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I Ragazzi della Via Pal
I Ragazzi della Via Pal
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I Ragazzi della Via Pal

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L'opera del Molnàr come novelliere e roman­ziere è vasta e varia, ma particolarmente la sua fama è raccomandata al romanzo, I ragazzi della Via Pàl, che ha avuto grande risonanza nella lette­ratura mondiale e numerose traduzioni in varie lingue, in particolare in'Europa. L’autore è abile nel tracciare il carattere di ogni ragazzo protagonista della vicenda e a chi legge pare di conoscerli da sempre.
Il racconto è condotto con grande maestria, con un intreccio di elementi divertenti e drammatici, avventurosi e sentimentali che lo rende a un tem­po spassoso e appassionante.
Budapest, primavera del 1889; tra le vie di questa città, e in particolare
nella via Pàl, va in scena la “guerra” tra due bande di ragazzini. Entrambe vogliono avere il predominio su un terreno libero per poterci giocare.
Una rivalità che si basa su regole e leggi che i ragazzi si sono costruititi, regole lontane dal mondo degli adulti, regole dove coraggio e lealtà sono alla base di tutto. Una storia dal sapore dolce-amaro, dove il gioco e le sue conseguenze sono una scuola di vita.
Una storia che sa commuovere, che ci porta a combattere a fianco di questi ragazzi che sono pronti a dare la vita per quello che considerano il loro tesoro più prezioso.
L’autore è abile nel tracciare il carattere di ogni ragazzo protagonista della vicenda e a chi legge pare di conoscerli da sempre. Ogni ragazzino ha i suoi pregi e i suoi difetti, ma tutti cercano di conquistare quello che per loro è il simbolo dei loro sogni. Personaggio memorabile è quello di Nemecsek, il ragazzino più piccolo di tutti che però crede in quello che fa più di tutti: la sua commovente storia, che insegnerà ai ragazzini ad andare oltre la rivalità e che a volte un atto eroico può essere vano
LanguageItaliano
Release dateApr 8, 2019
ISBN9788899481308

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    I Ragazzi della Via Pal - Ferenc Molnar

    Ferenc Molnar

    i Ragazzi della Via Pàl

    Table Of Contents

                 Capitolo primo 3

               Capitolo secondo 38

                Capitolo terzo 72

                Capitolo quarto 116

                Capitolo quinto 147

                Capitolo sesto 189

    BORELLI EDITORE

    Copyright © 2019 Gian Franco Borelli

    Capitolo primo

    Mancava un quarto alle ore tredici, finalmente, dopo lunghi tentativi inconcludenti, la timorosa attesa ebbe la sua ricompensa. Sulla cattedra dell'aula di scienze naturali, nella fiamma sbiadita della lampada di Bunsen, comparve una deliziosa fosforescenza verde smeraldo, a significare che quella composizione coloriva davvero di verde la fiamma, come il professore aveva voluto dimostrare. Proprio in quel secondo trionfale, risuonò nel cortile della casa vicina un organino, e con questo sparì a un tratto la serietà. Le finestre erano aperte al caldo sole di marzo e, sulle ali del fresco venticello primaverile, la musica volò nell'aula. Era un'allegra canzone ungherese che, entrando per la finestra a tempo di marcia, mise in tutta la classe una gran voglia di ridere. Alcuni anzi sorrisero davvero. Nella lampada di Bunsen la fosforescenza verde si librava allegramente, e su questa si fissava ancora lo sguardo di qualche ragazzo del primo banco. Ma gli altri guardavano fuori dalla finestra, dove si potevano vedere i tetti delle casette vicine e, in lontananza, nel dorato sole del mezzogiorno, il campanile sul cui orologio la lancetta progrediva consolantamente verso le tredici.

    Così, mentre stavano guardando fuori, insieme con la musica entravano nell'aula anche altre voci profane. I cocchieri dell'omnibus a cavalli strombettavano; in un cortile una servetta cantava una canzone diversa da quella che veniva suonata dall'organino.

    La classe cominciò a dar segni d'agitazione.

