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Oltre il tuo eco
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Oltre il tuo eco

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“Oltre il tuo Eco”, dove Eco è usato provocatoriamente al maschile anche per l’assonanza con l’Ego immenso e ugualmente vuoto del protagonista, è un viaggio che si snoda attraverso i ricordi, lungo i binari sterili e allo stesso tempo ricchi della ferrovia, attraversando paesaggi e passaggi dell’anima di Giulia, la protagonista. Giovane insegnante, ambiziosa ed estroversa, che lungo i meandri stretti e tortuosi del suo amore per Alessandro vede mutare il proprio Io, fino a sentirne intaccate le radici più profonde. Una quasi inconsapevole trasformazione, lenta e repentina, che la rende cieca a tutto ciò che la circonda. Giulia, violentata nell’anima, finisce con l’incentrare l’intera esistenza sul legame con Petit chou, Alessandro. Uomo curato, dalla bellezza assente, ma dalle abili doti di seduttore eccentrico. Silente si insinua nell’anima della propria preda, nutrendosi della sua stessa linfa vitale, fino a prosciugarla completamente. Un uomo in grado di ottenere senza mai dover chiedere, che usa con abile destrezza tattiche psicologiche in grado di confondere, destabilizzare e persino assuefare il proprio interlocutore. Un viaggio interiore attraverso le sfaccettature della psiche torbida di Alessandro, strisciando lungo il lato oscuro dell’amore.
LanguageItaliano
PublisherLUPIEDITORE
Release dateMar 26, 2019
ISBN9788832553864
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    Oltre il tuo eco - ANTONIETTA STASI

    © 2019 Lupi Editore

    Via Roma 12, 67039 Sulmona (AQ) 

    Tutti i diritti riservati 

    www.yndy.it

    Stampato presso Universal Book srl - Rende (CS)

    per conto della casa editrice Lupi Editore

    OLTRE IL TUO ECO

    di

    Antonietta Stasi

    Alla pazienza di chi, nel silenzio, sa amare.

    CAPITOLO I

    Torna indietro quando ti accorgi che le cose perse valgono più di quelle desiderate.

    Orazio

    Forse è vero. Un giorno ti svegli e non lo pensi più.

    Scorre lenta la ferrovia, mentre immagini discontinue richiamano voci e pensieri nella mia mente. I miei occhi guardano l’alternarsi di campagne, colli, mare… e negli occhi rimane quella donna col fazzoletto legato sul capo e il viso segnato dal tempo e dal sole. China sulla terra bruna a cercare, tra le foglie verde scuro dei carciofi, il frutto proibito. Con una cadenza regolare, quasi fosse automatismo puro, lascia cadere nel grande cesto, che si trascina vigorosamente accanto, il fiore bruno. Nel terreno un solco, segno certo della sua fatica iniziata all’alba e destinata a finire col levarsi alto del sole.

    Sono ormai lungo le pendici scarne e brulle di monti senza un nome, ma quella donna continua ad arricchire la sua cesta di carciofi. Ne sento il profumo acre e fresco, l’umido siero che imperla il gambo appena reciso…

    L’aria si fa sempre più calda in questo vagone, induce a un sonno malato, i pensieri si confondono, ma la vista del mare che si accartoccia sugli scogli mi dà un senso di freschezza.

    Non avevano il colore del mare i tuoi occhi la prima volta che li incontrai, ma un riflesso di luci colorate, un bagliore nella notte di volti senza tempo, uno squarcio verso il mare.

    Era freddo, benché fosse settembre e l’aria dell’estate non ci aveva ancora abbandonati. La gente mormorava intorno a me, con quell’accento, che, nonostante gli anni passati in quella città, mi suonava ancora buffo e talvolta incomprensibile, se parlato troppo di fretta. Un continuo viavai di sorrisi, mani, sguardi, mentre sedevo in un religioso silenzio sulle poltroncine azzurre di finta pelle. D’improvviso uno sguardo si posò su di me come una carezza, calda, lieve e sfiorò i miei occhi per poi allontanarsi muto.

    Non avevano il colore del mare i tuoi occhi la prima volta che hanno incontrato i miei, ma un riflesso di luci colorate, un bagliore nella notte di volti senza tempo, uno squarcio verso il mare.

    "Balli?" chiedeva con insistenza una voce sconosciuta, ma i miei pensieri facevano troppo rumore per potermene accorgere subito.

