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Toponomastica di Inghilterra e Scozia
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Toponomastica di Inghilterra e Scozia

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Un viaggio tra linguistica e storia attraverso le migrazioni dei cinque principali gruppi etnici che hanno colonizzato le isole britanniche: i Celti (Britanni, Pitti, Scoti), i Romani, i Germani (Sassoni, Angli, Juti), i Vichinghi e i Normanni. Un sovrapporsi di popoli, ma meno proteiforme di quanto si immagini, poiché sul primitivo substrato celtico – e considerata una parentesi puramente politica ed economica dei Romani – si sono, onda dopo onda, succedute genti dai caratteri non troppo distanti, come i popoli germanici e quelli scandinavi, e persino i Normanni “francesi” ma dalle radici danesi e norvegesi.
Lo studio della toponomastica di Inghilterra e Scozia (le terre che più hanno accolto l’arrivo dei nuovi coloni, essendo l’impenetrabile Galles e la Cornovaglia rimasti intatti nella loro celticità) è il risultato di queste stratificazioni, non soltanto linguistiche ma anche socio-culturali ed economiche. Ciascun popolo ha lasciato nei luoghi dell’isola nomenclature collegate alla propria visione del mondo, dai Britanni devoti alle manifestazioni naturali ai Romani costruttori di città, dagli Anglosassoni dediti all’agricoltura ai Normanni inquadrati in una struttura feudale e cavalleresca. E, su tutti, l’opera unificatrice del cristianesimo ha riplasmato secoli di influssi fino a creare quelle civiltà uniche e inconfondibili che chiamiamo Inglesi e Scozzesi.
LanguageItaliano
PublisherRivista Etnie
Release dateMar 15, 2019
ISBN9788832540901
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    Toponomastica di Inghilterra e Scozia - Mario Mijno

    dove.

    I

    Etnolinguistica, toponimi e culture

    Come afferma Giorgio Raimondo Cardona, l’etnolinguistica è la branca della linguistica che si propone di interpretare una lingua in rapporto alla sua particolare cultura. Siamo in grado di cogliere immediatamente il rapporto tra lingua e cultura se ci troviamo in un contesto linguistico che non è il nostro. Se, per esempio, facciamo riferimento a un parlante di madrelingua inglese, ci accorgiamo che egli adotta particolari classificazioni sistematiche di vari settori dell’esperienza, le quali fanno sì che egli interpreti in modo diverso da noi il mondo che lo circonda.

    La tesi di Cardona mette in rilievo il profondo rapporto esistente tra una lingua e il popolo che la parla. Ripercorrendo la storia dell’etnolinguistica scopriamo che tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800 alcuni studiosi avevano intuito l’importanza del legame tra lingua e contesto culturale. Lo scienziato e filosofo C. F. de Volney (1757-1820) ribadì in più occasioni l’importanza di conoscere la lingua di un popolo per conoscerne bene la cultura: la conoscenza di una cultura attraverso la mediazione di un interprete, secondo de Volney, non è che un tappeto visto a rovescio. La frase ci dà la misura di quanto egli tenesse in considerazione il legame tra lingua e contesto culturale.

    Un altro eminente studioso di filosofia del linguaggio di quei tempi, il tedesco Wilhelm von Humboldt (1767-1835), si dedicò con straordinario vigore scientifico allo studio di alcune lingue extraeuropee, come il cinese e il kawi dell’isola di Giava. Egli sostenne la grande importanza dell’interazione tra l’antropologia (cioè la scienza che studia i tipi e gli aspetti umani e i fenomeni culturali che si manifestano nelle società umane) e la ricerca linguistica ai fini di poter meglio comprendere lo spirito umano nelle sue svariate manifestazioni.

    Proseguendo la nostra analisi storica giungiamo alla fine dell’800, periodo in cui il positivismo tendeva a razionalizzare e allo stesso tempo a generalizzare le teorie sulle lingue e sulle razze umane, nonostante le cognizioni in materia fossero ancora scarse. Riportiamo un discorso tenuto nel 1901 da W. Mc. Gee, che fu il primo presidente dell’ American Anthropological Association: Il selvaggio è straordinariamente vicino alle specie subumane in tutti gli aspetti della sua mentalità, del suo comportamento fisico e della sua struttura corporea. […] Forse il sangue anglosassone è più potente di quello di altre razze; ma bisogna ricordare che la lingua anglosassone è la più semplice, la più perfetta e semplicemente simbolica che il mondo abbia mai visto; e che grazie a essa l’anglosassone conserva la sua vitalità per la conquista, invece di sciuparla sotto il Moloch di un ingombrante meccanismo di comunicazione del pensiero. Da questo discorso ci rendiamo conto della tendenza a razionalizzare in modo apparentemente scientifico le conoscenze acquisite riguardo ai concetti di razza e di lingua, trasformandole tuttavia in un atteggiamento razzista e di superiorità dell’uomo bianco nei confronti delle popolazioni tribali. Tale atteggiamento si riferisce agli anglofoni, la cui lingua è considerata come un mezzo per imporre il dominio dei popoli anglosassoni sugli altri popoli.

