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Cosa accadde a Giorgio Scerbanenco?
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Cosa accadde a Giorgio Scerbanenco?

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Giorgio Scerbanenco negli anni Sessanta del secolo scorso era un famoso scrittore-giornalista che dirigeva le riviste femminili “Grazia”, “Annabella”, “Bella”; collaborava col “Corriere della sera”, teneva rubriche per i suoi lettori e scriveva romanzi. Gli ultimi quattro, d’investigazione, hanno avuto un tale successo sia in Italia che all’estero che da allora è considerato il padre del “Noir” italiano.

Gianni Bertini, il narratore, è cresciuto nel mito dell’eclettico scrittore, russo di nascita. Convinto che sia stato assassinato ne studia e racconta la controversa vita e “subisce” la voce dello scrittore che racconta la sua versione. Quattro persone morranno al posto dell’ostinato indagatore e della sua compagna Olga. Ma la tragica conclusione di questo noir chiarirà non soltanto la vera natura di Scerbanenco ma anche la causa della sua morte.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMar 14, 2019
ISBN9788831611374
Cosa accadde a Giorgio Scerbanenco?

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    Cosa accadde a Giorgio Scerbanenco? - Giovanni Bertini

    scerbanenchiana.

    Prologo e ringraziamento

    A cavallo tra la fine degli anni Quaranta e i primi Cinquanta del secolo scorso frequentavo la scuola elementare in un bellissimo palazzo, nella grande, erbosa e alberata piazza Palermo a Genova. Abitavo lì vicino, in via Casaregis, nel più lungo e romantico viale della città, di fine Ottocento, che da monte conduce al mare, al quartiere della Foce. Allora c’era una spiaggia, la spiaggia dei pescatori, con la sabbia beige. C’erano anche degli stupendi gozzi genovesi.

    Un giorno, avrò avuto sei o forse sette anni, nei combinai una delle mie, la più grossa di tutte. Mamma mi scoprì e io pensai di andare nottetempo dai pescatori, rubare un gozzo e remare fino in Corsica, la terra di Napoleone. Mamma, a modo suo, col sorriso sulle labbra, senza battermi né punirmi, mi fece vergognare e io decisi di non scappare. Da allora non ne combinai più, perlomeno non di grosse.

    Raccontavo poco fa della mia strada. Ogni palazzo era giardinato e privo di inferriate perché erano state riutilizzate per fare la guerra, che era finita da pochi anni, e la città (come il resto dell’Italia) era cosparsa di macerie e povertà, ma anche di non disperata miseria.

    Mio papà, ferroviere, morì in un incidente ferroviario prima che io nascessi, nel 1940. Lui e la sua famiglia mi sono sconosciuti. Questo perché in quel periodo la gente lottava tenacemente per sopravvivere: cercava la pace e, poi, il modo per tirare avanti. Inoltre, drammaticamente, la mia famiglia – cioè la mamma, la zia e io in fasce – lasciammo la nativa Livorno. Eravamo i Mondolfi e, come il cognome suggerisce, eravamo di origine ebraica.

    Nel settembre 1938 Mussolini annunciò le leggi razziali contro gli ebrei, e non soltanto loro. Il mese dopo, alcune camicie nere entrarono nella macelleria degli ebrei, fecero bere un bicchiere d’olio di ricino a Giovanni Mondolfi, il proprietario, lo bastonarono e se ne andarono.

    Nel 1941, nel pieno della guerra e dei bombardamenti, il macellaio livornese, ormai vedovo, morì a seguito delle vecchie ferite di tre anni prima, lasciando tre figlie e un figlio ormai adulti, che decisero di abbandonare Livorno.

    Le due ragazze più giovani e più ribelli, senza un quattrino, si recarono a piazza Micheli, dove c’è il monumento dei Quattro Mori. La più giovane aveva un bimbetto di pochi mesi in braccio, l’altra un violino e un archetto. Nella piazza si alzò una voce di soprano che intonava un’aria dell’Andrea Chénier; poi, la cantante violinista suonò Vivaldi. Infine, la bellissima ragazza con l’infante recitò una poesia sua e una di Vincenzo Monti contro la guerra spartana, si fece dare il cappello dalla sorella e fece il giro della piazza, ormai piena di gente, che conosceva la famiglia Mondolfi. Il copricapo si riempì di soldi. Poi, la cantante violinista distrusse il violino sul monumento degli schiavi neri ma conservò l’archetto, prese per mano la sorella col bambino, e insieme, montarono su una carrozza tirata da un cavallo che una volta era appartenuta alla famiglia. Lentamente si avviarono alla stazione.

