Il commissario Richard. Le ultime inchieste vol. 6
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Anteprima del libro
Il commissario Richard. Le ultime inchieste vol. 6 - Ezio D'Errico
2019
Operaio della penna
di Loris Rambelli
Gli estimatori di Ezio D’Errico, «giallista di culto» (Pederiali, 2005), hanno sempre ritenuto riduttivo parlare di gialli
a proposito dei romanzi che hanno come protagonista il commissario Richard. «Certi polizieschi di D’Errico» osservava nel 1961 la scrittrice Anna Marisa Recupito «sono dei veri
romanzi, degli studi psicologici di non trascurabile valore letterario». L’unico a tenerli in scarsa considerazione era, caso mai, proprio l'autore. «D’Errico si rammaricava che la sua fama di giallista soverchiasse troppo spesso quella a cui teneva molto di drammaturgo e di pittore»: testimonianza di Mario Bonetti, direttore nei primi anni Sessanta del quotidiano «Telesera» di Roma, al quale D’Errico collaborò. «Considerava dunque i suoi romanzi polizieschi come un fatto artigianale che gli aveva permesso di sbarcare il lunario in un certo periodo della vita e al quale tornava qualche volta per necessità di cassetta. Non ne parlava volentieri e quando accadeva coglieva l’occasione per tessere un ennesimo elogio di Simenon che giudicava – e credo a ragione – un grandissimo scrittore»¹.
Un atteggiamento di sufficienza nei confronti del genere poliziesco emerge anche dalla sua corrispondenza epistolare privata. Il tipografo Guido Modiano il 19 settembre 1939 gli scrive: «Ho scoperto un’altra tua attività: scrittore di gialli
; in un fascicolo Mondadori prestatomi da mia madre ho letto con vivo interesse L’uomo dagli occhi malinconici; non sono un competente, ma mi pare ottimo». Risposta di D’Errico (21 settembre): «Non ti ho mai fatto omaggio dei miei gialli perché rappresentano un’attività strettamente commerciale, della quale naturalmente non mi vanto, ma il faut vivre quand même... in novembre ti manderò invece Da Liberati che è un volume di novelle, tipo Parabole, edito questa volta da Guanda di Modena». A questi libri di novelle, o «quasi novelle», come anche le definiva l’autore, D’Errico avrebbe voluto legare il suo nome. Erano i medesimi libri che, vent’anni dopo, diede da leggere a Italo Alighiero Chiusano, accompagnandoli con le parole: «Ecco, D’Errico non era solo quello dei gialli». E furono per Chiusano una folgorazione, perché gli fecero capire che i germi del teatro dell’assurdo di D’Errico, nato apparentemente con la commedia Tempo di cavallette (1956), erano già in quei racconti metafisici e surreali degli anni Trenta².
Nel 1941, quando la serie di avventure del commissario Richard era giunta al numero quattordici (l'intera saga ne comprende venti), D'Errico comunica a Luigi Rusca di voler tentare un salto di qualità: con il romanzo Il segreto si era posto l'obiettivo di «stabilire un ponte di passaggio fra il giallo e il romanzo letterario». Arnoldo Mondadori, con tutta la sua équipe (Lorenzo Montano, Luigi Rusca, Alberto Tedeschi) cui si deve il lancio della moda del giallo negli anni Trenta presso la media borghesia italiana e gli intellettuali, non riteneva affatto che i gialli fossero romanzi letterari
: semplicemente utilizzava a scopo pubblicitario i giudizi compiacenti di scrittori e letterati della sua scuderia (Massimo Bontempelli, Margherita Sarfatti, Alfredo Panzini e altri ancora), che dichiaravano di apprezzare i libri gialli (solo quelli per eccellenza, i gialli Mondadori, cioè), pur non considerandoli qualcosa di più di passatempi, evasioni, giochi di intelligenza³. D'Errico in Qualcuno ha bussato alla porta fa dire al commissario Richard che i romanzi polizieschi appartengono a quella categoria di libri il cui prezzo di copertina è giustificato dai ripetuti colpi di scena somministrati al lettore per scuoterne l'emotività e tenerne desta l'attenzione.
Sembrerebbe dunque che D'Errico tenesse distinti due tavoli di lavoro, ma, nella pratica della scrittura, i confini fra prodotti artigianali, o commerciali, e prodotti letterari, tendono a scomparire, per lo meno presentano punti di contatto e intersezioni.