    Alcuni si misero a rovistare fra i loro libri, quelli più ordinati asciugarono le penne; Boka chiuse il piccolo calamaio tascabile coperto di cuoio rosso e costruito in maniera tanto perfetta che l'inchiostro non si versava mai, altro che quando veniva messo in tasca; Csele raccolse le pagine che costituivano per lui i libri, perché Csele era un damerino e non si caricava d'un'intera biblioteca portandola sotto il braccio, come gli altri; soleva portarci invece soltanto le pagine necessarie, e anche queste divise con cura in tutte le tasche interne ed esterne; Csònakos, nell'ultimo banco, fece uno sbadiglio enorme, come quello di un ippopotamo annoiato; Weisz si rivoltò la tasca e ne seminò fuori tutte le briciole rimaste del panino che aveva mangiato sbocconcellandolo dalle dieci all'una; Gerèb cominciò a stropicciare i piedi sotto banco come uno che sta per alzarsi; mentre Barabàs, senza alcun pudore, stendeva sulle ginocchia la tela cerata, mettendoci i libri secondo la grandezza e stringendola poi con una cinghia così violentemente, che perfino il banco scricchiolò ed egli stesso ne arrossì; insomma, tutti quanti facevano i loro preparativi per andarsene. Solamente il professore non si accorgeva del fatto che tra cinque minuti tutto sarebbe finito. Girò il suo sguardo mite sulle molte teste infantili e disse: Che c'è?

    Prevalse il silenzio, un gran quiete, una calma mortale. Barabàs fu costretto a lasciar andare la cinghia, Gerèb si affrettò a ritirare il piede, Weisz rimise a posto la tasca, Csònakos tappò la bocca con la mano e terminò lo sbadiglio dietro alla Palma, Csele lasciò in pace le pagine, Boka si infilò velocemente in tasca il calamaio rosso, dal quale cominciò subito a filtrare il bell'inchiostro turchino.

          Che c'è? ridisse il professore, nel frattempo tutti rimanevano fermi immobili ai loro posti. Lui scrutò in direzione della finestra, attraverso la quale continuò a entrare allegramente lo stridio dell'organino, come se volesse far capire a tutti che egli non era sottomesso alla disciplina professorale. Eppure il signor professore gettò uno sguardo severo anche in direzione dell'organino dicendo: Csengey, chiudi la finestra.

    Csengey, il piccolo Csengey il primo del primo banco si alzò e, col suo musino serio, andò a chiudere la finestra.

    In quello stesso tempo, Csònakos si piegò fuori, sull'orlo della fila dei banchi, e suggerì ad un ragazzino biondo: Attento, Nemecsek!

    Nemecsek scrutò indietro con la coda dell'occhio, poi calò lo sguardo in terra. Una piccola Pallina di carta ruzzolò fino a lui. La sollevò e spiegò il foglio. Su di un lato vi era scritto: Passalo a Boka.

    Nemecsek sapeva che questo era soltanto l'indirizzo e che la lettera, il vero contenuto, stava sull'altro lato del foglio. Ma egli era un uomo di carattere e non volle leggere la lettera di un altro. Quindi rifece la pallottolina, attese il momento opportuno e adesso fu lui a piegarsi in fuori tra le due file e a raccomandare: Attento, Boka!

    Boka guardò sul pavimento, il solito mezzo di comunicazione per i loro affari, e raccolse la pallottolina di carta. Sull'altro lato, cioè su quello che il biondo Nemecsek non aveva letto per motivi di discrezione, era scritto:

    Pomeriggio alle tre, assemblea generale. Elezione del presidente sul campo. Da render pubblico.

    Boka cacciò in tasca il pezzetto di carta e dette un'ultima stretta ai suoi libri, già impacchettati. Era l'una. Il campanello elettrico cominciò a strepitare. Ormai anche il professore sapeva che la lezione era finita. Spense la lampada di Bunsen, assegnò il compito e tornò nel gabinetto, fra le collezioni da dove, ogni volta che la porta si apriva, occhieggiavano fuori, con i loro stupidi occhi di vetro, animali imbottiti, uccelli impagliati, e dove, in un angolo, stava in piedi silenzioso, ma con dignità, lo spauracchio degli spauracchi, un ingiallito scheletro.