    Mia mamma si chiamava Pierina, sua sorella Bianca.

    Questo episodio della mia famiglia me lo raccontò zia Bianca. A Genova tutti e tre ci rifacemmo una vita. Frequentai le scuole serali e mi diplomai. Diventai un portuale nella Compagnia Unica Paride Batini e imparai il dialetto genovese.

    Zia Bianca durante la guerra entrò in ferrovia come donna delle pulizie. Conservò uno scopino per la pulizia dei gabinetti assieme all’archetto del suo vecchio violino. Andò in pensione come capostazione e morì d’infarto.

    Mamma (bellissima!) fece la modista (ai miei tempi tutti portavano il cappello, diversamente da oggi, tempo in cui nessuno più lo indossa) e arrotondò con altri mestieri. Si sposò. Scrisse molte poesie, che io ho perso durante i traslochi. Morì d’infarto a 49 anni.

    Nell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali inviai questa storia alla rubrica di un illustre giornale tenuta da un grande giornalista. Lui brevemente così la commentò.

    «Fa impressione pensare che è passato quasi un secolo dalle turpi leggi volute da Mussolini tale il peso che continuano ad avere nella memoria del Paese. Ottant’anni dopo quelle leggi restano uno dei criteri con il quale giudicare il recente passato. La vicenda Mondolfi-Bertini, la sua forza, semplice, spoglia, è fatta di piccole angherie, inezie in confronto a quanto stava accadendo nel resto d’Europa. Eppure, letta così, resta una storia che avvince; se ne potrebbe fare un film o un romanzo, oppure niente, lasciarla alla solitudine dei suoi personaggi, la mamma modista, la zia violinista finita a pulire i cessi sui treni, l’archetto delle sue ambizioni, lo scopettino della nuova realtà».

    Ecco, in quel periodo scolastico della scuola elementare sognavo e fantasticavo di scrivere racconti, libri, fumetti e lettere. Soprattutto di sera. Dopo cena restavo seduto al tavolo in cucina. Mamma, sorridente, preparava i suoi ferri del mestiere. La forma della testa di donna in legno, aghi, filo, nastri, stoffe. Le riviste Annabella, Bella, Novella; la radio; il quaderno degli appunti, dei pensieri e delle poesie. E la simpamina. Questo psicostimolante l’aiutava a soddisfare le richieste delle sue clienti, visto che il lavoro durava non più di due o tre mesi autunnali e invernali. Ogni consegna di cappello era accompagnata da una breve poesia scritta a mano. Ricordo ancora le donne che portavano il cappello con la veletta e i guanti non soltanto per eventi particolari: erano Signore. Erano una poesia non soltanto alla femminilità, alla discrezione e alla fantasia, ma al mistero.

    Leggevo La posta di Adrian su Annabella, La posta di Valentino su Bella, e poi brevi racconti su Novella; l’autore era Giorgio Scerbanenco, che nacque trent’anni prima di me, nel 1911; mi sembra che il cognome fosse scritto con la c e non ancora con la k, come quando era un ragazzo e i colleghi della Croce rossa lo chiamavano Russia. Queste erano, prevalentemente, le mie letture di allora assieme a Pinocchio di Collodi e Cuore di Edmondo De Amicis.

    A scuola mi distinsi, anche dopo le elementari, soltanto nei temi. Alle superiori il professore a ogni componimento mi regalava un libro, che mai lessi, anche perché di giorno lavoravo otto o dieci ore.

    Comunque crebbi, feci molti terribili lavori precari per undici anni, poi ebbi un colpo di fulmine, voglio dire che trovai il lavoro della mia vita e l’amai. Come perito mercantile controllavo e registravo le merci che venivano sbarcate e imbarcate dalle navi nel porto di Genova.

    Dopo, ebbi un altro colpo di fulmine, ma non sul lavoro, e mi sposai. Infine, con l’avvento dei computer e dei container mi prepensionarono. Non solo, mia moglie mi lasciò, non so perché o forse non voglio saperlo. Il pensionamento, come la vecchiaia, sono cose belle o brutte. Dipende dalla fortuna e da come la prendiamo. Al mattino leggo i miei giornali digitali e poi vado a fare lunghe, estenuanti e sognanti passeggiate. Ma a un certo punto, alcuni anni fa, ho iniziato a pensare all’infanzia e a scrutare il buio oltre la siepe. Capii che non andava bene.