Nel romanzo La casa inabitabile, per esempio, assistiamo a qualcosa di simile al procedimento che Chandler chiamava di «cannibalizzazione»: D’Errico recupera un suo elzeviro, apparso nel 1933 sul «Meridiano di Roma», per riportarlo, pari pari, nel corpo del romanzo, prima parte del capitolo decimo. All'origine si intitolava Madri di città ed era un esempio di bello scrivere, in tempi in cui le riviste letterarie e le terze pagine dei quotidiani pubblicavano le prose di riconosciuti maestri della penna (basti ricordare quelle raffinatissime di Cesare Angelini che uscivano sul «Resto del Carlino» alla fine degli anni Venti, poi raccolte in volume con il titolo I doni del Signore nel 1932). Ebbene, verso l'epilogo del romanzo, si giunge a un punto in cui Geneviève sta aspettando Richard al Jardin des Tuileries, e, siccome il fratello è in ritardo all'appuntamento, nell’attesa, si guarda intorno. Donne, bambini, venditori ambulanti di dolciumi e giocattoli... La scenografia è predisposta per accogliere il pezzo sulle madri di città, per l'occorrenza parigine, e i pensieri di Geneviève si confondono con quelli dell’autore, che potrebbero anche essere gli stessi di Richard, quando, nella disposizione d'animo dei suoi giorni migliori, osserva il mondo circostante con l’aria di avere solo del tempo da perdere. La scena d'ambiente ha funzione di riempitivo: colma un tempo morto nello sviluppo dell'inchiesta e segna una pausa poco prima che la narrazione prenda l'abbrivio per l'impennata finale che porta allo svelamento del mistero, ma si innesta talmente bene nell’ordito del romanzo, si intona così perfettamente con ciò che precede e ciò che segue, si inserisce con tale giustezza, che il lettore non si accorge dell'operazione di forbici e colla che l’autore ha compiùto. C'era Geneviève e c'era il giardino pubblico: bastava cucire la figura allo sfondo: anche Geneviève ha un bambino di cui prendersi cura, un po' cresciuto, che sarà un asso della polizia francese, come dicono i giornali, ma intanto ha bisogno di qualcuno che lo accompagni alle Galeries Lafayette per farsi confezionare un vestito. E lei è lì per questo...
Nella Tipografia dei Due Orsi D’Errico ripete l’esperimento con esito diverso. Prende un altro elzeviro, intitolato L’omino di fiducia («Meridiano di Roma», 1934), lo spezza in due come fosse un pane e dentro vi inserisce tutta l'inchiesta di Richard sul caso misterioso della rotativa insanguinata, dando così al romanzo una struttura chiusa e circolare, ribadita dalla comparsa, in apertura e in chiusura, del medesimo personaggio, l'omino di fiducia, appunto, il più umile dei lavoranti, che nelle vecchie tipografie aveva il compito di rimettere in ordine nelle rispettive cassettine i caratteri mobili, sparsi sui banconi dopo la composizione delle pagine da stampare.
Per quel che riguarda Il segreto, cui si è accennato, Mondadori poi lo pubblicò nella collana «I Romanzi della Palma», serie blu, nel 1943. Come in un storia criminale di Simenon senza Maigret, anche qui un assassinio, una realtà da nascondere, una colpa da espiare, ma non c'è investigazione. I personaggi, gli ambienti, le atmosfere sono ben derrichiani, i risvolti surreali trovano più ampio sviluppo rispetto a quanto non fosse consentito in un giallo, eppure il romanzo ha forse perso qualcosa dell'immediatezza e vivacità che il commissario Richard, ingombrante
ma così godibile, portava con sé.
Non si può non essere d’accordo con Ruggero Jacobbi quando afferma: «Io penso, ecco, che D’Errico dovrebbe vincere la tentazione borghese di vergognarsi d’aver scritto anche dei gialli». I suoi famosi collage, costruiti, secondo la tecnica di Max Ernst, incollando illustrazioni ritagliate dai giornali, possono apparire degli artifici, se messi a confronto con il «gusto cinematografico e sbrigativo» con cui nei romanzi polizieschi «inchioda un ubriaco, un cane, un poliziotto a un muro di periferia». «E il suo maglione da operaio – quando manovra massiccio fra i tavoli delle redazioni con pennello e aerografo – è una promessa di arte concreta; di un’arte – voglio dire – che non si vergogni di essere anche artigianato»⁴.
