Ti voglio bene come nei film
By Mimmo Parisi
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Ti voglio bene come nei film - Mimmo Parisi
decollo
Avrei desiderato che la mia storia
Avrei desiderato che la mia storia d’amore avesse trovato spazio in un magazine di cruciverba. Non è andata così.
Non è stato semplice come aprire la Settimana enigmistica e seguire il gioco della ‘pista cifrata’, unendo con la bic tutti i punti della mia vicenda.
Invece, nella realtà, ho dovuto sciogliere giochi più complicati, simili a rebus inattaccabili e strategicamente posti tra sudoki intollerabili, o a backgammon indifferenti, o a parole crociate crittografate. E, spesso, mi sono arenato nella terra desolata della ‘pagina della Sfinge’. Imperturbabile e priva di empatia.
Ma ce l’ho fatta.
Morgana l’ho conosciuta durante l’adolescenza.
Mi venne incontro insieme a qualche brufolo e a un pugno di insicurezza che nascosi nelle tasche dei jeans.
Mutava tutto, ma sembrava cambiasse niente.
Anche se il mio mondo si ridisegnava, tutto il resto sembrava cristallizzato.
I miei erano sempre gli stessi; con quelle facce che avrei conosciuto fra milioni di facce; con quegli abbracci sempre pronti ad accogliere i miei dubbi; con quelle voci pronte a guidarmi nella savana dell’esistenza; con quelle parole pronte a ringraziarmi di aver scelto loro come genitori, o a rimproverarmi comportamenti sbilenchi.
A rigor di logica, Morgana la conoscevo già.
Avevamo messo su un gruppetto di bambini e lei era una delle bimbe: l’altra era Rosanna. Poi c’erano Dario, Fede e io.
Mi chiamo Mirko.
Insomma, dicevo di Morgana. Aveva una facoltà che non serviva a ottenere grandi consensi. Di sicuro, non da parte mia: era sempre in mezzo ai piedi.
Educata, ma in mezzo ai piedi.
Ormai, eravamo tutti in quella situazione dove, alle spalle, avevamo la terra magica dell’infanzia che vedevamo diventare sempre più piccola; davanti, si parava il mondo misterioso dell’adolescenza.
Io sentivo di attraversare la mia personale ‘Terra di mezzo’.
Tuttavia, non vi scorsi Gandalf o Frodo; niente elfi, né Sam o Aragon.
Piuttosto e mentre eravamo tutti intenti ad abbandonare la fanciullezza, a me sembrò che un ‘uomo della medicina e delle erbe’ dei Navajos, si sia trovato a passare nelle nostre vicinanze.
Lo vidi cavalcare un mustang pezzato che, dopo averlo abbandonato con un acrobatico salto nell’aria, lasciò libero di brucare l’erba che tremava amabilmente.
Il tipo si guardò intorno. Si mise le mani sui fianchi. Poi le spostò nella borsa di pelle di daino e ne estrasse qualcosa. Non aveva fretta, quindi fece tutto con calma. Si portò alla bocca una foglia di peyote e la masticò senza espressione; poi, mentre alle sue spalle si addensavano nuvole di cemento grigio topo, si mise a guardare intensamente Morgana e… Puff! Tra le distorsioni delle percezioni sensoriali e le visioni geometriche colorate che gli regalavano la sacra pianta del dio Wakan Tanka, trasformò la mia amica di giochi.
Lo sciamano delle antiche praterie americane fece sparire la bambina che conoscevo.
C’era un fumo della madonna!
Quando le pagnotte di foschia iniziarono a diradarsi, vidi muoversi qualcosa: una nuova…
Una nuova che?
Chi era quella Morgana che tutti continuavamo a chiamare Morgana?
Senza contare che – è probabile che io mi trovassi sottovento e, quindi, un po’ di polvere magica dello sciamano amerindo abbia contaminato anche me – anch’io non è che mi riconoscessi tanto.
Ero strano.
Soprattutto perché Morgana non mi sembrò più ‘quella sempre fra i piedi'.
Va precisato che, comunque, tutto quello che ho raccontato sulla sua trasformazione, era più una mia congettura.
Insomma e pur accettando qualche critica sul fatto che sia molto improbabile, che un ‘uomo della medicina e delle erbe’ dei Navajos avesse abbandonato la terra dei suoi avi e passasse nei dintorni di Morgana e miei – nel nord-est dell’Italia! –, era innegabile che un qualche evento strano si fosse manifestato: non è possibile salutare la sera prima una bimba che ti sta sempre tra i piedi e ritrovarsi, il giorno dopo, un’altra.
Un’altra che?
Ecco, non avrei saputo definirla all’epoca.
Di sicuro, mi interessava molto.
Mi sentivo pieno di coriandoli colorati.
Ma non era carnevale.
Carnevale è pieno di scherzi e buon umore.
Con disappunto, piuttosto, mi accorsi che non ci fosse molto da ridere.
Per niente.
Ero al mio debutto nelle storie d’amore e la mia – la mia prima storia d’amore! – si presentò da subito complicata.
Era inutile agitarsi, quella storia non aveva futuro.
E cosa c’è di peggio di un futuro che non ha futuro?