    Reagii. Nei lunghi pomeriggi lessi, coinvolto, i quattro noir del duro investigatore Duca Lamberti e i sei del timido Arthur Jelling; l’autore era Scerbanenco. Mi immersi nei romanzi del polifonico Fëdor Michajlovič Dostoevskij e mi intrigai negli introspettivi polizieschi dell’ex magistrato Gianrico Carofiglio. Studiai molti libri di scrittura creativa e non, frequentai anche un corso su come scrivere un romanzo e, dopo i settantaquattro anni, scrissi e feci pubblicare quattro libri e trenta racconti.

    Infine eccomi qua con un libro su Giorgio Scerbanenco. Non è un poliziesco e neanche una biografia. Per questa ci sono molti scrittori più qualificati e autorevoli di me. C’è Cecilia, la figlia di Scerbanenco, avuta con la sua ultima compagna, che ha scritto, cresciuta immersa nel mare di scritti scerbanenchiani, una bella ed esauriente biografia. Un’altra la sta scrivendo il figlio Alberto, che Giorgio ha avuto con l’amata moglie Teresa Bandini. Il mio libro narra la vita di un bimbo che ama leggere e raccontare, le cui radici e storia crescono e si intrecciano con quella del grande scrittore che molti suoi colleghi bistrattarono. I fatti romanzati li ho tratti dagli scritti di Giorgio Scerbanenco, dalla biografia di sua figlia Cecilia e dalla Cronologia della sua ultima compagna, la giornalista Nunzia Monanni, mamma di Cecilia; oggi diremmo moglie di fatto. Perché questo era: amatissima moglie.

    Ma, alla fine, questa storia cos’è? Un noir? Forse. Biografia e noir? Forse.

    Il mio è soltanto un pensiero nostalgico ricamato con tanta fantasia, spero verosimile, dedicato all’autore preferito della mia infanzia, nel cinquantenario della sua morte, scritto da un bambino sconcertato e impaurito dalla vita, che cerca di capire e crescere leggendo un autore che si fa leggere da tutti. Pure da me, bimbetto profugo e stralunato come lui.

    Ringrazio le mie due mamme. E Giorgio Scerbanenco, con la c, perché era italiano e parlava romanesco.

    Capitolo 1

    1960 – Lo scrittore

    La macchina da scrivere umana sedeva a un vecchio tavolino di plastica bianco, ingrigito dalla polverosa salsedine e dal tempo. I due indici battevano sui tasti della vecchia Olivetti 22. Il foglio bianco in triplice copia si riempiva velocemente di parole incalzanti, che intrecciavano una nuova storia in cui il duro protagonista lottava per risolvere il suo primo caso poliziesco. Era un noir e avrebbe fatto scuola.

    L’alto, ossuto, dinoccolato scrittore era assorbito dal suo nuovo libro. Il flusso dei pensieri era focalizzato su quegli eventi, ma, come fosse bruciato da una fiamma interiore, molti altri fatti gli si proponevano nella mente e, prontamente, lui li metteva da parte. Sarebbero stati lo spunto per altri pregni e avvincenti racconti.

    Il vecchio barista dei bagni Gabbiano ogni tanto incrociava il suo sguardo e immediatamente gli preparava una spremuta d’arancia. Era da qualche mese che serviva quel silenzioso cliente e ormai tra loro era nata una piacevole intesa, se non proprio un’amicizia. Come tutti i veri baristi era un buon psicologo. Se trovava la persona adatta, a lui piaceva parlare; l’altro, invece, amava ascoltare, soprattutto se gli si parlava della gente e dei loro casi.

    Gli serviva l’aranciata e poi indicava una ragazzina che da una settimana spendeva i suoi risparmi per ascoltare ripetutamente al jukebox una canzone, sempre la stessa, uscita in quelli anni, i ribelli anni Sessanta, e che da allora divenne una pietra miliare della musica leggera italiana. Le parole e la musica erano di un occhialuto, scorbutico giovane genovese che aveva un nome breve e musicale, Gino Paoli. Lei, la cantante, una lungagnona dalla voce estesa e duttile (avrebbe poi cantato altre 1500 canzoni), dal nome brevissimo ed esplosivo come il suo talento, Mina. La canzone era Il cielo in una stanza.

