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La balia
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La balia

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About this ebook

Costretta a letto in seguito al difficile parto della sua prima figlia, Didi accoglie con gioia l’assistenza di Hennequin, l’infermiera di maternità che aiuta la famiglia nei dieci giorni successivi alla nascita. La convalescenza lunga e dolorosa rende Didi sempre più dipendente dalle attenzioni della donna. Ma le intenzioni di quest’ultima non sono quelle che sembrano: Hennequin nasconde un terribile segreto che affonda le radici in un lontano passato, e adesso è decisa a chiudere il cerchio. Una persona, però, sembra intuire il suo mistero: è Miriam, sua cognata e giovane poliziotta di Rotterdam che, con l’aiuto di un detective americano, porta alla luce dettagli inimmaginabili sul suo conto. Miriam sospetta che la donna sia in realtà una pericolosa psicopatica e comincia a pedinarla. Quando scopre che lavora a casa di Didi, capisce che Hennequin sta nascondendo un piano diabolico… Riuscirà la tenace e instancabile poliziotta a comprendere e ostacolare le inquietanti intenzioni di Hannequin?
Fragilità, forza di volontà e sete di vendetta si fondono in un intenso romanzo psicologico ricco di tensione e colpi di scena.
LanguageItaliano
Release dateMar 20, 2019
ISBN9788833750378
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    La balia - Nova Lee Maier

    ISBN: 9788833750378

    Edizione ebook: marzo 2019

    Titolo originale: Close to the Cradle

    © 2014 by Nova Lee Maier (pseudonym of Esther Verhoef)

    Originally Published by Ambo/Anthos Uitgevers, Amsterdam

    © 2019 by Fanucci Editore Srl

    via Giovanni Antonelli, 44 – 00197 Roma

    tel. 06.39366384 – email: info@leggereditore.it

    Il marchio Leggereditore è di proprietà

    della Sergio Fanucci Communications S.r.l.

    Indirizzo internet: www.leggereditore.it

    Proprietà letteraria e artistica riservata

    Tutti i diritti riservati

    Progetto grafico: One Digital Factory Srl

    Primo giorno

    Martedì

    «Quindi è qui che vivi» sussurrò Miriam. Le sue dita stringevano il volante della Peugeot. Erano un po’ sudate e, con suo disappunto, si accorse di aver iniziato a respirare più velocemente, cosa rara quando era in servizio. Qualsiasi cosa succedesse, per quanto potesse essere pericolosa la situazione, rimaneva calma e professionale, evitando di farsi coinvolgere. Sapeva di poter contare sempre sul suo addestramento, sulla sua esperienza e sui suoi colleghi.

    Adesso, però, non era al lavoro.

    Lo stava facendo da sola.

    Si sporse in avanti e guardò in alto, lungo la facciata elegante del condominio. Il vetro luccicava al sole autunnale. L’edificio sembrava poco accogliente, come se le persone che ci vivevano all’interno si considerassero al di sopra del resto del mondo e, in senso letterale, lo erano. Da lassù doveva esserci una vista mozzafiato. E proprio davanti agli occhi seguendo il corso del fiume, si estendeva tutta Rotterdam, il suo porto e, infine, il mare.

    Quanti piani avrà questo edificio? Miriam cominciò a contare, ma al venticinquesimo piano rinunciò.

    Qualcuno suonò il clacson rabbiosamente dietro di lei. Nello specchietto retrovisore vide la faccia rossa di un uomo che le stava facendo dei gestacci. Miriam resistette alla tentazione di uscire, mostrargli il distintivo della Polizia e chiedergli la patente. Dopotutto, quell’uomo aveva ragione, stava ostacolando il traffico.

    Ingranò la prima marcia.

    Sentì la carotide pulsare in gola mentre guidava fino alla fine della stradina.

    Hennequin svoltò in Baljuwstraat. File di piccoli alberi impettiti bordeggiavano i marciapiedi. Le case sembravano tutte uguali: bifamiliari in stile cubista su vialetti in comune e muri di mattoni scuri. Il vetro delle grandi finestre era di un colore bluastro che rendeva difficile vedere l’interno.

    Il numero 66 era a metà della via. Una cicogna di legno affondava nella ghiaia del giardino e alla grande finestra del soggiorno era appesa una ghirlanda che annunciava: è una femmina!

    La bambina era nata in ospedale la notte scorsa ma, a causa di un parto difficile, fino a quella mattina non era stato permesso alla madre e alla figlia di tornare a casa.