Semplice: un futuro che non puoi avere e ti stuzzica di continuo come un distributore di bibite in luglio, quando hai sete e non ti ritrovi nemmeno un nichelino per far rotolare una coca in basso: magari hai la cinquanta euro di carta… che non riuscirai mai a convincere ad entrare nel macchinino; a convincere la lattina di coca a dedicarsi alla discesa; a farti dare il resto; etc.
È una situazione beffarda: hai cinquanta euro e non riesci nemmeno a dissetarti!
Non c’era niente da fare.
La storia non aveva futuro ma era sempre lì a girarmi intorno. Anche perché non potevo invitare i suoi a cambiare città, regione, nazione o addirittura, pianeta.
Ed è una vicenda che mi sono trovato per tutta la vita, a maneggiare come fosse di cristallo veneziano. Fragile e pronta a ferirmi con i suoi frammenti aguzzi se ci avessi girato intorno più del necessario.
Alla fine riuscii comunque a trovarle un posto: tra i miei ricordi. La lasciai accoccolata tra le cose che avrei voluto e non era stato possibile. Tuttavia…
Tuttavia e Contro tutti i pronostici, come cantava Mango, alla fine ce l’ho fatta. Tardi, fioriti come fiori autunnali, come numeri mezzi cancellati sulla lavagna della vita e rigiocati al lotto dell’esistenza, la mia combinazione è uscita.
Fedez ha ragione: Certi amori non finiscono/Fanno dei giri immensi
.
Io ne sono testimone.
La mia storia d’amore si è finalmente realizzata.
Uhm… Controllando su Wikipedia mi sono accorto di aver sbagliato autore; gli ultimi versi che ho citato sono di Antonello Venditti e non di Fedez. Fa niente. Le storie d’amore non sono un fatto generazionale: sono fra le poche cose che permangono eterne. Come il tight o il frac. Come i jeans strappati. Come le principesse salvate da re di imperi lontani. A vagare con esse si è felici o disperati, sia che si indossino jeans a vita bassa o alta, che si abbiano capelli lunghi o alla marine, che si viaggi in tuta da rapper o da fighetto con addosso un blazer da cinquecento euro, che si abbia l’iPod o I promessi sposi di carta gialla secolare.
Ma ora, eccomi pronto.
A raccontarmi.
Non l’avrebbe detto nessuno.
Eppure era lui il padrone dell’eternità.
Certo, con quella camicia lisa e la pala in mano sporca di anime non faceva una gran figura. Ma lui se ne fregava altamente. Del look e quelle cose lì. Quel lieve cimitero nella periferia del piccolo centro del nord-est italiano era il suo regno. Conosceva tutti. Sapeva tutto di ognuno. Il mestiere che avevano svolto. Il comportamento tenuto.
Conosceva i bravi. Pochi.
I figli di puttana. Pochi.
(Pochi? Bah, difficile contarli.)
E i mediocri. Tanti.
Ma quelle erano ormai categorie scadute: erano confluiti tutti in quella degli ‘eterni’, dove il giudizio ‘Senza infamia e senza lode’ non aveva alcun senso, né potevano averne altri come ‘Eccellente’ o ‘Pessimo’. Ora costituivano un bel gruppo affiatato e amichevole. Si erano consegnati all’eternità nello stesso posto. In quel luogo frequentato dalle cure del suo sguardo.
‘Il padrone dell’eternità’: sono convinto che non ci fosse altra descrizione per definirlo meglio.
E poi, cosa non di secondaria importanza, non era un pallone gonfiato di quelli Ehi, amico, io sono questo, ho fatto quello, sono capace di…
.
No.
Era uno che andava al sodo con quella pala.
Per quanto riguarda il cimitero, be’, che dire? Era un luogo tranquillo. Una piazza silenziosa, fatta di ombre senza parole. Il muro che lo delimitava era abbastanza alto. Perfino antico. Che poi, i cimiteri nascono antichi. Con adornamenti in basso rilievo. Anche se portatore di una inequivocabile vecchiezza, il luogo pareva ostentare la sua lontana gioventù legata a un certo classicismo. Un classicismo tardivo. Molto dilazionato. Probabilmente, quel muro neoclassico, era stato tirato su negli anni venti.
Del Novecento.
Quello spazio circoscritto e silenzioso era rimasto indenne. Segno che la popolazione non aveva subito grandi variazioni numeriche o demografiche. Comunque, tutto l’insieme – che ricordava stranamente un cimitero di foggia americana, con le lapidi a fior di terra e prato: di quelli che inquadrano in tanti film – dimorava, da tempo, senza rivoluzioni architettoniche. Ricordava l’antico camposanto Boston’s Granary! Cosa poteva avere in comune quel luogo minimalista situato nel nord-est italico con il sepolcreto di Boston? Niente. Se non si tiene conto, va da se, dell’uso.
Quello di accogliere anime.
E quello di avere un guardiano che era stato a Boston. Tanto tempo prima che lui decidesse di prendersi cura del posto.
Chissà, poi, cosa lo aveva spinto verso l’America…
Di sicuro, qualcosa di americano gli era rimasto. E i cimiteri sono come i cani, i quali somigliano ai padroni. Oppure, il contrario.
Mi avvicinai. Lui tese la mano.