LA TIPOGRAFIA DEI DUE ORSI
PARTE PRIMA
Capitolo primo
L'omino di fiducia
Nella soffitta abitata da Modeste Girou, anche quell'alba si annunciò come tutte le altre, col suono stridulo di uno svegliarino marca Stella.
Una mano, che certo conosceva l'esatta posizione dell'arrogante meccanismo, uscì dal caldo delle coperte, e al buio piombò sull'oggetto che, compresso proprio al campanello, mandò un trillo roco, si zitti al tac della leva di arresto, e finalmente, prima di tacere del tutto, emise ancora un flebile dlin dlin dlin... qualche cosa come l'ultimo andito della suoneria strozzata.
La stessa mano andò a schiacciare la peretta della luce e la luce fu, o meglio fu un chiarore giallastro che metteva dei bianchi crudi sulle lenzuola, dei grigi sporchi sulla coperta, sulla sedia di paglia, sul tappetino, e lasciava in ombra tutto il resto.
A quella stessa ora, migliaia di altri svegliarini avevano probabilmente suonato allo stesso modo, migliaia di altre lampade elettriche si erano accese, e per la metropoli ancora avvolta dalla bruma invernale, tutto ciò costituiva il sorgere dell'alba.
Modeste Girou sbadigliò battendo gli occhietti orlati di rosso, e come faceva tutte le mattine balzò dal letto, e infilato un paio di ciabatte si avvicinò alla stufa dando fuoco a un lembo di carta di giornale. Poi con una breve corsa tornò ad infilarsi sotto le coperte.
Tutta l'operazione non era durata più di un minuto.
Ora la carta aveva incominciato a incendiare i pezzetti di legno già disposti a castelletto fin dalla sera precedente, poi la legna avrebbe infiammato la carbonella, e questa a sua volta il coke. Tutto sommato altri quindici minuti, durante i quali l'ideatore di quella piccola organizzazione casalinga se ne sarebbe rimasto accucciato fra le lenzuola.
La stufa, essendo piccolissima, si arroventava rapidamente, e allora il vecchietto poteva vestirsi (cinque minuti) e lavarsi la faccia (tre minuti). Questi otto minuti erano sufficienti perché la cuccuma sui cerchi di ghisa incominciasse a bollire.
Da quel momento aveva fine la mezz'ora infausta e incominciava la mezz'ora di delizie.
Intanto il tepore della stufa aveva già reso più confortevole la soffitta, poi c'era da centellinare il caffè, e finalmente veniva il caricamento della pipetta e la sua accensione.
Questo era il trionfo finale di tutta l'organizzazione Girou, un trionfo cui le prime boccate di fumo servivano da incenso.
Allora il vecchietto si avvicinava alla finestra, ripuliva con la manica una porzione di vetro e guardava fuori. Naturalmente non vedeva nulla, perché d'inverno, alle sette del mattino, a Parigi la notte e la nebbia regnano ancora sovrane, ma da certi piccoli segni il vecchio capiva se il tempo voleva mettersi al bello o far la neve.
Restava qualche minuto immobile a spiare la confusa distesa di tetti e di abbaini come un astronomo alla feritoia della sua specola, poi con una fregatina alle mani se ne andava al lavoro.
Per andare al lavoro non aveva che da discendere centoventitré scalini, attraversare un cortile, e aprire con un'enorme chiave un piccolissimo usciolo verniciato di verde.
Ed ecco che Modeste Girou si trovava nel suo regno, e non importa se in questo regno egli era l'ultimo dei sudditi. Dalle sette alle otto era solo, e chi è solo si sente sempre un pochino padrone.
II locale era una specie di labirinto di stanze e stanzette collegate da corridoi e persino da piccole rampe di scale. Nella stanza più grande c'erano le macchine, nelle più piccole i banconi da lavoro, in un bugigattolo, vetrato la direzione, in un altro stambugio era attrezzata una specie di saletta per ricevere i clienti.
Un odore pesante di inchiostro e di petrolio gravava dappertutto; poi c'erano gli odori secondari: odor di colla ammuffita dalla parte della rilegatoria, odor di gas nel piccolo locale dove si fondevano le sterco<