    Hennequin parcheggiò la macchina lungo il marciapiede. Prese la borsa da infermiera dal sedile posteriore e s’incamminò verso la porta d’ingresso sotto la tettoia che ospitava un’Audi scintillante. Ci guardò dentro: interni scuri, puliti ed eleganti. Tutto in ordine. La macchina sembrava appena uscita dal concessionario. Il nome della compagnia di leasing figurava in piccole lettere gialle sotto la targa.

    Suonò il campanello esaminando la serratura della porta d’ingresso. Non sembrava troppo complicata, ma probabilmente sarebbe stato meglio se avesse avuto la chiave. Difficilmente la famiglia si sarebbe rifiutata di consegnargliela, le persone che avevano appena avuto il primo figlio erano emotive, sempre un po’ fuori fase. Tutta la loro vita era stata sconvolta dall’arrivo di un nuovo essere umano. L’infermiera di maternità era la loro confidente: un faro di calma e saggezza in una nuova situazione poco familiare. Grazie a questo, le persone riponevano in lei, una completa estranea, la loro fiducia fin da subito. Le parlavano liberamente di emorroidi, punti vaginali, litigi in famiglia e altri argomenti riservati.

    Di recente Dora aveva parlato a Hennequin di ciò che aveva amato di quel lavoro prima di fondare il proprio istituto di maternità privato e iniziare a delegare dal garage che aveva trasformato in ufficio. Si incontravano le famiglie nel momento più intimo e felice della loro vita, almeno così aveva detto. Era un lavoro compassionevole e molto gratificante.

    Hennequin la vedeva in modo diverso: l’infermiera di maternità incontrava le persone nel momento più vulnerabile della loro vita, quando erano meno cauti.

    Didi Vos era sdraiata sul letto nella stanza degli ospiti. Riusciva a malapena a muoversi. Era in quella situazione già da molti mesi prima del parto, ma ora era anche peggio. Riusciva a camminare solo a mo’ di papera, passo dopo passo, appoggiandosi costantemente a una parete o a un mobile. Spesso era più facile tornare indietro che andare avanti. Riusciva a muoversi solo in linea retta; girarsi era impossibile. Salire e scendere dal letto era un calvario. Doveva calibrare ogni passo.

    ‘Disfunzione della sinfisi pubica.’ Quella era stata la diagnosi dell’ostetrica, poi confermata dal ginecologo. Era stata da un fisioterapista, ma i suoi esercizi non erano serviti a molto. Per niente, a dire il vero. Le ossa pelviche di Didi si erano indebolite a causa degli ormoni della gravidanza e il peso e la massa della bambina le avevano schiacciate. Sudava al più piccolo cambiamento di pressione. Alzarsi era fuori questione. Quando aveva cercato di sollevare una cassa di birra che Oscar aveva lasciato sul piano da lavoro, era crollata. C’erano voluti diversi minuti per tirarsi su, circondata dallo scricchiolio dei cocci di bottiglia.

    «Migliorerà spontaneamente dopo la nascita» aveva detto il fisioterapista.

    Lei, però, non vedeva ancora alcun segno di progresso.

    Forse non sarebbe mai migliorata.

    Didi aveva partorito con l’epidurale: l’anestetico era stato iniettato con un tubicino inserito nella spina dorsale. La sostanza aveva intorpidito i nervi della parte bassa del corpo. Incapace di sentire le doglie del parto dopo l’anestesia, aveva notato solo che il suo stomaco era contratto. Era stato molto strano, come se fosse stato il corpo di qualcun’altra. Quando era arrivato il momento di iniziare a spingere, non ci era riuscita. Non riusciva a controllare i muscoli. Aveva perso la sensibilità dalla vita in giù; era tutto addormentato e insensibile. Il ginecologo aveva ridotto la dose di anestetico fino a quando non era ricomparso il dolore acuto. Sembrava che dei lunghi artigli stessero separando l’intestino e le membrane all’interno del suo ventre.

    La notte precedente Didi aveva imparato il significato di ‘dolore straziante’. I suoi capelli color carota erano intrisi di sudore e il suo viso pallido era diventato rosso acceso. Le feci erano uscite con la prima contrazione. Nessuno le aveva detto nulla, ma era riuscita a sentirne l’odore e aveva visto un’infermiera che puliva la plastica sotto le sue natiche. Didi non aveva sentito il taglio, ma aveva udito lo stesso suono di quando si apre una scatola di cartone con un paio di forbici.