    "Sì, ma… io non sono così brava!" feci appena in tempo a dire che già quelle mani stringevano le mie in un vortice di suoni e profumo e altre mani.

    Non c’era luce che illuminasse quanto quello sguardo, mentre sentivo il calore delle sue dita posarsi dove altre mani avevano lasciato il segno. Quel giorno non potevo immaginare che, dopo non molto tempo, quel profumo mi sarebbe diventato familiare.

    Un ballo lento nella mia mente, in controtempo. I miei passi seguivano i suoi, le mie dita sfioravano leggere le sue spalle, quasi a non voler violare il tempio sacro della sua bellezza. I miei occhi timidamente si accostavano alla sua nuca, odorosa, bianca, appena screziata da piccole macchie scure. E non c’erano voci, volti, colori intorno a noi, solo piccoli fili di luce che separavano il mio corpo dal suo… invisibili, ma presenti.

    Un ballo eterno. Danzavo ancora mentre mi riaccompagnava a bordo pista, danzavo nella mia mente, danzavo in quella mano posata sul mio fianco, quasi a scortare i miei passi. Danzavo. Ancora.

    Vidi quelle spalle allontanarsi tra la folla. Vidi quegli occhi sparire oltre altri occhi. Sentii altre mani sfiorare le mie, altri odori accarezzare il mio olfatto, ma nessuno ricordarmi il suo.

    "Scusi, scusi, dovrei passare." una voce roca mi distoglie dai dolci ricordi. Dal mio petit chou.

    L’uomo accanto a me, fino a un attimo prima riverso sul sedile, stordito dal caldo, dall’aria viziata di questo vagone, vuole alzarsi e mi chiede di spostarmi. Sorrido per lasciar intendere di non avermi disturbata, ma in realtà sono molto infastidita. Infastidita dalla violenza con cui mi ha strappata ai miei ricordi, dall’irruenza con cui la sua voce è entrata nei miei pensieri fino a lasciare che si dissolvessero nell’aria come una bolla di sapone, volata ormai troppo in alto per riflettere la luce.

    Sono in piedi e percepisco gli scossoni del treno. Un leggero ondeggiare. Mi reggo alla spalliera felpata del sedile e mi lascio cullare da quello scorrere. L’uomo del finestrino ha difficoltà a venir fuori dal suo posto. Nonostante il mio piccolo tavolino sia chiuso, non riesce a passare. Sembra talmente ingombrante da ostruire a se stesso il transito. Le sue gambe rimangono intrappolate tra la ventiquattrore, che custodisce sotto il sedile, e il tavolino chiuso. A non facilitargli il compito si mette anche il bracciolo, sicuro e confortante separè tra di noi. Arranca, quasi fosse all’ultimo tratto di una maratona. È innervosito. Mi guarda. Sorride imbarazzato. Dagli occhi trasuda vergogna e una valanga infinita di scuse per il farmi aspettare così tanto in piedi. Gli sorrido, sperando di alleviargli la pena e, siccome non mi sembra più avere la lucidità di pensare, mi permetto di sollevare il bracciolo, cercando di facilitargli quella che, ormai, sembra essere diventata un’ardua impresa. Mi ringrazia, divincolandosi finalmente dal labirinto del posto vicino al finestrino.

    Ho come la sensazione che nel suo prossimo viaggio, prima di prenotare, si accerterà che gli venga assegnato rigorosamente un posto corridoio.

    Ancora sovrappensiero guadagno la mia postazione, felice di poter tornare tra i miei ricordi…

    "Poverino! commenta la bionda davanti a me, lo vede che vuol dire avere una mole non indifferente?! Poi non ci si riesce nemmeno a muovere da un sedile. Non capisco perché certe persone non abbiano abbastanza amore per se stessi dal guardarsi bene dal diventare così… così… stenta a completare la frase, come se stesse pensando al termine giusto da infilare tra quel  così e quel vuoto lasciato in chi la ascolta. Ma, tra i mille vocaboli che avrebbe potuto scegliere, in quel momento il suo cervello le suggerisce sicuramente quello più infelice: Beh, insomma, così ciccioni ecco!"

    Non ho voglia di discutere, né di spianarle la strada lasciando che attacchi bottone per l’intero viaggio. D’altronde non so nemmeno quale sia la sua stazione di fermata e darle spago significherebbe assumersi il rischio di portarla con me per quasi novecento chilometri! No, non posso assolutamente permettermelo! Amo viaggiare in solitudine per poter lasciare libera la mia mente, per non dover seguire convenzioni e cortesie e far sì che tutti i pensieri in confusione vengano fuori all’improvviso. Amo quel collage di ricordi, che si sussegue nella mia mente, quando basta un piccolo particolare a suscitare un nuovo ricordo. Un colore, che mi porta verso un’immagine sopita nel tempo. Un suono, che lega l’ultimo ricordo a un altro e così via in questa lunga catena di vita vissuta.