    I ragazzi furono fuori dall'aula in un attimo. Nel grande scalone a colonne avvennero corse selvagge, che si rallentarono fino a diventare semplice fretta, soltanto quando alla chiassosa folla degli scolari si mescolò l'alta figura di un professore. Allora, per un momento si fece silenzio; ma non appena sparito il professore dietro alla curva, la corsa ricominciò.

    Attraverso il portone si rovesciarono addirittura frotte di ragazzi. Si divisero metà a destra, metà a sinistra. Ora tutti quanti camminavano lemme lemme sulla via brillante di sole, stanchi, affamati. Come piccoli prigionieri appena liberati, barcollarono nell'abbondanza d'aria e di luce, si smarrirono in quella città agitata, chiassosa, movimentata che, per loro, non era altro che una caotica mescolanza di carrozze, omnibus a cavalli, vie e negozi, fra i quali dovevano trovare la strada di casa.

    Csele si mise a contrattare di nascosto un pezzo di torrone sotto un portone. L'uomo del torrone aveva alzato impudentemente i prezzi. Il prezzo del torrone era allora di un soldo. Siffatto va interpretato così: l'uomo del torrone prende una piccola scure, e quanto con essa può              spezzare con un unico colpo della grande massa bianca ornata di nocciole, quello costa un soldo. Tutto, sotto quel portone, costava un soldo, essendo questa l'unità di prezzo: costavano un soldo le tre susine infilate in uno spiedino di legno, tre mezze prunelle, tre mezze noci, tutti intinti in zucchero liquido; un soldo il gran pezzo di liquirizia e altrettanto le caramelle d'orzo. Anzi, un soldo costava perfino la così detta biada degli studenti che era divisa in cartoccetti e la consideravano una delle mescolanze più gustose. Poi le noccioline, confettini, uva secca, piccoli pezzi di caramella, mandorle, sporcizia di strada, frantumi di carrube e mosche. Per un soldo, la biada degli studenti vi offriva moltissimi prodotti dell'industria e del mondo vegetale e animale.

    Csele negoziò, perchè l'uomo del torrone aveva aumentato i prezzi. Gli intenditori delle leggi del commercio sanno bene che i prezzi aumentano anche quando gli affari avvengono in mezzo a pericoli. Così, ad esempio, sono costose quelle specie di tè dell'Asia, che le carovane trasportano attraverso regioni frequentate da briganti. Questo pericolo lo dobbiamo pagare noi, consumatori dell'Europa occidentale. L'uomo del torrone possedeva indubbiamente un certo spirito commerciale, perché conosceva il pericolo: si voleva espellerlo dalle vicinanze della scuola. Sapeva bene, il povero diavolo, che se volevano, avrebbero potuto proibirgli il suo commercio, giacché, nonostante tutti i sorrisi che egli faceva ai professori quando passavano davanti a lui, questi lo consideravano un nemico della gioventù.

              I ragazzi sperperano tutti i loro soldi da quell'italiano dicevano, e l'italiano sentiva che i suoi affari non avrebbero avuto una vita lunga accanto al ginnasio. Alzò dunque i prezzi. Se doveva andarsene, voleva almeno farci gli ultimi buoni guadagni. Lo disse per primo a Csele:

               Prima d'ora tutto costava un soldo, d'ora in poi, tutto sale a due soldi.

    Mentre frignava a stento queste parole in ungherese, agitava                             selvaggiamente in aria la piccola scure. Gerèb sussurrò a Csele:

           "Butta il tuo cappello fra le caramelle!

    Csele fu galvanizzato da questa idea. Oh, che delizia sarebbe stato! Come sarebbero volati i dolci a destra e a sinistra, e ragazzi si sarebbero divertiti!

    Gerèb gli sussurrò diabolicamente nell'orecchio le parole della       seduzione: Buttagli il cappello. Quello è un usuraio! Csele si levò il cappello.

         Questo bel cappello? disse.