    Oscar era rimasto ai piedi del letto in diagonale dietro il ginecologo. Non avrebbe mai dimenticato l’espressione piena di orrore sul suo volto e il modo in cui aveva girato la testa dall’altra parte.

    «Sono Oscar. Entra. È bello vederti.» L’uomo le aprì la porta più grande.

    Gli strinse la mano. «Hennequin Smith.»

    Oscar la guardò sorpreso. «Hennequin? Che nome insolito.»

    «Posso ringraziare i miei genitori per questo.» Esaminò il padre di famiglia. Non sembrava male. Stanco, scarmigliato, ma non era insolito in un uomo che era appena diventato padre. Se ignorava le borse sotto gli occhi arrossati, sembrava abbastanza in forma. Era sulla trentina, come lei. Abbastanza alto, atletico, ben proporzionato, vestito bene e forse anche un po’ navigato, come il tipico direttore commerciale. Era perfetto per la sua auto.

    Appese la giacca sull’appendiabiti e attraversò il soggiorno. Era spazioso e moderno. Tutto era bianco, marrone o beige: quando si trattava di interior design, la famiglia Stevens-Vos non si allontanava dalle tendenze decise dalle grandi catene di negozi di articoli per la casa. L’esterno era un’eccezione. Attraverso le porte scorrevoli del patio, Hennequin guardò il giardino sul retro recintato da una semplice staccionata di legno un po’ grezzo, con l’erba e alcuni esili cespugli. Era stata costruita una gabbia a due piani a ridosso della recinzione, sul legno erano stati dipinti i nomi jip & janneke in lettere eleganti e due conigli dalle orecchie pendenti saltellavano avanti e indietro oltre la rete.

    Cosa se ne fanno due adulti di queste creature?

    «Ehm, mia moglie è di sopra» disse Oscar.

    Hennequin lo seguì su per la scala di legno. I loro passi risuonavano leggermente. Oscar la condusse in una piccola stanza che sembrava una camera per gli ospiti, che probabilmente veniva usata di rado. C’erano una scrivania bianca e un letto singolo con una spalliera triangolare sotto la finestra. Il pavimento era in laminato. Sul letto giaceva una figura bianca dai capelli rossi. Pallida e tremante come una paziente a cui erano state date solo poche settimane di vita.

    Il che potrebbe non essere troppo lontano dalla verità, pensò Hennequin e, con un largo sorriso, si avvicinò a Didi.

    Didi provò un’immediata simpatia per l’infermiera. Assomigliava un po’ a una casalinga di The Real Housewives, ma aveva uno sguardo gentile. I suoi capelli biondo chiaro erano legati in uno chignon e indossava una divisa bianca da infermiera e un paio di scarpe da ginnastica in cui terminavano le sue lunghe gambe.

    «Mi chiamo Hennequin Smith.» Guardò Didi comprensiva, con i suoi occhi sorprendentemente verdi, e scosse la testa. «Mi spiace davvero che non ci fosse nessuno qui quando siete tornati a casa questa mattina.»

    «Ma adesso ci sei, no?» disse Oscar.

    Hennequin annuì. «Ma anche così, è meglio che vada tutto secondo i piani in un momento così emozionante»

    «Dora ha detto che Jantine non riusciva a venire. È malata?»

    «Magari fosse solo questo...» Hennequin si sedette sul bordo del letto e il materasso si abbassò sotto il suo peso.

    Didi avvertì una dolorosa fitta partire dal bacino e attraversarle tutto il corpo, ma strinse i denti serrando le labbra.

    Non essere patetica.

    Hennequin diventò seria. «Jantine ha avuto un incidente. È caduta dalle scale stamattina.»

    Didi inarcò le sopracciglia. «È caduta? Oh mio dio. Si è...»

    «Sta bene. Si è rotta il coccige, ma poteva andare peggio.» Hennequin lanciò uno sguardo a Oscar e poi tornò a guardare Didi. «La maggior parte degli incidenti avviene in casa.»

    «Sì, così dicono, non è vero?»

    Didi si sentì improvvisamente stanca. La notte scorsa in ospedale aveva a malapena dormito. Si era sentita vuota e sola senza il peso rassicurante della bambina nello stomaco, così familiare in quegli ultimi mesi. Quando ormai si metteva le mani sulla pancia, tutto quello che sentiva era una conca morbida sotto la pelle e i muscoli tesi. Non vedeva la bambina da quando era stata portata in una stanzetta dal lato opposto del corridoio con gli altri neonati, dove le infermiere potevano tenerli d’occhio più da vicino. Indy era nata con l’aiuto di una ventosa. Di conseguenza, il piccolo cranio era appuntito e la pelle si era rotta nel punto in cui era stata applicata la pressione.