    E poi, cosa dovrei dirle? "Sa, signora, a volte non basta volersi bene per non essere <>! Potrebbe anche darsi che l’uomo del finestrino abbia un serio problema di salute! Ma cosa ne può sapere lei, così fermamente convinta delle sue affermazioni, così banalmente arrogante." Ma non ho voglia di chiacchierare, tantomeno con gente così artefatta.

    Lascio cadere quella che per me sarebbe stata una provocazione e liquido la mia dirimpettaia con una smorfia di varia e vaga interpretazione. La signora, stretta nel suo tailleur rosso rubino, non gradisce la mia silenziosa risposta e di tutto punto si volta verso il suo compagno di posto, sperando di trovare in lui un più degno interlocutore.

    "Non crede lei? Che c’entra, poverino, per carità, però… la gente dovrebbe curarsi un po’ di più!"

    È come se solo in questo momento io riuscissi a sentire il nauseabondo profumo che avvolge la signora rosso rubino come la mia fantasia ha deciso di etichettarla. È dolciastro, penetrante, fastidioso come la sua voce stridula, che si perde in una valanga di parole per me senza senso. Inonda burrascosa il suo compagno di viaggio, il quale annuisce, sorride, mentre lei gesticola incalzando ragionamenti sempre più assurdi, perdendosi in falsi moralismi tinti di bonismo alto-borghese. È un monologo più che un dialogo il suo. Ogni volta che l’uomo cerca di intervenire, di esprimere la propria opinione, è come se un’orda di cavalli inferociti investisse le sue labbra, impedendo ai suoi pensieri di liberarsi nell’aria e giungere alle orecchie della signora loquace. Fin troppo loquace! Decido di ascoltare un po’ di musica per coprire il suono della sua voce. Mi piacerebbe vedere il suo volto se solo, in questo momento, le sopraggiungesse alle spalle il tanto chiacchierato ‘uomo del finestrino’.

    La musica si diffonde nelle mie orecchie. Ora fa freddo. È incredibile come in questi treni non sia mai possibile avere un clima temperato. Si passa dal caldo africano al gelo polare. Mi rannicchio sul sedile, avvolgendomi nella mia lunga e larga sciarpa viola, compagna di tanti inverni tra i colli. E lo sguardo si riempie di neve. La vedo, lì, davanti a me. Danza nell’aria buia di una sera d’inverno, volteggia silenziosa nella quiete della città. Si posa leggera sul vialetto del mio palazzo, sugli alberi di magnolia, sulle aiuole di pansè e bocche di leone. Sulle auto parcheggiate lungo la strada, sui lampioni della luce. Brilla tra i fili di ragnatele che piovono giù per i bastoni delle ringhiere. Adoro stare a guardare la polvere bianca venir giù dal cielo. Quell’atmosfera magica che riesce a creare, surreale, fiabesca. La città si ferma, paralizzata. Vinta dalla forza naturale di un’apparentemente innocua fioccata di neve.

    Improvviso il bip-bip di un messaggio sul cellulare mi fa allontanare dalla finestra.

     "Guarda, su ogni singolo fiocco di neve ho posato un bacio. Per te..."

    Uno sfarfallio nello stomaco. Questo eri tu per me! Un insieme di farfalle festose e colorate nel mio stomaco.

    Leggere quel nome sul mio cellulare faceva sempre uno strano effetto. A volte rimanevo ferma lì, con lo schermo del telefonino illuminato, ferma minuti e minuti a leggere e rileggere il suo nome. Vedevo quella bustina gialla lampeggiare e a lettere grandi "PETIT CHOU. Sapevo bene che dietro quel nomignolo grazioso ti nascondevi tu, ma non potevo sapere mai cosa il tuo pensiero mi avesse voluto regalare con quel messaggio. Allora rimanevo lì, immobile. Fantasticando sul contenuto, mentre l’ansia cresceva mista a gioia e timore di non trovare scritto qualcosa di carino. Ma cos’era poi carino? Carino era qualsiasi cosa tu scrivessi, anche la più banale. Persino un sono in ritardo di qualche minuto, Mia. diventava qualcosa di carino". E così quel messaggio rimaneva lì, tra i più e più che portavano il tuo nome. Custoditi in una cartellina a parte. Dedicata solo a te. Solo a te, come quell’angolo di vita che ti avevo consacrato. Un angolo di trecentosessanta gradi.