    Gli anni ‘30 e ‘40 del secolo scorso vedono la presenza nel campo della linguistica e dell’antropologia dell’oriundo polacco Bronislaw Malinowski (Cracovia 1884 - New Haven 1942), il quale tra il 1914 e il 1918 compì come antropologo una serie di viaggi per giungere a contatto con le tribù dei Mailu e dei Tabrianesi. Egli imparò la lingua di queste popolazioni tribali e giunse a formulare la teoria secondo cui è impossibile conoscere la cultura di un popolo senza conoscerne la lingua. Stando a contatto con quelle etnie tribali, egli giunse alla conclusione che determinati concetti che aveva imparato presso di loro erano quasi intraducibili in una lingua europea come l’inglese o il francese. La lingua è dunque l’espressione di quel complesso di cognizioni, tradizioni, tipi di comportamento che costituiscono la cultura di un popolo, e da ciò consegue la visione assai innovativa di Malinowski del ruolo che ricopre il linguaggio nella cultura.

    Un sinonimo di etnolinguistica è linguistica antropologica, ed è difficile delimitare i loro confini nei confronti della sociolinguistica. Come rileva Cardona, tale termine è entrato nell’uso a partire dagli anni ‘60 e sta a indicare il rapporto tra lingua e struttura sociale. La sociolinguistica privilegia la lingua degli aspetti sociologici di una comunità, usando metodi propri della sociologia, come per esempio le elaborazioni statistiche. Può accadere che l’etnolinguistica e la sociolinguistica sovrappongano i loro àmbiti di interesse ma, secondo quanto afferma Cardona, è augurabile che tra tutte le scienze del linguaggio si abbia sempre il più fluido interscambio possibile.

    L’aspetto culturale dell’uso di una lingua è stato assai trascurato in passato, in quanto i linguisti la hanno spesso considerata come un sistema a sé stante. Gli strutturalisti, cioè i seguaci di una metodologia scientifica nello studio delle lingue affermatasi nel secondo dopoguerra sino agli anni ‘70, si sono spesso disinteressati dell’aspetto antropologico di una parlata, poiché secondo loro questo aspetto mancava di adeguate garanzie scientifiche. Dell Hymes osserva che in Europa in passato, a differenza degli Stati Uniti, è mancata una certa collaborazione tra linguisti e antropologi. Termini come etnolinguistica, psicolinguistica e sociolinguistica si sono affermati soltanto negli anni ‘40, ‘50 e ‘60 del secolo scorso, testimoniando l’interesse che la linguistica ha suscitato prima negli antropologi, poi negli psicologi e infine nei sociologi.

    A sostegno dello stretto rapporto che emerge tra cultura e lingua citiamo come precursore il nome del tedesco Franz Boas (nato a Minden in Germania nel 1858). Egli, negli stessi anni in cui si distinse la ricerca di Malinowski, contribuì in modo decisivo allo sviluppo dell’etnolinguistica, dando grande importanza a ogni fatto culturale che venisse riflesso nell’idioma usato. Celebre la sua raccolta di grammatiche delle lingue indiane d’America intitolata Handbook of American Indian Languages, ancor oggi considerata un punto di riferimento obbligatorio per chi affronta lo studio degli indiani d’America. Un punto fondamentale del suo pensiero che lo accomuna alla tesi di Malinowski è che la conoscenza di una lingua è presupposto essenziale per indagare sulla cultura del popolo a cui essa corrisponde. La sua monografia sulla toponomastica dei Kwakiutl del 1934 ricostruisce il mondo reale e mitico di questo popolo, e dimostra che vi è un preciso rapporto tra toponimi e culture. Tale rapporto ci serve di esempio nella nostra ricerca, intesa a dimostrare che esiste una chiara relazione tra le migrazioni avvenute in età storica in Inghilterra e Scozia, e le tracce linguistiche che esse lasciarono nei nomi di luogo.