    Sarebbe riuscita a sentirla piangere adesso? Indy aveva una voce così flebile... Assomigliava a un agnellino.

    Didi pensò di chiedere all’infermiera – Annelien? – di non sedersi sul letto domani.

    Non voleva parlare del suo problema il primo giorno perché non voleva che quella donna bella e curata pensasse che era una piagnucolona petulante, anche se era esattamente così che si sentiva. Petulante. Vuota. Stanca.

    Stanca morta.

    Guardò Hennequin mettere la borsa sulla scrivania e aprirla.

    «Dov’è la bambina?» chiese Hennequin.

    «Nella stanza accanto» rispose Oscar.

    «Okay, allora andiamo a darle un’occhiata.» Hennequin sorrise mentre prendeva una borsa più piccola e una cartellina dalla borsa da infermiera. «Adoro i bambini.»

    Miriam si svestì e si mise a letto. Aveva chiuso le persiane e tirato le tende. Era completamente al buio. La sveglia era stata impostata per le nove di sera. Si chiamava presleeping, ovvero cercare di dormire in pieno giorno. Il telefono era in modalità silenziosa, il campanello era stato staccato e fece del proprio meglio per ignorare i rumori esterni. Quel metodo le aveva permesso di sopravvivere ai turni di notte nella Polizia.

    Normalmente Miriam non aveva problemi ad addormentarsi. La sera prima cercava di andare a letto il più tardi possibile per prepararsi, ma adesso non stava funzionando e continuava a rigirarsi nel letto.

    Da quando suo fratello era morto sei mesi prima, non aveva avuto un momento di pace. Una caduta dalle scale. Era quella la causa della morte secondo il medico legale. Un incidente domestico. Miriam, però, non ci credeva. Bart era davvero morto in questo modo? Era scivolato con le calze ed era caduto giù dalle scale della sua casa in Belgio? Forse Hennequin Smith, quella donna orribile che aveva sposato, aveva un ruolo in tutto questo? Miriam l’aveva odiata dal primo momento, a pelle.

    Bart aveva incontrato sua moglie durante un viaggio d’affari in America e si erano sposati subito, non appena tornati in Belgio. Era stato un matrimonio così assurdamente costoso e sopra le righe che Miriam si era sentita a disagio. La sposa, soprattutto, le aveva dato i brividi. Non ne capiva il motivo: la bruna era bella, intelligente, aveva viaggiato e sembrava veramente innamorata di suo fratello. Eppure, ogni volta che Miriam guardava sua cognata, le si rizzavano i capelli. C’era qualcosa che non andava in quella donna.

    Bart morì appena diciotto mesi dopo il matrimonio.

    «Deformazione professionale» aveva detto Rens, dopo aver ascoltato pazientemente la sua teoria. Era il suo unico collega alla stazione di Polizia ancora disposto ad ascoltarla quando voleva parlare della morte di Bart e del possibile coinvolgimento di Hennequin. Come tutti gli altri, però, non seguiva il filo del suo ragionamento. «Vediamo troppa miseria. Le persone sono strane. Sei ancora in lutto, è per questo.» Le aveva messo un braccio intorno e le aveva dato una gomitata amichevole tra le costole.

    Deformazione professionale. Forse, non poteva escluderlo. Era nella Polizia da troppo tempo per esserne immune.

    Eppure c’era quella cosa chiamata intuizione.

    Ora che aveva rintracciato Hennequin, voleva scoprire molto di più su di lei, ma prima aveva bisogno di dormire un po’ o non sarebbe riuscita a lavorare quella sera. Anche se le notti infrasettimanali erano tranquille, poteva essere chiamata per sei o sette arresti. Gente armata di coltelli, ladri d’auto, lunatici, uomini che non sapevano tenere le mani a posto... notte dopo notte si riversavano sulle strade senza che Miriam avesse il tempo di chiedersi da dove venissero.

    Lei e i suoi colleghi rendevano il mondo più sicuro.

    Ma se non sei nemmeno stata capace di salvare tuo fratello.

    Miriam rotolò su un fianco e si tirò rabbiosamente le coperte sopra la testa.