    Gerèb aveva sbagliato nel fare a una persona disadatta la bella proposta, giacchè Csele era un damerino che portava a scuola soltanto alcune pagine dei libri.

    Ti dispiace? domandò.

    Sì mi dispiace rispose Csele.  Tuttavia non credere che io sia un vigliacco. Non sono vigliacco, mi dispiace per il cappello. Posso anche provartelo, perché, se vuoi, il tuo cappello lo butto molto volentieri.

    Queste parole non avrebbe dovuto dirle a Gerèb, il quale se ne offese, replicando:

    "Se si tratta del mio cappello, so buttarlo da me. Addosso all'usuraio!                      Se hai paura, va via. Poi con un gesto che rivelò il suo animo bellicoso, si tolse il cappello per assestare un colpo sul tavolo al cavalletto carico di caramelle.

    Ma qualcuno gli fermò la mano di dietro, mentre una voce di una serietà quasi virile, gli domandava:

    Che fai?

         Gerèb si volse. Dietro a lui c'era Boka.  Cosa fai? gli chiese di nuovo.

    Lo osservò riflessivo, con mitezza. Gerèb emise un brontolio, come il leone quando fissa negli occhi il domatore; poi si rabbonì, rimise in testa il cappello e si strinse nelle spalle. Boka disse piano:

    Allontanati da quest'uomo. Mi piace la gente coraggiosa, ma qui non è il caso. Vieni.

           Gli stese verso di lui una mano tutta macchiata d'inchiostro. Il calamaio aveva fatto gocciolare giovialmente nella sua tasca il sugo blu, senza che egli ne avesse alcun sospetto. Ma non se ne dette pena: strofinò la mano al muro con la conseguenza che il muro si sporcò d'inchiostro, invece la mano di Boka non si pulì affatto. Boka allora prese Gerèb al braccio e insieme si avviarono lasciando indietro quel bel ragazzino di Csele. Lo udirono che diceva all'italiano, con la triste rassegnazione del rivoluzionario sconfitto:

         "Quindi se da ora in poi tutto costa due soldi, mi dia due soldi di torrone. Mise mano al suo elegante borsellino verde. L'italiano sorrise e, forse, fantasticò che cosa sarebbe accaduto se da domani in poi tutto fosse costato tre soldi. Ma questo non era che un sogno. Come quando si sogna che ogni fiorino ne vale cento. Assestò un gran colpo col coltello sul torrone e mise in un pezzettino di carta il pezzo che ne aveva staccato.

          Csele lo guardò con amarezza: Ma questo è più piccolo di prima!

        L'italiano, ormai, reso impertinente per il successo commerciale, disse ghignando: più è caro, pertanto deve essere più piccolo.

    Nel frattempo si volse verso un nuovo cliente che, istruito da questo caso, teneva già in mano i due soldi. Divideva la bianca massa dolce usando la piccola scure con movimenti buffi, che lo facevano somigliare a un favoloso gigantesco boia che va abbattendo le teste di nocciuola di minuscoli uomini. S'inferocì addirittura sul torrone.

        Beh disse Csele al nuovo cliente non comprare da lui, è un usuraio.

    Si mise in bocca tutto il torrone, insieme alla carta che vi era rimasta appiccicata e che non si riusciva a staccare, ma solo leccare o succhiare.

        Dove andate aspettatemi! gridò rincorrendo Boka e Gerèb.

    Li raggiunse sull’ angolo e di là voltarono nella via Pipa, verso il viale Soroksàri. Andavano a braccetto l'uno all'altro; nel mezzo stava Boka e spiegava qualcosa sottovoce, serio, come era sua abitudine. Aveva quattordici anni, e non aveva nel viso altro che poche tracce di virilità. Ma quando apriva bocca, guadagnava qualche anno. Aveva la voce profonda, seria e calma, e quello che diceva somigliava alla voce: diceva raramente delle sciocchezze e non dimostrava nessuna propensione per le consuete monellerie dei ragazzi. In piccole zuffe insignificanti non usava metter bocca; anzi, se era chiamato a far da giudice, cercava

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