    La settimana precedente, a una festa serale tenuta in quel bar e proseguita sulla spiaggia, la ragazzina aveva ballato, stretta stretta e con gli occhi chiusi, con un ragazzo alto, magro e con i capelli corvini, gli occhi blu e il viso coperto di brufoli.

    La poverina, tutti i pomeriggi e a volte anche alla sera, sperava di richiamare l’attenzione del gruppo di ragazzi che giocavano a pallavolo sulla sabbia e poi si univano nei loro cazzeggi e risate. Lui, il foruncoloso, non rispondeva. Ma lo scrittore notava che i grandi occhioni, blu come quel mare al tramonto, lanciavano furtive occhiate a quella sinuosa sognante fanciulla. Non sapeva come iniziare l’approccio e, allo stesso tempo, non farsi prendere in giro dagli amici.

    Quando sei qui con me

    questa stanza non ha più pareti

    ma alberi, alberi infiniti.

    Lo scrittore era, apparentemente, assorto nella dattilografia, in un angolo, di fianco a una finestra in cui lo stucco crepato si staccava e il vetro tremava ai gorgheggi della Tigre di Cremona. Lui dominava il grande anonimo stanzone e, guardando fuori dalla finestra, sulla spiaggia, vedeva il campo da pallavolo e la lunga distesa di ombrelloni. Lo scrittore immaginava un leggiadro campo di girasoli, dove ragazzi e ragazze si rincorrevano flirtando.

    Quando sei qui vicino a me

    questo soffitto viola

    no, non esiste più…

    Il barista schiacciava l’occhio allo scrittore, che ammiccava imbarazzato.

    La ragazzina si voltava, lanciava uno sguardo disperato alla spiaggia, poi chiedeva un’altra Coca-Cola, forse non sapendo che contiene un forte eccitante. Anche quella notte se la sarebbe presa con le lenzuola e il cuscino, ignara delle pene d’amore.

    Suona un’armonica:

    mi sembra un organo

    che vibra per te e per me

    su nell’immensità del cielo

    Per te… e per me

    nel cielo.

    ***

    Giorgio Scerbanenco, all’inizio degli anni Sessanta e dei suoi cinquanta, aveva scoperto quella romantica piccola laguna, sorella minore di quella mitica di Venezia. È la laguna di Marano, in provincia di Udine. Il tranquillo villaggio, alla foce del Tagliamento, si chiama Lignano Sabbiadoro.

    È proprio lì che ho deciso di passare la mia vacanza studio. Nella biblioteca comunale c’è un ricco archivio in cui le sue due devote figlie, Cecilia e Germana, hanno accumulato una istruttiva documentazione del poliedrico scrittore. La partenza è vicina e sono emozionato. No, non cercherò le due sorelle, io sono soltanto un dilettante. Magari m’imporranno di non scrivere il libro che ormai mi ossessiona e vuole prendere vita.

    Nelle mie letture dei suoi libri, ma soprattutto nelle navigazioni in internet, la fantasia, che qualcuno direbbe patologica, ha maturato un sospetto. Scerbanenco era un grande scrittore, conosciuto da decenni, anche perché lavorava, con molteplici funzioni, sia presso editori come Mondadori e Rizzoli, sia per quotidiani, come «Il Corriere della Sera», il più stimato e venduto, e per settimanali femminili come Novella, Bella, Annabella.

    Era conosciuto, ma non riconosciuto per il suo immenso talento. Tutti lo lodavano, tuttavia c’era sempre un ma, un però, oppure un forse. Perché? Perché il più grande giornalista italiano del Novecento, Indro Montanelli ne fece una bella, breve lode e poi si zittì, contribuendo con tutti gli altri intellettuali a tenerlo in disparte, anziché al suo meritato posto? Sì, perché quello non era il suo posto. E ancora oggi, non lo è.

    In merito, nutro dei dubbi, ho dei sospetti, forse atroci. Spero di dimostrarli.

    ***

    Mi sono fatto mandare dall’Inghilterra una nuova borsa del ghiaccio, dicono che farà bene alle mie caldane, ai miei turbamenti neuronali e alle relative fantasie che ne scaturiscono. Gli scrittori inglesi che vivono e vissero nelle brumose brughiere delle Midland e nelle gelide e umide secolari magioni fatte di mattoni e pietra se ne intendono.

    Capitolo 2

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