secolo – 991/92 – la più antica notizia storica, o meglio quella dell’omonima chiesa – divenuta cappella del cimitero dopo il sisma del 1732 – con le sue pertinenze, attorno a cui il lento aggiungersi di casa a casa, digradanti al piano, formò un borgo di «sette piccoli casali». Per Sant’Agnese, invece, la prima certa notizia è di duecento anni dopo. Quando, cioè, il suo nome viene indicato nell’atto di donazione di beni siti in Montefusco, fatta da Maria Bove, vedova di Riccardo Sarletto, al monastero di Montevergine nel 1195.

    A proposito delle origini del paese natale di Niccola Nisco, e di altri piccoli centri del circondario di San Giorgio la Montagna, egli vi accenna in uno dei primi scritti: Escursioni nel Principato Ulteriore dal Cubante ad Ariano (1840), non senza aver premesso un romantico incipit. «Nel passato mese di ottobre – tornandovi da Napoli –, come era solito, [io] godeva un viver beato nella mia villa di Principato Ulteriore, ove nelle ore matutine d’ordinario rimembrava una cara idea, che nel sonno mi scuoteva il cuore… e a Dio sorgea / come un inno di lode il mio sospiro». Poi, «drizzato un bacio ed un saluto a que’ piani del Cubante, belli pel vago riso di natura», egli suggestivamente spiegava che i paesi dintorno, «dal loro nome [preso] da’ santi, si conosce essere nati nell’epoca religiosa in cui i popoli oppressi dagli uomini divotamente confidavano in Dio». Ma, altrettanto erroneamente, aggiungeva: «Molti castelli furonvi costruiti da’ Baroni, e quello di Sangiorgio, del quale non evvi alcuno avanzo, è celebrato per la vigorosa resistenza opposta a Ruggiero [II] di Sicilia [1137], per opera principalmente di Rainulfo Conte di Avellino che, con Ruberto Principe di Capua e col doge di Napoli, contrastavane il dominio, quando quel fortunato Normanno, dopo la sconfitta di Tangredi di Conversano e di Grimualdo Principe di Bari, dalle Puglie correva alla conquista di Napoli».

    In realtà, assodato che qui «castello» non vuol dire maniero o fortezza, la notizia è infondata, perché frutto della confusione tra San Giorgio (la Molara) e San Giorgio (la Montagna), fatta non solo dal giovane Nisco, ma anche da qualche altro autore prima e dopo di lui; nonostante io l’abbia rilevato ormai quarant’anni fa, e nel 1998 proposi – e venne accettato – che il ricordo di quella certa e più antica data fosse significato nella titolazione dell’attuale Parco del Millenario.

    Analogamente ai «casali» di San Giorgio e di Ginestra – questo più piccolo ma forse più antico –, anche Sant’Agnese, infeudato alla baronia di Montefusco, ne seguì per lo più la storia e le vicende. Quindi, sul finire del XVI secolo, il 21 agosto 1589, quando era abitato da 14 famiglie, che, giunte a 30 nel 1630, si dimezzarono dopo la peste del 1656, la sua giurisdizione, con quella del capoluogo e degli altri casali intorno, fu venduta per 45.000 ducati dal

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1