    Prima di procedere con il nostro lavoro riteniamo indispensabile fare una breve premessa sull’interesse storico, geografico e linguistico della toponomastica, cioè dello studio scientifico dei nomi di luogo (dal greco τοποσ luogo e ονομα nome). Rifacendoci al contributo di Emidio De Felice, ¹ possiamo osservare che i nomi di luogo si inseriscono in due categorie fondamentali. La prima è costituita da elementi geografici naturali come penisole, isole, rilievi, montagne, laghi e fiumi; la seconda da quelle strutture che comportano l’intervento dell’uomo, come le città, le grandi strade di comunicazione, i ponti, i viadotti, i mulini e le costruzioni agricole e artigianali. Apprendiamo inoltre che vi è una certa tendenza alla conservazione dei toponimi costituiti da nomi geografici naturali, poiché di solito non cambia l’aspetto fisico che ha promosso il nome. Al contrario, esiste una tendenza minore alla conservazione dei nomi di città. Alludiamo a quegli abitati soggetti alle sovrapposizioni di lingue diverse dovute a migrazioni di popoli che si sono susseguite, che ha comportato la perdita della coscienza linguistica del passato. Una sorte simile hanno seguito le città soggette a trasformazioni politiche e ideologiche, come per esempio San Pietroburgo in Russia, denominata Leningrado al tempo dell’Unione Sovietica.

    I toponimi sono un’importante fonte storica per la geografia dell’insediamento. C.T. Smith sostiene che essi sono una fonte più verosimile rispetto ai documenti statutari, i contratti d’affitto e le note contabili, che possono essere sottoposti a forzature dall’interesse personale di un autore. Allo stesso tempo i toponimi sono una fonte che, come i documenti storici, è stata elaborata dalla mente umana e perciò testimonia la visione particolare di un luogo da parte di un determinato popolo che non corrisponde necessariamente alle caratteristiche reali di quel luogo. Dall’analisi di Smith consegue una certa relazione tra i toponimi e il modo di considerare i posti da parte di certi popoli del passato. Tale modo di rapportarsi ai luoghi implica un elemento umano che è parte della cultura di un popolo. Questa interpretazione è avvalorata da quanto è affermato da Simeon Potter: Place-names have an abiding interest: historical, geographical, linguistic, and, above all, human. They may tell us how our ancestors lived and how they looked on life. Place-names may be pictoresque, even poetical; or they may be pedestrian, even trivial.

    Riconsiderando l’opera di Smith, ricaviamo che la traduzione e l’interpretazione di un toponimo è compito che spetta ai filologi, i quali devono attenersi a determinate leggi linguistiche quando individuano una forma originaria e le successive varianti. Il toponimo originale ha una grande importanza linguistica, in quanto ci fornisce importanti informazioni sull’etnia e sul luogo di provenienza del popolo che si insediò nel luogo medesimo. I toponimi sono fonti molto importanti per la cronologia relativa all’insediamento progressivo in una certa area in rapporto al suo livello di accessibilità e alle sue condizioni fisiche. Essi descrivono le caratteristiche fisiche di un luogo, mettendo in evidenza per esempio la presenza di corsi d’acqua, di vegetazione o il tipo di rilievo; sono in grado di fornirrci informazioni sulla natura dell’economia di un popolo e sull’uso, per esempio, dell’agricoltura in una determinata area.

    Da quanto abbiamo fin qui considerato appare chiaro un forte legame tra toponimi, lingue e culture; questo presupposto ci permette di procedere nella nostra ricerca prendendo in esame quegli antichi popoli che hanno lasciato traccia di sé nei nomi di luogo di Inghilterra e Scozia.

    II

    I grandi migratori

    Prima di procedere alla descrizione delle popolazioni che in età storica migrarono in Inghilterra e Scozia, riteniamo opportuno prendere in considerazione alcuni elementi della natura che giocarono un ruolo fondamentale nella scelta di queste aree da parte dei colonizzatori. Secondo George Macaulay Trevelyan nella sua Storia d’Inghilterra, questo territorio, nel periodo successivo all’èra glaciale, dopo essere divenuto un’isola, era assai ricco di oro e stagno e aveva un suolo molto fertile; la vegetazione era rigogliosa e nelle vaste foreste c’era grande abbondanza di selvaggina. La presenza della Corrente del Golfo in una terra così a settentrione determinava l’assenza

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