    La luce del giorno filtrava attraverso le pesanti tende rosa e blu a motivi geometrici, la stanza profumava di olio per bambini, di mobili e tessuti nuovi. C’era una vaschetta per neonati su un supporto e, in un angolo, l’enorme peluche Miffy sedeva fissando il pavimento di legno. Il muro era decorato con cuori e stelle di legno e un gruppo di animali di peluche sdolcinati era in fila in cima al guardaroba.

    Hennequin mise una pila di moduli sotto il fasciatoio sulla cassettiera rosa. Nei prossimi giorni avrebbe dovuto usare quei moduli per registrare dei dettagli importanti come il peso, i movimenti intestinali e la temperatura della bambina.

    Si avvicinò alla culla e guardò dentro. Oscar la raggiunse e si fermò accanto a lei, un po’ a disagio nel suo nuovo ruolo di padre ma cercando di apparire disinvolto con i pollici nelle tasche dei jeans.

    Il suo volto si addolcì guardando la sua bambina.

    Hennequin poteva sentire il suo profumo maschile sotto la fragranza di olio per bambini. Le si avvicinò e scrutò la bambina che aveva una testa appuntita coperta da croste insanguinate e un groviglio di capelli rossi. Era pallida e aveva la pelle rugosa come se avesse trascorso troppo tempo nella vasca da bagno. La tutina di cotone rosa era più grande di un paio di taglie.

    Per lei rimaneva un mistero perché la gente impazzisse per i bambini. Non erano affatto carini, erano persone che ancora non parlavano o camminavano, ma la loro personalità, i loro talenti e le loro carenze erano già contenuti nei loro geni e si sarebbero sviluppati crescendo, di solito con risultati deludenti. La stragrande maggioranza sarebbe cresciuta solo per diventare un comune cittadino. Era quello il motivo per cui erano nati. Ogni società aveva bisogno di un’ampia classe media per sostenere quei pochi che avevano capito le regole del gioco. Ogni generale aveva bisogno di un plotone senza volto degno di questo nome da usare come carne da cannone, e ogni chiesa aveva bisogno di schiere di fedeli per accumulare ricchezza e potere. Al giorno d’oggi sono soprattutto le multinazionali e i media importanti a nutrirsi dei consumatori stupidi corrotti da show televisivi, prodotti alimentari trattati e vacanze all inclusive. La gente crede fermamente in tutto questo, anche se peggiora solo le cose e non li rende meno frustrati. La frustrazione che nasce dall’essere mediocri, cosa che, alla fine, è tutto quello che siamo destinati a essere.

    Compresa Indy, la nanerottola di tre chili che stava nella culla accanto alla finestra, il centro assoluto del mondo di Didi e Oscar.

    Hennequin si chinò sulla culla. «Ma che bella bambina» disse a bassa voce. «Ho visto centinaia di bambini, ma questa è particolarmente carina.»

    «Ha preso tutto dal padre» rispose Oscar.

    Hennequin guardò di lato e vide che i suoi occhi brillavano.

    Lui le rivolse lo sguardo per un attimo, per poi guardare di nuovo davanti a sé, un po’ imbarazzato.

    «Non faccio fatica a crederlo» disse sorridendo.

    Miriam ingranò la terza. Stava andando al parcheggio appena fuori città. Erano stati catturati un paio di polacchi intenti a svuotare il serbatoio di gasolio di un camion. I sospettati non parlavano olandese e ora stavano aspettando dentro due volanti che arrivasse Miriam. Come ispettore capo di turno, il suo lavoro era convalidare gli arresti per conto del pubblico ministero. Sentiva un flusso di voci nel suo auricolare: messaggi parzialmente codificati dalla sala operativa e dalla stazione di Polizia, brevi conversazioni tra colleghi che, come lei, erano di pattuglia in quella zona. Anni fa, appena entrata nella Polizia, ascoltava attentamente ogni messaggio, ma da allora aveva imparato a filtrarli e ora prestava attenzione solo quando sentiva tra quel balbettio di parole il suo numero di telefono, o le prime cifre della zona che stava pattugliando. Per Miriam quello era uno degli aspetti più interessanti del lavoro: non si era mai soli. Si faceva parte di qualcosa di più grande, di un gruppo affiatato in contatto giorno e notte.

    Stasera, però, gli apparecchi di comunicazione non erano il suo unico legame con i colleghi.

    «Sono andata a casa sua questa mattina» disse a Rens, che mangiava un panino seduto accanto a lei. Normalmente non era accompagnata, un ispettore capo pattugliava da solo, ma le era stato chiesto di addestrare Rens per la sua stessa posizione.