    Mi sentivo così infantile nel fare ogni volta questo gioco, ma era come se volessi rallentare il tempo, come se volessi che quell’istante prima della scoperta fosse infinito, al solo scopo di rendere altrettanto infinita la sorpresa.

    All’inizio per me eri solo un gioco, una sfida che nemmeno io in fondo sapevo di percorrere. Tu, sicuro di te, con quelle spalle larghe, quella camminata fiera, sguardo alto, che solo raramente si posava tra la gente. Il petto rigonfio come di chi trattiene troppo a lungo un respiro, ma non era solo un respiro quello che trattenevi… e io non lo sapevo.

    Iniziai così, ritrovandomi a pensare a te nei noiosi giorni di una città che si riempiva di freddo.

    Era davvero gelido l’ottobre di quell’anno e io ero lì, con il mio computer che mi faceva compagnia tra le grida festose di bambini miei vicini e gli starnuti dell’anziana signora del piano di sotto. Lì, seduta sulla mia sedia di legno, con le gambe incrociate sotto di me e una tazza calda di camomilla zuccherata. Apparve così  la tua richiesta di amicizia. Per un attimo, un infinito attimo, sentii mancare il fiato, forse la camomilla era troppo calda o forse era l’eccitazione della preda abboccata all’amo.

    Decisi che avrei lasciato passare un giorno prima di accettarla. Volevo che tu ti chiedessi come mai, perché non cliccavo su quel piccolo tasto blu con la scritta accetta. Volevo rendere l’attesa più eccitante. Così continuai a guardare le foto dei miei amici, cliccando qualche mi piace a destra e a manca per poi perdermi in una lunga, lunghissima mail alla mia cara amica Luciana.

    Dovevo assolutamente raccontarle tutto.

    Era solo l’inizio.

    Ero felice.

    Ero sicura.

    Già, perché io ero una donna sicura.

    Un foglio word completamente bianco, nulla di più allettante per una come me. Buona musica di sottofondo e per il resto veniva tutto da sé… non avevo bisogno di pensare. Un fiume in piena si riversava su carta, talvolta straripando dagli argini, esagerando, enfatizzando, ma tanto Luciana questo lo sapeva di già.

    Scrissi fitto fitto, senza sosta, bevvi l’ultimo sorso di camomilla, ormai fredda, salvai il documento, lo allegai alla mail e cliccai su invia. Spensi il mio pc e, mentre la luce dello schermo diveniva sempre più fioca, io pensavo a quella richiesta di amicizia sospesa.

    Dormii poco o niente quella notte, ero così agitata, non facevo altro che fantasticare e, come dice Luciana, è la cosa che mi riesce meglio. Avrei potuto indossare le mie scarpette da ginnastica bianche e correre per tutta la città dormiente. L’adrenalina pompava nelle vene e la mia mente non riusciva a prendere fiato. Nemmeno un istante, un solo, piccolo, infinito istante di silenzio. Parole, immagini, parole, immagini e suoni… i suoni di quella musica che mi aveva fatto incontrare te.

    Eri solo una sfida, la mia sfida più crudele, ma io non lo sapevo.

    Mi addormentai che forse era l’alba, gli uccellini fuori cinguettavano festosi, mentre io chiudevo appena gli occhi.

    Il giorno dopo mi alzai ancora intontita dalla valanga di pensieri, con un cerchio alla testa. Spalancai il balcone e feci entrare l’aria frizzante della mattina. Avevo solo poche, pochissime, ore di riposo per un ghiro come me. Quelle gocce di rugiada sospese a mezz’aria mi facevano sentire viva e piano piano iniziai a riprendermi dal torpore del sonno. Trascinando i piedi arrivai fino alla cucina. Con fare meccanico presi la moka, il barattolino del caffè e accesi il fornello. Aspettai in piedi, senza sedermi, con il beccuccio della moka sollevato. Mi aveva sempre divertito molto vedere l’odoroso liquido scuro fuoriuscire da quel buchino, lentamente, prima di un nero intenso, poi sempre più chiaro… fino a borbottare, schizzando ovunque e spargendo per tutta la casa quella fragranza che sapeva di Brasile, di donne dalla pelle scura, di sole, mare e terre sconfinate. Spensi il gas, versai il caffè ancora fumante nella mia tazzina preferita, sempre la stessa, ogni mattina. Solo allora decisi di sedermi e onorare il rito del caffè. Amaro. Bollente.