    «Quale casa?»

    «Di Hennequin Smith. Vive nel centro di Rotterdam, in un elegante condominio.»

    «Vuoi dire quella donna con cui era sposato tuo fratello?»

    Miriam annuì.

    Lui le rivolse uno sguardo indagatore. «Non riesci a lasciar perdere, vero?»

    «Non posso e non lo farò. Non riesco a smettere di farmi delle domande. Voglio sapere cos’è successo.» Voglio sapere chi è. Fece una pausa e poi disse a bassa voce: «Non pensi sia strano che non l’abbia più vista o sentita da quando Bart è morto? Dopo il funerale, Hennequin è improvvisamente scomparsa dalla faccia della terra.»

    «Be’, dubito che fosse la tua cognata preferita» mormorò Rens.

    «È vero, ma ero l’unica a pensarla così.» Guardò nella sua direzione e poi di nuovo avanti. «Pensi che mi stia facendo coinvolgere?»

    «Non necessariamente, ma dopo l’incidente in Belgio credo che faresti meglio a lasciar perdere per il momento. Se desideri mantenere il lavoro, perlomeno.»

    Miriam strinse la mascella. Nella settimana successiva alla morte di Bart aveva guidato fino in Belgio con un’auto della Polizia. Un atto totalmente impulsivo. Aveva fatto il possibile per parlare con gli agenti belgi che erano stati a casa di Bart il giorno dell’incidente e che avevano parlato con la vedova. Non ne aveva discusso con il capo, con nessuno in realtà. Aveva solo guidato fin lì accecata dal dolore. In seguito non capì come aveva potuto agire in modo così sconsiderato. Il suo capo, Karel van der Steen, l’aveva messa in aspettativa per un paio di settimane per farla tornare in sé. «Ma non ti azzardare a fare mai più una cosa simile, Miriam» aveva detto. «In caso contrario puoi cercarti un altro lavoro.»

    Miriam guidò la Volkswagen Touran nel parcheggio. Vide un furgone della Polizia e un’altra auto con gli stessi adesivi blu e arancioni a strisce riflettenti della Touran. Quattro colleghi in uniforme stavano parlando alla luce del crepuscolo. Miriam li conosceva da anni. All’inizio di quella sera si era consultata con alcuni di loro durante la riunione alla centrale. Socchiusero gli occhi al bagliore dei suoi fari. Miriam parcheggiò la macchina in modo che le luci accese puntassero sul lato del furgone e lasciò il motore accesso. Scese e Rens la seguì.

    Parlò brevemente con gli ufficiali e aprì la portiera del furgone. Il primo sospettato, ammanettato, con indosso dei jeans e un cardigan grigio, la fissò con rabbia. Riusciva a vederla a malapena poiché era mezzo accecato dai fari della Touran. Il suo volto era un dipinto di ostilità e frustrazione, ma tenne la bocca chiusa. Per esperienza, probabilmente. Miriam sapeva che ladri del genere non sarebbero mai cambiati. Pensavano di avere il diritto di guadagnarsi da vivere in quel modo. L’arresto era un fastidioso contrattempo e appena usciti di prigione andavano avanti come al solito.

    Disse, in inglese, al giovane arrestato che sarebbe stato portato alla stazione di Polizia per fare una dichiarazione. In alternativa, se voleva parlare prima con un avvocato, avrebbe dovuto passare la notte in cella e attendere fino a quando sarebbe stato disponibile, alle nove del mattino dopo. Senza esitazione, decise per la seconda opzione e diede il nome di un avvocato che era scritto sul suo taccuino.

    «Portatelo alla stazione.» Chiuse la porta scorrevole. «Ci occuperemo di lui domani mattina.» Si voltò e aprì la portiera posteriore della vettura per far entrare un ragazzo nervoso che, secondo la sua carta d’identità, aveva solo diciotto anni. Anche lui scelse di vedere un avvocato.

    «Sono tutti tuoi» disse dopo aver chiuso la portiera.

    Uno degli agenti iniziò a parlare nel suo walkie-talkie per notificare gli arresti alla sala operativa. Se tutto andava come previsto, il personale di custodia sarebbe stato avvisato dell’arrivo dei polacchi in tempo reale.

    Miriam uscì dal parcheggio appena dieci minuti dopo. Se non doveva convalidare un arresto, come aveva fatto poco prima, o presenziare a una scena del crimine, preferiva andare in giro per mantenere un occhio vigile

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