    Quella mattina mi vestii un po’ a caso, senza cura nello scegliere gli indumenti. Ero svampita. Dovetti rientrare in casa più volte, cercando prima il cellulare, poi controllando di aver chiuso il gas e infine perché avevo dimenticato l’intera borsa. L’unica cosa che non dimenticavo era di accettare quella richiesta di amicizia il prima possibile.

    Eppure lui era solo una sfida per me.

    Tu eri solo la mia divertente sfida del 2009.

    Le ore a lavoro passarono davvero in fretta; i ragazzi sembravano più interessati del solito al Manzoni. Quello che realmente mi dispiaceva era che prima o poi avrei dovuto salutare anche loro. Non avrei potuto seguirli fino alla fine del ciclo di studi se avessi superato, come speravo, il concorso da dirigente scolastico.

    All’uscita da scuola mi trattenni poco a chiacchierare con i miei colleghi, diversamente dal solito. Avevo fretta di rincasare. Mi aspettava il pranzo da preparare, il registro da aggiornare, poi il corso di yoga e finalmente la sera. La tanto amata e solitaria sera, con il suo cielo scuro, le sue stelle appena visibili, il tintinnio delle stoviglie dei vicini intorno a me, la mia buona musica, una luce soffusa, le gambe incrociate e… e in un battibaleno ero nuovamente lì, con il mio pc davanti, fermo sul suo nome. Non so quanto tempo realmente passò prima che io decidessi di cliccare su accetta forse attimi o minuti o magari ore. Volevo immortalare quel momento. Renderlo indelebile. Da lì avrebbe avuto inizio ufficialmente la mia partita.

    Donna sicura, che aveva sempre avuto la possibilità di scegliere i propri amanti, ora sceglieva lui!

    Te!

    Era ormai martedì e sapevo che molto probabilmente l’avrei rivisto sabato a ballare.

    Non mi aspettavo nulla di particolare, in fondo era solo una banale, banalissima richiesta di amicizia. Nulla di più. Mezz’ora dopo una bustina rossa lampeggiava in alto a sinistra. I soliti inviti pubblicitari, pensai tra me e me.

    "Alessandro Bronte".

    "Cielo! esclamai ad alta voce. Mi aveva scritto! Ripetevo a me stessa Giulia, è solo un passatempo, nulla di più che un intrattenimento. Non penserai mica di innamorarti di uno così?! Lo sai bene, i tipi come lui hanno una donna in ogni porto e tu davvero ora non puoi certo lasciarti travolgere da una simile bufera, quindi riprenditi e pensa che è solo un passatempo." L’istante dopo ero immersa tra le sue parole, scritte con nessuna particolare cura, ma riposte una dietro l’altra in un ordine che sembrava… perfetto.

    Mi sono domandata spesso in tutti questi anni se mi fossi innamorata di lui o della mia idea che avevo semplicemente proiettato su di lui.

    "Ciao, Giulia, ho notato con piacere che hai accettato la mia richiesta di amicizia. Quasi non ci speravo! Come stai? Spero di rivederti, magari a ballare. Magari sabato! Ti prometto un tango insieme, se vieni ovviamente! Baci."

    Ingoiai quelle parole alla velocità della luce, tanto che dovetti rileggerle per capirne il senso.

    Alessandro Bronte. Mi piaceva. Suonava bene. Aveva l’eco del trionfo.

    Pensai che fosse il caso di non rispondere subito, non mi entusiasmava l’idea che potesse immaginarmi lì a trascorrere passivamente il mio tempo, curiosando tra un profilo e l’altro… compreso il suo. Così decisi di crogiolarmi fino al giorno dopo. Di prolungare il mio piacere per ancora qualche lunga e lenta e silenziosa ora.

    La giornata di mercoledì passò tra mille impegni e non riuscii a connettermi, tanto che furono due i giorni a separare la mia risposta dai suoi punti interrogativi.

    "Ciao, Alessandro, io sto bene, abbastanza impegnata tra lavoro e hobby. Quanto a sabato probabilmente non sarò in pista. A presto." Inviai, senza pensarci troppo, senza rileggere. Ma perché? Perché avevo scelto di mentire? Cos’altro avevo da fare sabato per non andare a ballare? Eppure quelle parole si componevano sulla tastiera da sole, senza indugio… va beh, mi dissi, ormai il danno era fatto. Spensi il pc e andai a dormire.

    Il sabato sera era alle porte e io avevo trascorso l’intera giornata del venerdì pensando a cosa indossare. Mi ero sentita nel pomeriggio con Luciana e avevamo fissato un aperitivo prima di andare a scatenarci in pista, dovevo pur aggiornarla sugli ultimi sviluppi. Il tempo era così volato che purtroppo non avevo avuto un solo istante libero per scriverle due righe già… due righe…

    La mattina del sabato ero sveglia all’alba con la maschera alla mela verde sul viso, quella ristrutturante ben distesa sui miei lunghi capelli rossicci e la cera a scaldare. La casa sembrava un salone di bellezza, denso di profumi dolciastri e corposi. Il tempo di un caffè veloce, spezzando il sacro rituale della tazzina sorseggiata comodamente seduta e con il balcone appena socchiuso per lasciare entrare i rumori della città. Mi preparavo per la grande serata e alla fine venerdì, non riuscendo a trovare l’abito giusto, ero uscita a comprarne uno nuovo di zecca. Elegantemente di seta nera con uno scollo profondo sulla schiena e delicatamente alla coreana sul davanti. Semplice, senza né stampe né lustrini. Stiletti neri, lucidi, perfettamente in linea con l’abito.

    Era la mia serata. Era il mio primo incontro o quello che io immaginavo tale.

    Fu subito sera, il mio trucco era perfetto, i capelli setosamente stirati. L’abito calzava a pennello. Mi sentivo bella. Una donna. Non uscivo mai di casa senza sentirmi a posto con me stessa, sufficientemente piacevole al mio sguardo e non disprezzabile a quello altrui.

    Feci l’ingresso in quella sala da ballo con la convinzione che solo una donna corteggiata può avere. Dall’altra parte della pista: LUI. Una folta chioma nero corvino, perfettamente disciplinata. I tratti regolari del suo volto a quella distanza perdevano di intensità, confondendosi, mescolandosi con la bellezza dell’insieme. Feci finta di non accorgermi di lui. Volevo essere salutata, cercata, guardata, annusata, sfiorata… Piccole attenzioni. Innocenti fantasie. La mia serata trascorse tra un ballo e l’altro prima che lui si avvicinasse a me con fare mesto. Furtivo. Pensavo che la sua sicurezza gli avrebbe dato lo slancio per una chiacchiera un po’ più lunga, per una danza più lenta e invece, invece no. Passò al mio fianco, appena carezzandomi il braccio. Si spense in un frettoloso saluto rubato agli occhi della folla. Lasciando me completamente attonita. Proseguii seguendo il ritmo di quelle note che si alternavano lente e passionali, ignorando il tutto.

    D’un tratto, dietro le sue spalle, una donna. Bionda, dai tratti marcati, piccoli occhi scuri e fianchi larghi, gli cingeva la vita quasi in segno di possesso. Capii. Non ebbi bisogno di altre parole. Né di vedere oltre.

    La mia testa ripeteva costantemente una sola frase "ami le storie complicate, sempre lo stesso genere! Ma non sei stanca?! Lascia perdere! Non fa davvero per te!" Eppure lui mi aveva cercata, guardata, aveva flirtato con me. Pensai che tutto questo, forse inconsciamente, aveva un suo senso. O ero io ad aver enfatizzato il tutto?

    Abbandonai i miei pensieri al loro destino e cercai di godermi gli ultimi minuti di quella serata. In fondo avevo il mio bell’abito nuovo e, benché gli stiletti iniziassero a farsi sentire, avevo ancora voglia di ballare. Di sentire la mia chioma fluente ondeggiare sulle spalle, solleticare la mia schiena.

    Era il tempo della musica.

    La ragazza bionda, di cui ignoravo il nome, fece il cambio delle scarpe, segno che stava per andare via. Lui le sedeva di fianco, con un basco nero sulla testa, cercando di annodare la sciarpa bordeaux intorno al collo. Stava andando via anche lui e del promesso tango nemmeno l’ombra.

    Un abrazo, la parte alta del mio corpo toccava quella del mio ballerino. La sua mano sinistra stringeva la mia destra, le braccia piegate, in tensione, per mantenere la giusta distanza.

    D’improvviso vidi riapparire tra la gente, ormai rada, quel

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